Pablo Picasso (Málaga, 1881 - Mougins, 1973) arrivò tardi alla ceramica. Non che non avesse mai avuto l’opportunità di vederla da vicino, e anche di cimentarsi con questo antichissimo mezzo espressivo: aveva poco più che vent’anni quando la scoprì a Parigi, grazie all’amico Paco Durrio (Francisco Durrio de Madrón; Valladolid, 1868 - Parigi, 1940), col quale studiò le ceramiche di Gauguin e cominciò a esplorare le possibilità che la ceramica gli avrebbe offerto, e con cui iniziò anche a modellare qualche scultura. Erano, tuttavia, esperimenti privi di carattere sistematico, sporadici, come quando nel 1929 dipinse un vaso realizzato dal ceramista olandese Jean van Dongen (Delfshaven, 1883 - Marly-le-Roi, 1970), ma la passione per la ceramica era ancora lontana. L’occasione di approfondire questa tecnica arrivò nel dopoguerra: Picasso, nel 1946, soggiornava ad Antibes, e l’estate di quell’anno si recò per la prima volta lì vicino, a Vallauris, borgo della Costa Azzurra famoso per la sua produzione ceramica. Lasciata alle spalle la seconda guerra mondiale, arrivati il successo, la maturità artistica e anche una certa tranquillità personale, Picasso poteva dedicarsi totalmente alla ceramica: dopo aver visitato la fabbrica di ceramiche Madoura, ebbe l’idea di tracciare sul foglio alcune idee con le quali poi si ripresentò da Madoura l’estate successiva, con l’idea di trasformare le idee in prodotti. Decisivo fu l’incontro con Suzanne e Georges Ramié, i proprietarî della manifattura: li aveva conosciuti a una mostra, nel 1946. Il pomeriggio stesso era andato a trovarli nel loro laboratorio e aveva già cercato di realizzare alcune figure. Con i Ramié, l’artista spagnolo non soltanto poté imparare le tecniche, grazie anche all’aiuto di Jules Agard (Grans, 1871 - 1943), il più talentuoso tra i ceramisti che frequentavano l’atelier dei Ramié, ma anche inserirsi nella comunità di Vallauris. Nella cittadina provenzale, Picasso si trattenne fino al 1954, dopo esservisi trasferito con tutta la famiglia, e lavorando regolarmente nel laboratorio di Madoura.
“È degno di nota”, spiega Harald Theil, che assieme a Salvador Haro González cura la mostra Picasso. La sfida della ceramica (al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza dal 1° novembre 2019 al 13 aprile 2020), “il fatto che il suo lavoro ceramico non nacque da un impulso spontaneo. Dopo la sua prima visita alla ceramica nel 1946, iniziò con i disegni preparatori per ceramiche tridimensionali, partendo dal vaso che trasformò in rappresentazioni umane o animali. Conosciamo settanta fogli di disegni preparatori per le forme ceramiche. Essi dimostrano che la prima attività ceramica di Picasso non fu casuale, ma, piuttosto, il risultato di una riflessione e di una preparazione. In questo senso, il processo creativo è lo stesso seguito per le sue sculture e i dipinti, a partire dai disegni che utilizzano il metodo della serie, della variazione e della metamorfosi”. Gli oggetti di ceramica diventarono l’oggetto con cui Picasso condusse le sue sperimentazioni, tanto da abbandonare quasi del tutto la pittura e la scultura: in un solo anno, l’artista produsse un migliaio di pezzi, molti dei quali oggi conservati anche in raccolte pubbliche italiane (a cominciare da quella del MIC di Faenza). Non solo: grazie alla ceramica, a Vallauris Picasso provò anche un nuovo modo di lavorare, più collaborativo, lui che era un artista poco incline alle collaborazioni (se si eccettua quella con Braque a inizio carriera, fino all’esperienza di Vallauris non ci sarebbe stato più niente di simile in tutta la sua carriera: con Agard e i Ramié, infatti, i rapporti furono molto stretti, e poi la ceramica, per riuscire bene, necessitava di un ottimo lavoro di squadra da parte di tutto lo staff del laboratorio). Picasso amava molto il fatto che la ceramica combinasse assieme pittura e scultura: così, gli capitava di modellare vasi che parevano vere sculture (è il caso, ad esempio, del Vaso-donna con anfora, opera del 1947-1948 conservata al Musée National Picasso di Parigi), e di dipingere su piatti. Anche se dipingere su ceramica non era come dipingere su cavalletto: quando si dipinge su tela, su tavola, su carta, o comunque su di un supporto che è già pronto, si vedono i risultati in tempo reale. Con la ceramica funziona diversamente: i colori si vedono solo a cottura ultimata, pertanto il corretto bilanciamento della preparazione (che appare di colore grigiastro), per Picasso, rappresentava anche una sorta di sfida (ed è anche per tale motivo che i primi pezzi della produzione ceramica di Picasso hanno una gamma cromatica molto ridotta). E lo stesso vale per la velocità con cui occorre portare a termine il lavoro, perché l’argilla, com’è noto, ha proprietà assorbenti, e per evitare che la preparazione asciughi troppo in fretta è necessario essere rapidi: Picasso, peraltro, sfruttò questa caratteristica a suo vantaggio, perché in questo modo poteva conferire maggior tensione e dinamismo al soggetto raffigurato (si veda il Vassoio con colomba del MIC di Faenza, dove il pennuto sembra quasi in movimento).
L’artista era molto attratto da questo incontro tra gli elementi, dal fuoco che trasformava la terra in un oggetto del tutto nuovo. “L’antico concetto di metamorfosi”, ha scritto la studiosa Marilyn McCully, “è fondamentale per comprendere l’atteggiamento di Picasso nei confronti della ceramica: le sue opere mantengono vive le due identità, senza che la prima venga del tutto negata dalla seconda. Così, add esempio, un piatto diventa anche una testa e una bottiglia può diventare un uccello. Realizza queste trasformazioni sia manipolando le forme appena tornite, come quando ripiega una bottiglia di argilla su se stessa per poi comprimerla in modo da conferirle la forma di una colomba, sia dipingendo forme che rientrano nella abituale produzione di Madoura”. È ciò che accade, per esempio, nella Bottiglia: donna inginocchiata realizzata a Vallauris nel 1950. E poi, a Picasso piaceva modellare l’argilla con le mani: “l’elemento più raro e magnifico delle sue ceramiche, sono le sue mani”, ha detto Georges Ramié. Questa fascinazione per il contatto col materiale, uno dei motivi che spingono molti artisti a lavorare con la ceramica, riportava Picasso all’antico. Anche perché la ceramica è una delle forme d’arte più antiche che si conoscano: da millenni l’uomo produce utensili in argilla, e una forma d’arte così antica e di così largo uso sembrava a Picasso adatta anche per far arrivare l’arte contemporanea a un pubblico più ampio. Così, Picasso cominciò a trovare le sue fonti d’ispirazione proprio nella ceramica antica.
Picasso nell’atelier di Madoura a Vallauris |
Pablo Picasso, Vaso: Donna con Anfora (1947-1948; Vallauris, ottobre; terra bianca: elementi torniti, modellati e assemblati, decoro a ingobbio e smalto bianco, incisioni, patina dopo la cottura, 44,5 x 32,5 x 15,5 cm; Parigi, Musée National Picasso). Ph. Béatrice Hatala |
Pablo Picasso, Bottiglia: donna inginnocchiata (1950, Vallauris; terra bianca: pezzo tornito e sagomato, decoro con ossidi su smalto bianco, 29 x 17 x 17 cm; Parigi, Musée National Picasso). Ph. RMN- Grand Palais (Musée National Picasso - Paris) / Béatrice Hatala |
Pablo Picasso, Vassoio con colomba (ottobre 1949, Vallauris; terraglia dipinta e invetriata,32 x 38,5 cm; Faenza, Museo Internazionale della Ceramica) |
“Sia per le forme che per i temi”, afferma Theil, “gran parte della ceramica di Picasso è stata profondamente influenzata dalle antiche civiltà del Mediterraneo e da molti altri esempi del patrimonio ceramico universale”. L’artista si ispirava a “vasi figurativi a forma umana o animale, soprattutto oggetti votivi o altri utilizzati per libagioni, per contenere profumi, o urne funerarie etrusche, vasi greci a forma di teste femminili, o di donne”. Picasso era del resto un grande conoscitore della storia dell’arte, aveva studiato l’arte delle antiche civiltà del Mediterraneo, e quando risiedeva a Parigi non perdeva occasione per recarsi al Louvre a studiare i manufatti antichi (la mitologia, com’è noto, ha avuto un ruolo determinante per gran parte della sua arte, non solo su ceramica). E ancora, spiega Theil, “Picasso possedeva molti libri illustrati relativi all’arte antica e utilizzava anche fonti fotografiche, comprese molte riproduzioni di arte antica pubblicate nei vari numeri di famose riviste d’arte francesi come Cahiers d’Art, Documents e Verve. Fortemente ispirata alle figure rosse e nere dei vasi greci antichi che evocano temi arcadici e dionisiaci, questa iconografia è apparsa nei suoi dipinti dopo il 1945, nelle sculture modellate e nei soggetti dipinti sulle sue ceramiche”. L’antichità classica forniva a Picasso un vasto repertorio di storie, temi, figure con le quali realizzare oggetti in continuazione. E anche gli stessi oggetti, come il vaso con Picador del MIC, che nella forma ricorda un oinochoe, una brocca per versare vino, e propone la decorazione a figure rosse inventata ad Atene nel sesto secolo avanti Cristo.
Tornano dunque anche nella ceramica i motivi che animavano le sue pitture o le sue sculture, anche perché Picasso non era abituato a lavorare a compartimenti stagni, e la ceramica non era separata dalla produzione pittorica o da quella scultorea: la produzione dell’artista spagnolo va vista e valutata come un unico insieme. Giusto a titolo d’esempio, la sua celeberrima Suite 347, la colossale serie d’incisioni sulla quale, tra il marzo e l’agosto del 1968, Picasso riversò gran parte del suo immaginario, incluse le fantasie derivanti dalla mitologia greco-romana, ha numerosi punti di contatto con la ceramica, specialmente a livello tecnico (in un suo saggio del 2015, Haro González, prendendo come esempio la stampa Al circo: cavallerizza, clown e Pierrot, ha rimarcato che Picasso aveva adoperato la tecnica dell’acquatinta, mediante la quale le figure bianche si ottengono applicando una vernice che ripari la lastra dal processo di acidatura con il quale vengono annerite le parti scure, dopo aver provato a lungo un procedimento simile nella ceramica: in diversi suoi pezzi, Picasso, invece di immergere l’intera ceramica dello smalto, applicava quest’ultimo con il pennello solo su alcune porzioni, in modo tale da creare zone diverse di aspetto e capaci di provocare anche sensazioni differenti al tatto). Tornando al rapporto con l’antico nelle ceramiche di Vallauris, la sua compagna di allora, Françoise Gilot, che fu con lui tra il 1943 e il 1953 e gli diede i due figli Paloma e Claude, ricordava (a riportarlo è Marilyn McCully) che Picasso amava gli idoli cicladici, i kouroi dell’arte greca e la scultura funeraria etrusca. A Vallauris, la fonte per le sue opere tuttavia non erano soltanto le sue reminiscenze del Louvre, ma erano anche le illustrazioni che trovava sui libri pubblicati dall’amico Christian Zervos, editore d’arte che il pittore aveva conosciuto durante i suoi primi anni a Parigi: Picasso, pertanto, era “profondamente consapevole della forza perdurante delle forme antiche”, sottolinea McCully. “In momenti significativi della sua carriera, Picasso compie spesso dei vitali balzi in avanti nel suo sviluppo artistico grazie all’esplorazione dei segreti dell’arte primitiva”: e finisce per scoprirsi “capace di asservire la magia dell’arte antica al proprio potere creativo”. Una delle più singolari fusioni tra antico e moderno, tra “magia dell’arte antica” e “potere creativo” di Picasso è il vaso noto come Le quattro stagioni, conservato anch’esso al MIC di Faenza: qui, Picasso sfrutta la svasatura tipica dei recipienti prodotti dalla manifattura di Madoura per sottolineare ed esaltare le fattezze delle quattro donne che compaiono sulla superficie del vaso, lavorando con una tecnica sconosciuta alla Grecia antica, quella dell’ingobbio. L’artista, procedendo dapprima con la graffitura per tracciare, attraverso incisioni sulla creta, i corpi nudi delle quattro giovani, applicava l’ingobbio, composto che serve per dare la colorazione all’opera.
Pablo Picasso, Le quattro stagioni (maggio 1950, Vallauris; terracotta graffita e dipinta a ingobbi, 65 x 32 cm; Faenza, Museo Internazionale della Ceramica) |
Pablo Picasso, Picador (1952, Vallauris; terracotta con smalto, 13,2 x 11,5 x 8,2 cm; Faenza, Museo Internazionale della Ceramica) |
L’arte antica non era solo fonte di motivi decorativi. S’è detto che la mitologia occupa un ruolo importante nell’arte di Picasso: anche nella ceramica, pertanto, si ritrovano molti motivi tratti dalla mitologia. È stato però rilevato che cambia la funzione del repertorio desunto dalle storie dell’antica Grecia: se negli anni Trenta e durante la seconda guerra mondiale la mitologia in Picasso era foriera d’inquietudine, con la sua carica violenta e brutale (si pensi alla figura del minotauro e alla sua importanza nell’arte di Picasso durante gli anni delle dittature), a Vallauris tutto è pervaso da un’inedita joie de vivre. E Joie de vivre è, appunto, il titolo di un suo famoso dipinto realizzato nell’ottobre del 1946: terminato il conflitto, lasciate alle spalle anche alcune tormentate vicende personali (a cominciare dalla morte della madre Maria Picasso López, scomparsa nel 1939), è tempo di rinascere, di celebrare la pace. Così, nel grande dipinto oggi conservato al Musée Picasso di Antibes, assistiamo a una gaudiosa danza: una ninfa nuda (forse la stessa Françoise Gilot) balla con un tamburello al centro di una composizione dove prevalgono toni chiari e riposanti, seguendo il suono prodotto dal piffero di un centauro a sinistra e dal diáulos, il doppio flauto, suonato dal fauno che chiude a destra il gruppo completato da due capretti che saltano vicino alla donna. Sullo sfondo il mare della Costa Azzurra solcato da una barca, e tutt’attorno prati, fiori, alberi. Regna un’atmosfera lirica, briosa, luminosa, è un dipinto che esprime la felicità che aveva pervaso l’artista: le storie mitologiche non sono più storie di violenza, ma sono ambientate in un’idilliaca Arcadia dove tutto è festoso, a metà tra la favola antica e i trionfi colorati di Le bonheur de vivre di Matisse.
Satiri, fauni, centauri, ragazze danzanti sono i personaggi che popolano i dipinti di Picasso in questo periodo. E le ceramiche, ovviamente. “È strano”, affermò Picasso, “a Parigi non avevo mai disegnato fauni, centauri, o eroi della mitologia... ho sempre avuto l’impressione che vivessero qui”. Non era vero, perché comunque Picasso a Parigi qualche volta aveva disegnato fauni e centauri, ma dopo il 1946 queste figure assumono nuovi significati. Questi personaggi, che compaiono di frequente nelle ceramiche di Vallauris (si vedano, ad esempio, il Centauro itifallico del 1950, o il Volto di fauno tormentato del 1956, per non parlare poi di animali comunque legati alla mitologia che tornano spesso nella sua produzione, come nel caso della civetta, animale legato alla dea Atena), simboleggiano il ritorno dell’artista alla vita, alla natura, all’amore. Sono i personaggi che popolano i racconti dei protagonisti della poesia bucolica dell’antichità classica. E che diventano motivo ricorrente nell’arte di Picasso di questo periodo, segnato dalla gioia, dall’armonia, forse anche da un lieve senso di nostalgia.
Pablo Picasso, Centauro (1950 circa, Vallauris; terracotta dipinta, 18,7 x 18,4 x 1,5 cm; Faenza, Museo Internazionale della Ceramica) |
Pablo Picasso, Volto di fauno tormentato (1956, Vallauris; terraglia dipinta e invetriata, 3,7 x 42,5 cm; Faenza, Museo Internazionale della Ceramica) |
Pablo Picasso, Civetta con testa femminile (1951 - 27 febbraio 1953, Vallauris; Terra bianca: fusione. Decorazione con ingobbio e pastello, 33,5 x 34,5 x 24 cm; Parigi, Musée National Picasso – Paris). Ph: RMN- Grand Palais / Mathieu Rabeau |
La grandezza di Picasso, si sa, risiede anche nella sua capacità di rinnovarsi in continuazione, su tutti i piani: tematico, stilistico, tecnico. L’artista lo ha dimostrato anche con la ceramica, che rappresenta un momento lungo e importante del suo percorso artistico, come s’è visto. “Picasso”, sostiene Haro González, “è stato capace di assimilare tutte le particolari caratteristiche tecniche e le tradizioni stilistiche insite nel mezzo ceramico mantenendo la capacità di riorientarle verso nuovi orizzonti e verso il proprio modo di intendere la creazione artistica. La sua produzione ceramica, infatti, è parte indissolubile di tutta la sua opera. Vale a dire, non è possibile comprendere l’opera di Picasso in una specifica disciplina, in modo isolato, ma solo considerando tutta l’opera dell’artista come un insieme organico e rizomatico, in cui tutti gli elementi sono strettamente correlati”.
Non solo: Haro González afferma che la ceramica, per Picasso, ha avuto anche un obiettivo ulteriore, un obiettivo “democratico” come lo definisce lo studioso: “Picasso voleva che la sua arte arrivasse al grande pubblico e che si distaccasse dal dominio esclusivo dei collezionisti della sua arte. La ceramica era una forma d’arte popolare e, poiché gli oggetti in ceramica facevano parte della vita quotidiana, potevano contribuire a creare una maggiore vicinanza con l’arte moderna”. Un’arte moderna capace comunque di rileggere l’antico con l’urgenza di un uomo e di un artista fortemente legato al suo tempo, che seppe far rivivere l’arte classica riversando tutte le sue angosce, le sue gioie, le sue sensazioni nei personaggi che animavano le sue opere. E la ceramica non faceva eccezione.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo