“Quando sarai a Palodes, annuncia che il gran Pan è morto”. Dall’isola di Paxos si leva una voce che sbalordisce tutti i passeggeri della nave: è diretta a Thamus, il timoniere egizio. Sulla nave ci si domanda se non sia il caso di disattendere l’ordine: l’annuncio della morte d’un dio recherebbe scompiglio. Si lascia decidere al vento: se a Palodes ci sarà brezza, Thamus passerà oltre le rive in silenzio. Se ci sarà bonaccia, l’annuncio verrà riferito. A Palodes non c’è neppure una bava di vento. Il mare è fermo. E allora Thamus si sposta sulla poppa della nave e grida verso terra: “Il gran Pan è morto”.
La morte di Pan, raccontata nel Tramonto degli oracoli di Plutarco, rimane uno degli enigmi più appassionanti della letteratura classica. È l’unico dio di cui una fonte antica racconti la morte. Non siamo ancora certi di cosa abbia voluto dire Plutarco mettendo in bocca allo storiografo Filippo l’allucinante aneddoto. Il grande Pan, il dio dei boschi, il dio che vive nella natura, il dio ch’esprime la vitalità, gl’istinti, gli slanci naturali, non c’è più. Com’è morto? Bertozzi & Casoni se lo sono immaginati impiccato a un lampadario di Capodimonte, nella loro opera più recente, un lavoro travagliato che ha richiesto quasi un quarto di secolo per esser terminato ed esposto al pubblico. Lo vediamo dopo una discesa nelle viscere della Rocca Sforzesca di Imola. Tra le mura fredde della fortezza che fu al centro di feroci battaglie sul finire del Quattrocento. Congiure, guerre, un assedio. Poi nell’anno 1524 diventata tetro carcere e tale rimasta fino a pochi decennî fa. Delinquenti comuni, ladri, assassini, prigionieri politici, antifascisti. Gli occhi di chissà quanti che si son posati sulle pietre della Rocca prima di spegnersi del tutto.
Il fauno di Bertozzi & Casoni si è suicidato nella Rocca di Imola. Lo troviamo appeso nel torrione sud-orientale, in un vano spoglio, quadrato, nessuna veduta esterna, un’apertura sulla parete a far filtrare un poco di luce, minima consolazione. Ultima opera a cui ha lavorato Stefano Dal Monte Casoni prima della sua scomparsa prematura, è stata portata a termine da Giampaolo Bertozzi che ha così concluso un lavoro cominciato nel 2000, da una visione, da un ricordo. I prodromi, negli anni Ottanta, son quelli raccontati da David Riondino: “volavano / verso Pompei azzurra e rossa, nel caldo estivo, che li rapiva / in danze floreali, pareti carminio e schiavi e dame, / e pesci in mosaico e boschi, navi meraviglie / che la grande nuvola grigia un giorno seppellì, per farceli ritrovare. / Il dio Pan, dalle foreste dipinte delle rosse pareti, li guardava andare, / e diede l’ordine ai satiri e alle ninfe di accompagnarli / nel tesoro di porcellane di Capodimonte: / lampadari barocchi, gialli e verdi e blu / trionfo dei sensi, materia viva, passione e luce”. Anni dopo, appena usciti da una mostra a Torino, Stefano Dal Monte Casoni ha come una visione, anche lui è richiamato da un qualcosa che somiglia alla voce che scuote la nave di Thamus: dare concretezza alla visione del suicidio del fauno. “Te lo immagini un fauno impiccato a un lampadario?”. Dice così a Giampaolo Bertozzi. L’idea è rimasta poi in fase d’elaborazione per anni, s’è addormentata, s’è ridestata, a fasi alterne, poi è tornata e s’è fatta ceramica, e adesso il fauno è lì che pende nell’umido della Rocca Sforzesca di Imola, col sole che filtra ma non scalda, col rumore del vento che agita le fronde dei platani.
L’hanno chiamata La morte dell’eros, anche se l’erotismo c’entra poco. C’entra poco pure il saggio che Giuseppe Rensi aveva scritto nel 1928, stesso titolo, riferimenti a Platone. C’è però una sorta di sentire lontano e comune: per Platone l’eros è una forza vitale che muove l’anima, spinge l’essere umano a comprendere la verità, dall’eros discende la filosofia. Nel gran teatro dionisiaco dell’antichità, spesso Pan è in lotta contro Eros, inteso come dio dell’amore. Ma anche a volerla leggere in questo modo, senza eros non esiste più motivo di vivere neppure per Pan. Per Bertozzi & Casoni l’eros è slancio puro, è passione disinteressata, forza d’immaginazione, desiderio di bellezza, voglia di conoscenza, impulso sano, energia vitale. “A Capodimonte avevamo visto lampadari fantastici con foglie, fiori e paesaggi dipinti, tutto era immerso in un immaginario classico e romantico, un mondo ormai perduto, tra antichi splendori, scoperte orientaleggianti, pappagalli coloratissimi, fauni che facevano capolino tra boschetti con ninfe al bagno”. Il fauno di Bertozzi & Casoni sceglie d’impiccarsi proprio a un lampadario che dà concretezza visiva a quel mondo così vario e colorato. Una visione che sorprende, perché giunge inaspettata mentre ci s’inoltra nel ventre della Rocca Sforzesca. Una visione che disturba, perché l’imitatio di Bertozzi & Casoni sembra più reale del reale, anche se dà vita a una loro fantasia, e suscita dunque uno stupore vero, uno stupore barocco di fronte a una morte insolita, inattesa, teatrale. Il fauno è lì dentro la torre che penzola esangue, morto da poco, la corda ancora tra le mani, gli occhi non ancora chiusi del tutto, la bocca socchiusa come a esalare gli ultimi soffi.
Anche Picasso aveva fatto morire un fauno, in un’illustrazione per un racconto del suo amico Ramón Raventós, la storia d’un fauno che s’inurba e muore di dolore per una ballerina che al suo posto sceglie un essere umano. Nel lavoro di Bertozzi & Casoni la sofferenza del fauno è universale. La morte dell’eros è disillusione, consapevolezza che le passioni sono state spente, che l’età dell’oro non esiste più, fine del mito, fine dei sogni, fine di tutto. Constatazione drammatica che un mondo è andato e non tornerà. Presa di coscienza che il mondo un tempo giovane, voglioso, fertile adesso è invecchiato, debilitato, malato. Il dio se n’è reso conto e s’è tolto la vita. Ai primi del Novecento, Gaston La Touche, in un suo quadro dai forti accenti simbolisti, molto apprezzato al tempo, aveva immaginato una morte diversa per il suo fauno, lo aveva fatto morire in mezzo ai suoi boschi, sotto a un grande albero, attorniato da compagne e compagni, in una specie di elegia pastorale. Qui, invece, il fauno muore nella solitudine d’una fortezza minacciosa, angusta, livida, lontano da quella natura selvaggia dov’è sempre vissuto, senza nessuna ninfa a piangerlo, senza neppure il conforto delle sue bestie.
È dunque morto il dio? D’Annunzio apriva le Laudi con un urlo, diretto a tutti: contadini, donne, bambini, vecchi, figli del mare. “Mentì la voce dinanzi alle dentate / Echinadi tonante nella calma d’estate / Verso la nave”. Mentì la voce che gridò a Thamus di dare l’annuncio, e tocca dunque far risuonare un’altro annunzio: “Il gran Pan non è morto”, “e il terrore sacro si propagò ai confini dell’universo”. Nessuno però colse l’annuncio, nessuno tremò, nessuno sembrò sbalordito. Il fauno allora è morto davvero? Quel suicidio è reale? È solo una messinscena? C’è da crederci? Gli dèi possono davvero morire?
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).