La curiosa e insolita vicenda della pala che Federico Zuccari dipinse per la Cappella Farrattini nel Duomo di Amelia in Umbria, capolavoro giovanile del pittore marchigiano, è una bella storia che ci parla d’una separazione e d’un ricongiungimento. Oggi abbiamo facoltà d’ammirare la Pala Farrattini nel luogo per il quale fu concepita, ma per lungo tempo l’opera di Federico Zuccari rimase lontana dalla sua sede originaria, e il suo ritorno è un fatto recente. Possiamo ritenerci fortunati: non sono molti i casi di pale d’altare che, uscite dai loro contesti, vi sono poi tornate a distanza di decennî, se non di secoli. Anzi: sono decisamente rari, e quando si verifica un evento del genere si è soliti salutarlo come un qualcosa di totalmente inaspettato, come un avvenimento circonfuso d’un’aura miracolosa. L’episodio più recente che sovviene è quello del Trittico Ringli del Maestro di Sant’Ivo, eseguito nel 1438 per la chiesa di San Pietro ad Avenza, frazione di Carrara, uscito dal territorio apuano forse già verso la metà del Quattrocento, e poi tornato sul mercato nel 2018, quand’è stato acquistato in un’asta da Sotheby’s dalla Galleria Salamon di Milano, che l’ha poi venduto l’anno successivo alla parrocchia di Avenza, a un prezzo di favore: la tenacia del parroco, don Marino Navalesi, ha spinto la comunità carrarese a partecipare numerosa alla raccolta dei fondi necessarî a riottenere la pala, che a seicento anni di distanza è così tornata nella sua chiesa nel tripudio generale.
Qualcosa di simile accadde nel 1990 per la pala di Federico Zuccari. Il committente, Baldo Farrattini, esponente d’una delle famiglie più in vista di Amelia (dopo la sua scomparsa gli sarebbe subentrato il nipote Bartolomeo, vescovo di Amelia dal 1562), aveva probabilmente chiesto l’opera in un primo momento al fratello di Federico, Taddeo Zuccari, che però era preso da impegni e aveva girato l’incarico al fratello minore, che dovette destreggiarsi, ha scritto la studiosa Margherita Romano, “fra la presenza della personalità di rigore che sovrintendeva e rifiniva magari in prima persona alcuni personaggi, e la voglia di autonomia e di dare espressione alla sua crescente sensibilità artistica cercando di acquisire un proprio territorio, un proprio ambito di lavoro”. La vicenda rimonta all’inizio degli anni Sessanta del Cinquecento (o forse anche a qualche tempo prima), quando Federico aveva poco più di vent’anni e s’era recato in Umbria al seguito di Taddeo, cui era stato affidato, in data 18 maggio 1559, il compito di dipingere una delle cappelle laterali del Duomo di Orvieto, la Cappella dello Stucco (vi avrebbe lavorato anche Federico, dipingendo tre storie di san Paolo). Il giovane, desideroso di mettersi in mostra, non tardò a consegnare il dipinto, che per secoli rimase lì nella sua sede, la Cappella Farrattini: poi, nel 1881, gli eredi trasferirono la grande tavola, alta più di tre metri, nel palazzo di famiglia ad Amelia, sostituendola in loco con una copia eseguita quello stesso anno dal pittore perugino Alfonso Morganti, e per più di un secolo l’opera rimase lontana dalla sua sede. Finché, nel maggio del 1990, la pala fu messa in vendita in un’asta da Christie’s, col rischio che finisse in una collezione privata, lontana dalla sua cappella. Fu però provvidenziale l’intervento della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, che la acquistò per 100 milioni di lire e decise, con somma intelligenza, di farla restaurare e, due anni più tardi, di ricollocarla al suo posto, dove tuttora la può vedere chiunque giunga in visita al Duomo di Amelia, in mezzo ai monumenti funebri di Baldo Farrattini, opera di Ippolito Scalza, e di Bartolomeo, lavoro di Giovanni Antonio Dosio.
Il rocambolesco rientro non è però l’unico dei motivi d’interesse suscitati dalla Pala Farrattini, ch’è possibile annoverare tra le opere più significative di questa zona dell’Umbria nonostante appaia danneggiata in diverse parti, soprattutto lungo le commessure delle assi e in corrispondenza del volto all’estrema sinistra. Intanto, è un’aggiunta relativamente recente al catalogo di Federico Zuccari: tutte le fonti antiche la citano come opera di Taddeo. È occorso il lavoro della storica dell’arte Giovanna Sapori, durante gli anni Novanta del secolo scorso, per stabilire la corretta autografia del dipinto, e assegnarlo alla mano d’un giovanissimo Federico intervenuto per dare un supporto al fratello oberato d’impegni, e al quale può tuttavia essere ricondotta l’idea primigenia della pala. “Mi sembra che sia da riconoscere come una delle rare pale d’altare dell’attività giovanile di Federico, e precedente ai grandi dipinti del duomo di Orvieto, commissionati nel 1568”, scriveva Sapori, in accordo dunque con Mariano Guardabassi che, nel suo Indice-Guida dei Monumenti dell’Umbria del 1872, per primo parlava dell’opera come “attribuita a Federico Zuccari”. L’argomento è stato poi ulteriormente approfondito da Sapori in uno studio successivo, ma già Cristina Acidini Luchinat, nella sua monografia sui fratelli Zuccari del 1998, s’era dimostrata concorde sull’attribuzione. “Le campiture ferme e piene di colori squillanti, arditamente accostati”, ha scritto la studiosa, “lo mostrano aderente alla maniera dal fratello, confermando una datazione precedente il viaggio a Venezia” (il soggiorno veneto rimonta al 1564).
Lo schema compositivo è di quelli più frequenti all’epoca: è una delle tante derivazioni dalla Madonna del Baldacchino di Raffaello, con la Madonna e il Bambino posti su di un alto podio, gli angeli in alto che scostano la cortina (anche se in questo caso non vediamo una tenda, ma un drappo d’un verde giada particolarmente vivo che copre lo schienale del trono, e gli angeli in alto invece di spostare i due lembi stanno sollevando una corona), e i santi disposti in rigorosa simmetria: vediamo san Pietro a sinistra e san Bartolomeo a destra, ovvero i santi eponimi del fratello e del nipote del committente Baldo Farrattini, mentre alle estremità è stato proposto di riconoscere santa Lucia e san Giovanni. Gli esempî che poterono ispirare i fratelli Zuccari sono numerosi, ma per limitarsi agli artisti d’area umbro-marchigiana che guardavano a Raffaello, ovvero quelli che potevano risultar loro più familiari, si può chiamare in causa la Madonna col Bambino e santi che Raffaellino del Colle dipinse nel 1543 per Sant’Angelo in Vado, la cittadina d’origine di Taddeo e Federico, oppure, per la posa del Bambino, il Matrimonio mistico di santa Caterina d’Alessandria di Orazio Alfani oggi al Louvre ma un tempo a Perugia in San Francesco al Prato. L’impianto della Pala Farrattini, sviluppato in senso ascensionale, è composto, equilibrato, rigoroso, anche se osserviamo, nel registro inferiore, diversi elementi che in parte spezzano quest’armonia assoluta: il gradino del trono su cui poggia il piede san Bartolomeo e che non ha il proprio corrispettivo sul lato opposto, lo stesso ginocchio avanzato del santo la cui forma è accentuata dalla luce che inonda il tessuto rosso cangiante, la nonchalance della posa di san Pietro che peraltro distoglie lo sguardo dalla Vergine col Bambino. Da notare poi il globo sul quale il piccolo Gesù pone la sua mano: non è una sfera stilizzata e perfetta come se ne trovano spesso nelle opere del tempo, ma pare quasi un mappamondo, uno strumento scientifico, un brano di vivo realismo in una pala che si distingue per il suo marcato classicismo.
Si potrà concludere con un’ultima curiosità: si osservi il volto all’estrema destra, quello della figura ch’è stata interpretata come san Giovanni. Sta rivolgendo lo sguardo verso l’esterno, verso di noi, nella consueta posa che gli artisti assumono allo specchio mentre ritraggono se stessi. Tanto che la sunnominata Margherita Romano ha proposto (correttamente ad avviso di chi scrive) d’identificare in quel volto biondo, sornione e dalla barba appena accennata un autoritratto dello stesso Federico Zuccari ventenne. È, in effetti, un volto molto caratterizzato, e presenta alcuni dettagli somatici che si possono confrontare coi ritratti del Federico maturo: gli occhi grandi ed espressivi, la lunga arcata sopracciliare, il naso pronunciato, la fronte spaziosa. Eccolo allora, il giovanissimo Federico Zuccari, già autorevole e sicuro di sé come sarebbe stato per tutta la carriera, a guardarci dalla sua pala, dentro al Duomo di Amelia, nella splendida cappella per la quale fu dipinta, da dove fu allontanata, e dov’è infine rientrata, come nelle più belle storie dal finale felice.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).