Scorre solenne ancora il Pater Padus, adagiato nella sua gran conca emiliano-lombarda. Nel lungo cammino da secoli ha ricinto due venerande cittadelle di alta preghiera e di inesausto lavoro fra i campi. Al canto del monaco Guido, levato col suo fido coro dalla lontana Pomposa, ha risposto or son mill’anni l’ardente cantiere di opere e studi della roccaforte canossiana che ebbe come nome semplicemente quello del fondatore della nuova civiltà cristiana e romana: San Benedetto. Tra i bodinghi e le gunziaghe delle acque sparse a sud di Mantova, Tedaldo degli Attonidi sin dal 1007 pose un fondamento umano capace di bonificare, regimentare e costruire: un monastero che realizzò con potenza quasi ineguagliata la triplice regola del santo di Norcia: “ora, lege, et labora”!
Dalla confluenza di un antico torrente nel Po l’abbazia si chiamò più estesamente “San Benedetto in Polirone” e lo specifico titolo rimane tuttora, a volte solitario: “il Polirone”! Lo diciamo per il viaggiatore curioso e per il nome facilitante che gli abitanti usano ancor oggi, come del resto gli studiosi e le cronache. Storicamente da Tedaldo a Bonifacio, e da Bonifacio a Matilde di Canossa la protezione dinastica rimase potente e promovente: aumentarono i monaci mentre l’agreste distesa veniva via via segmentata dal reticolo dei fossi e dei tratturi, fecondata da grani e foraggi, costellata da piccole grange per le preghiere diuturne dei fervorosi conversi.
Matilde fu “gran madre” anche per il suo Polirone: mentre si articolavano i chiostri, mentre fiorivano le manifatture sui prodotti e i primi scriptoria, Ella con indicibile cura eresse l’augusta Cappella per la sua tomba, ricca di marmi e di mosaici: piccola “ecclesia” per le adornate liturgie, così amate da lei e così sublimi nei cantici saltoriali. Poco prima della morte la Gran Contessa compì l’atto mutante che afferì al monastero un grandioso respiro: donò l’intera fondazione al papa di Roma, e questi la aggregò direttamente al cuore stesso dei benedettini d’Europa, ossia al monastero-modello di Cluny, la meraviglia di Suger! Questo abate, ammiratore della bellezza del creato, delle sue luci, dei colori dei cieli, portò nelle architetture del gotico incipiente la maestà delle forme e lo splendore delle materie a cominciare dalle pietre stesse, dalle sculture alle vetrate, dai mosaici alle gemme.
San Benedetto Po.Veduta del centro dell’antico monastero, ora cuore dell’abitato. Si notano la Basilica di Giulio Romano, e all’estrema sinistra il grande Refettorio, connotato dagli archetti pensili. |
Basilica di Giulio Romano (1545). Il grandioso respiro della navata centrale, avanzante “a serliane”. |
Veduta trasversale dell’interno della Basilica. Ritmo, spazialità e luce, a misura di Roma. |
Il coro dei monaci dietro all’altar maggiore. Si osservi in alto la decorazione manierista delle volte. |
San Benedetto, forte tra le acque, dopo aver domato la possanza del fiume con i famosi “pennelli”, si allargò in opere edificatorie e soprattutto si dedicò allo studio, alla moltiplicazione dei libri, ai rapporti filosofici e teologici con le altre realtà dell’Ordine e della Chiesa intera, tanto da diventare un cardine culturale, celebre in Italia, e un luogo di convegno di eminenti personalità. Il sito infatti si poneva come punto di un prezioso traghetto assistito sul grande fiume, come tappa per i lunghi viaggi e i pellegrinaggi del tardo medioevo, come sosta capace di foresteria, infermeria, alloggi per gli umani e gli animali, e come ricreazione dell’anima attraverso la partecipazione alla vita religiosa e alla celebre biblioteca. Ne parliamo perché sul finire del XV secolo e agli inizi del 1500 la fioritura di questo monastero era speciosa. Vi si fermò nel 1510 anche un religioso tedesco in viaggio verso Roma, il cui nome era Martin Lutero, e fu ben accolto.
Giovanni Andrea Cortese (1483 - 1548), nato a Modena da distinta famiglia, studente prodigio nelle università giuridiche, segretario personale e amico del giovane Cardinale Giovanni de’ Medici in Roma, e già sacerdote, volle dare improvvisamente una svolta alla sua vita: nel 1508 professò a San Benedetto, lontano dai rumori del mondo, assumendo il nome di Gregorio. La sua eccezionale personalità non gli permise il desiderato totale nascondimento, e i monaci ben presto lo elessero Cellerario (ossia vice-Abate e amministratore) tale che dovette guidare la forte espansione numerica ed edilizia della comunità in un periodo di lunga assenza dell’Abate titolare. Imparò a conoscere un giovane pittore di talento, Antonio Allegri, che sostava volentieri per diversi giorni al Polirone nei suoi viaggi tra Correggio e Mantova, volendo egli studiare molte cose e mostrandosi assai applicato alla storia biblica, alla teologia, all’architettura, e alle varie scienze tutte fermentanti nei chiostri.
Quel giovane sarà poi conosciuto come “il Correggio” (1489-1534) dal nome del luogo natale. Nel 1513 Gregorio lo porta a Roma, dove era appena stato eletto papa il suo amico Giovanni, ora Leone X. Antonio vede e raccoglie tutti i segni artistici dell’antichità e visita con attenzione i lavori di Michelangelo (il Mosè, i Prigioni, la volta biblica della Capella Sistina), di Raffaello (le Sibille a Santa Maria della Pace, le prime due Stanze vaticane, la Madonna di Foligno), e rivede il Bramante già osservato a Milano, che qui aveva iniziato l’enorme nuovo San Pietro con il problema eveniente di porre una amplissima cupola in alto, sopra gli arconi: problema sul quale, per l’ardimento e il peso, si era già acceso un serrato dibattito. Il Correggio studia i primi monumenti cristiani: il Mausoleo di Santa Costanza, il Battistero lateranense, Santa Sabina, e altri controllandone le membrature e le articolazioni. Si rivolge pure all’architettura imperiale nelle prove più sviluppate, come il Pantheon, e come il Settizodio severiano, laddove le colonne assurgevano a un compito elevante di particolare significato. Tutto questo perché al ritorno l’attendeva una prova che Raffaello, adducendo insuperabili motivi, aveva rifiutato con gentilezza al caro abate Cortese. Si trattava di dare al nuovo Refettorio un magnifico apparato dipinto sulla parete frontale quale àmbito e gloria della divina Eucarestia, vero cibo delle anime.
Il Refettorio è ancora un ambiente monumentale, ed era collegato ai chiostri, preceduto dal Fonte per la purificazione. Al fondo della lunga ed alta sala i monaci avevano voluto la raffigurazione dell’ultima Cena, segno del cibo divino quale sacramento istituito da Gesù come offerta di se stesso prima della Passione. Per tale scena si erano rivolti ad un pittore, il converso domenicano Girolamo Bonsignori, onde avere una replica grande del Cenacolo leonardiano, ritenuto insuperabile come immagine. Ora quella tela di forte risalto, eseguita nei primissimi anni del Cinquecento, dopo lunghe traversie e un recente restauro è tornata a risplendere al suo posto ove rimarrà per questi mesi del 2020. Il viaggio a Roma del Correggio fruttò dunque la spettacolare creazione di una architettura emblematica, distesa su tutta la superficie parietale, che rispose ad una profonda disposizione teologica, elaborata dal Cortese e congruente all’intero clima spirituale della vita monastica. Secondo tale disposizione l’offerta dell’Eucarestia sta al centro dei due grandi cicli temporali: quello dell’attesa, dalla creazione alla Incarnazione di Gesù, e quello della Grazia che noi stiamo vivendo dopo la Redenzione. L’affresco del Correggio assume pertanto il primo ruolo, quello del tempo biblico dell’antico testamento, dove il popolo ebraico attendeva esplicitamente il Messia promesso, ma dove pure i popoli pagani in modo misterioso e intuitivo vivevano la medesima aspettativa salvifica.
Veduta intera della parete frontale del Refettorio. La stesura del solenne tempio classico del Correggio, di straordinaria concezione architettonica, contiene sotto la cupola centrale l’Ultima Cena, copiata da Girolamo Bonsignori al convento delle Grazie in Milano, opera di Leonardo. Il tempio rappresenta l’età antica. |
Gli accuratissimi capitelli d’oro, creati e dipinti dal Correggio. Qui l’affaccio del Sacerdote barbaro, bracato. |
La lampada, che scende direttamente dal cielo. L’elegantissimo candeliere, memore dello stilismo del Perugino. Ambedue queste presenze riportano la raffinata cultura orafa di Antonio Allegri. |
Il rilievo della lampada, preso sui ponteggi da Renza Bolognesi, conferma l’estrema attenzione del Correggio ai dettagli più raffinati, come la crocettina di perle sopra l’uovo mistico e le catenelle finissime. |
La stretta consonanza tra il pittore e Gregorio Cortese fece scegliere la realizzazione pittorica di un solenne tempio osservato attraverso una prospettiva veniente da un orizzonte lontano, che portava al centro dei due cicli temporali la Cena di Gesù: ossia tra l’antichità profetica e i monaci viventi nell’abbazia che qui si nutrivano. L’inventio del Correggio si esplica in una mirabile amplissima architettura vista dal basso e in fuga centrale, articolata in un sistema tutto colonnare dell’ordine corinzio portante le volte progressive e trasversali, serranti due maestose cupole: quella più addentro aperta verso il cielo donde discende la lampada della Luce, e quella imminente (otticamente presuntiva ma reale) che copre ad umbraculum la tavola apostolica. Questa stupenda architettura, alta sui podii e inesperita rispetto a tutti i progetti del rinascimento, si può tradurre e lèggere perfettamente in pianta come non mai è possibile per altre membrature dipinte. Un vero abbraccio dell’anima che viene dal giovane Correggio (1513-14).
Per comprendere questo affresco è d’uopo una guida corroborante che conduca innanzitutto attraverso il pensiero creativo e che scandisca via via gli incontri nel tempio solenne dell’antico testamento. Sulla parte sinistra di chi guarda si svolgono le vicende del popolo eletto, gli Ebrei, attraverso le loro Madri, i profeti e il canto di Davide; sulla parte destra (che è la sinistra divina) si colgono i popoli pagani, dai barbari ai greci classici (con la bella Sibilla ellenica), ai Romani che si presentano con Virgilio, il grande poeta mantovano che dalle Georgiche eleva il suo canto dell’ansia di un Messia. Le figurazioni del Correggio si completano, usando un bellissimo monòcromo, nei due episodi che serrano idealmente fra loro la consacrazione eucaristica di Gesù nell’Ultima Cena: da un lato il Sacrificio di Abramo e dall’altro l’offerta sublime di Melchisedech, sacerdote di Dio Altissimo, benchè “gentile” (ossia non ebreo), che porge all’Eterno per sommo onore il pane e il vino !
L’offerta sacrificale di Abramo e l’offerta mistica di Melchisedech fiancheggiano la cena del Signore. |
Particolare del sacrificio di Isacco. Qui l’inconfondibile mano del Correggio appare nell’inesausto tratteggio. |
Questo è il magnifico Refettorio, che negli invernali mesi scorsi ha ospitato una eccellente Mostra legata perfettamente all’Anno di Giulio Romano, celebrato soprattutto in Mantova, ma che a San Benedetto ha potuto offrire la maestosa, splendida architettura della Basilica Abbaziale, dovuta appunto al grande allievo di Raffaello e suo unico progetto monumentale di carattere religioso. Qui Giulio trovò una geniale soluzione di inserimento strutturale e persino urbanistico, muovendo intorno alle sue membrature e alla captazione di una vasta luce una schiera di collaboratori davvero eccezionali. La Mostra e il catalogo hanno avuto la magistrale cura di Paolo Bertelli, con la collaborazione di Paola Artoni, e i contributi di vari ben noti studiosi. La tela del Bonsignori è stata prestata dal Comune di Badia Polesine, dove le vicende secolari la portarono, e quai tutti i pezzi importanti ora rimangono nelle loro collocazioni consuete, in Basilica e nel Museo, cosicché il visitatore può ritrovare in pieno il clima meraviglioso e complessivo dell’arte del XVI secolo, senza perdere i lasciti incantevoli di Matilde di Canossa.
Il visitatore (pellegrino, o studioso, o amante dell’arte) è accolto in primo approccio dal borgo tranquillo, disteso tra i pacifici campi, ed entra in quella dimensione così veracemente umana che porta ancora la cadenza e il respiro dei monaci, come cantava Giovanni Pascoli: hic sata pascua villae (qui semine, campi e ville), e ancora di più: il miele, il vino, i frutti, gli elaborati prodotti dell’agricoltura e degli allevamenti (i formaggi, le mostarde, i primi con le paste ripiene, le torte dolci). Eppoi la visione dei quattro chiostri il cui percorso è sempre emozionante, la silente chiesetta romanica di Matilde coi vividi mosaici, la Basilica, ricchissima in ogni punto (come fossimo a Roma qualcuno ha detto) con l’architettura superba di Giulio Romano, le trentadue statue del Begarelli, i dipinti del Ghisoni e degli altri maestri mantovani e veronesi, il magnifico coro, il famedio di Matilde stessa, e infine la Sacrestia che è un vero monumento del rinascimento maturo.
È importante pertanto una nota di ospitalità per chi vorrà portarsi lietamente a San Benedetto Po. Ecco, bisogna immergersi in questa totalità che è lo specchio della nostra vita umana, fatta di spirito, di attesa dell’eternità beata, e di alimento corporale in bonum animae: per questo anche le trattorie del Polirone e il vino di Achille lasceranno un ricordo beatificante.
Il fronte della Basilica di Giulio Romano come oggi si mostra dopo l’innalzamento centrale del ’700. |
Particolare della testa di Santa Giustina, del Begarelli. Di qui si può cogliere la meraviglia espressa da Michelangelo sul plasticatore padano. |
Giuseppe Turchi (sec. XVIII). La consacrazione di San Nicola a vescovo di Mira. Uno dei molti dipinti dei quali è ricca la Basilica. |
Famedio di Matilde di Canossa come fu composto nel Cinquecento. La Gran Contessa fu sepolta qui, dapprima in un tumulo romanico. Nel secolo XVII fu traslata in San Pietro in Vaticano. |
Sacrestia della Basilica del Polirone. Veduta parziale. L’ambiente è solennissimo, progettato tutto da Giulio Romano e arricchito dagli stupendi armadi di Giovanni Maria Piantavigna (1563) già autore del coro. |
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Giuseppe Adani
Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.