L’Oriente come costruzione mentale dell’Europa è sempre stato individuato e visto come un territorio misterioso e lontanissimo, antico e selvaggio. Questo costrutto ebbe confini geografici assai labili, che gli europei hanno spinto sempre più lontano con il procedere delle nuove scoperte geografiche e rotte commerciali. Il termine Oriente, che spesso includeva la visione di tutto ciò che è diverso ed esotico, poteva indicare la Turchia, così come il Marocco, l’Egitto, fino alla Siria o alla Cina.
Si tratta di una realtà che è sempre stata vista in dualismo con l’Occidente, e anzi, è stata fondante per la definizione identitaria dell’Europa, che nel confronto con quelle culture diverse si riconosce come un tutt’uno. Non stupisce allora, che questo territorio indefinito e vastissimo, visto con ostilità e timore, sia diventato, per la cultura occidentale, il teatro ideale di storie e leggende misteriose, esotiche e terribili, dai miti nati attorno alle conquiste di Alessandro Magno in India, ai fantasmagorici racconti di Marco Polo, ai bestiarî medievali. E quando queste terre, anche le più remote, hanno smesso di essere irraggiungibili per aprirsi ai viaggiatori occidentali, la percezione europea trasfigurata da miti e preconcetti era talmente consolidata che ancora nel XIX e XX secolo permaneva una visione dell’Oriente da favola. Un facile riscontro di questo complesso immaginario si ha in letteratura da Baudelaire a Flaubert, come in musica con Il Ratto del Serraglio di Mozart ad esempio, ma anche la pittura non è esente dalla fascinazione orientale, che anzi si impone a più riprese e con stilemi e interessi diversi nel corso dei secoli, ponendosi come un medium per veicolare gli appetiti e i sogni erotici che l’Occidente riponeva sulla donna orientale e i suoi costumi. Accadde pertanto che nel XIX secolo, in concomitanza con una lunga stagione dove l’amore per l’esotico e l’Oriente tornò in auge, favorita dalle nuove campagne napoleoniche, scoperte archeologiche e missioni coloniali, l’immaginario sull’Oriente si depauperò dalle figure di mostri e altre bizzarrie per consolidare invece un repertorio legato all’evasione dai vincoli del buon vivere borghese: un immaginario di fantasticherie sessuali, attacchi alle inibizioni, costellato di luoghi e ambienti dediti alla perdizione, di atmosfere peccaminose e proibite. L’arte e la pittura accolsero questi soggetti in bilico tra erotismo ed esotismo, con il favore delle ricche committenze.
Peraltro, curiosamente, già la storia dell’arte registra un illustre precedente fra gli incontri tra un pittore occidentale e soggetti erotici ambientati in Oriente: si tratta dell’avventura di Gentile Bellini, che arrivato a Istanbul nel 1479, pare dipinse scene erotiche per l’harem del sultano, attualmente sconosciute. I primi a ridestar tale interesse in pittura furono i pittori francesi, non a caso i più attivi nell’esplorazioni del Medio Oriente e del Nordafrica. Ingres dipinse, come è noto, diversi dipinti di soggetto erotico-esotico, tra cui il dipinto Odalisca con la schiava nel 1842, divenuto celebre modello per opere di temperie erotiche orientali, e Bagno Turco acquistato dal principe Napoleone nel 1862. Gli stessi soggetti furono frequentati anche da grandi artisti come Delacroix, Gérôme e il preraffaellita William Holman Hunt.
In Italia tale genere fu con ogni probabilità iniziato dal pittore romantico Francesco Hayez (Venezia, 1781 – Milano, 1882). Il veneto iniziò già dagli anni Venti dell’Ottocento a dipingere le sue sensuali e levigatissime odalische, talvolta come soggetti autonomi di donna orientale altre come personaggi dell’Antico Testamento desunti con una verve romantica. Il successo iconografico di questi brani spinse molti altri pittori ad imitarlo, con una moda che inizialmente si affermò soprattutto nel Nord Italia.
Il tema dell’odalisca coniugava alla perfezione l’esigenza di assicurarsi il favore del mercato con l’intento di esibire la propria abilità nel genere dell’invenzione e del ritratto, e ben presto si consolidò nell’immaginario occidentale. Il termine odalisca, derivazione dal termine francese odalisque, a sua volta trasposizione dal turco o?aliq, individua una “cameriera o domestica”. Le odalische erano quindi le schiave che il sultano metteva al servizio delle mogli e concubine, e assumevano il ruolo di domestiche personali; pertanto il fatto che venissero rese in pittura seminude è improprio, così come lo è sostituire il termine con quello di concubina. Per avere un’idea di come tali preconcetti occidentali si siano radicati nella società, basti pensare che ancora oggi questi termini vengono intercambiati, ed evocano ancora un senso di esotica e tribale bellezza.
Il soggetto dell’odalisca diventava pertanto pretestuoso per mettere in mostra l’Oriente immaginato, con il suo carico di allusioni erotiche. Ne è un esempio il dipinto di Pasquale Celommi (Montepagano, 1851 – Roseto degli Abruzzi, 1928), dove tutti i dettagli concorrono ad evocare quell’immaginario occidentale ormai così consolidato. Ad alimentare lo stereotipo, la donna è rappresentata seminuda sdraiata su un’ottomana, circondata da veli, tende, tessuti, palme, un narghilè in primo piano, e con in mano un ventaglio, mentre sfoggia uno sguardo provocante. È evidente che tali brani fossero desunti dalla fantasia piuttosto che da episodî e ambientazioni reali, e di fatto molti di questi pittori conobbero l’Oriente solo attraverso racconti. Più fedele al vero, quanto meno negli ambienti e nei costumi, è Il mercato delle schiave del bolognese Fabio Fabbi (Bologna, 1861 – 1946), dove una giovane viene spogliata dal proprio schiavista, che tenta di imbonire alcuni possibili acquirenti. Il significato allusivo di una donna completamente alle mercé dell’uomo, doveva riscuotere evidentemente molto successo, se il pittore ripeté più volte il soggetto. Anche il messinese Ettore Cercone (Messina, 1850 – Sorrento, 1896) ottenne numerosi apprezzamenti dai collezionisti con l’Esame della schiava> del 1890, un brano di gusto voyeuristico.
Il soggetto iconografico dell’odalisca assurse presto al successo. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento nelle Promotrici torinesi, vennero esposte conturbanti odalische, di Paolo Emilio Morgari, Domenico Scattola e Natale Schiavoni. L’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877 testimonia il gradimento anche delle committenze del Meridione: infatti qui si esposero diverse opere con l’immagine della donna rappresentata servizievole e sottomessa pronta ad esaudire tutti gli appetiti del sultano (nel quale il collezionista evidentemente si rispecchiava). Qui venne esposta la scultura in marmo del piemontese Giacomo Ginotti (Cravagliana, 1845 – Torino 1897), L’emancipazione della schiavitù, che, dopo l’acquisto da parte di Vittorio Emanuele II, ebbe gran successo di mercato, venendo replicata in numerose copie. La fortuna è soprattutto da ricondurre alla forte carica erotica del marmo: infatti, come notò il pittore Netti, “il marmo ha una superficie estremamente carnosa nelle parti nude, fino ad esser, per così dire, colorite”. Una lettura diversa del soggetto fu data da un altro scultore piemontese, Alessandro Rondoni, con Sira, “una di quelle schiave che erano ferite dalle loro padrone con gli stiletti, quando non contentavano il loro capriccio”, scriveva Costantino Abbatecola.
Oltre alla rappresentazione della donna, il tema erotico trova compimento anche in grandi compo sizioni, che hanno come teatro privilegiato luoghi che esercitano una fascinazione irresistibile per gli occidentali, come gli harem e gli hammam o bagni turchi. Questi luoghi diventano scrigni di un mondo femminile esotico e inaccessibile, teatro di intrighi e tradimenti. Inoltre si prestano alla rappresentazione di corpi femminili nudi, con pose e atmosfere languide e provocatorie. Nonostante l’harem individui generalmente i locali della casa islamica riservati a donne e bambini, inaccessibili agli uomini, dove la dimensione erotica è solo una delle funzioni, per l’occidentale assume il valore di luogo di libidine e appagamento delle fantasie sessuali del padrone. Le scene qui evocate parlano di un Oriente fiabesco, dove i pittori indugiano su dettagli narrativi e sensoriali, dalle morbide e sensuali forme femminile, alle sontuose sete colorate di cui par di poter udire il fruscio, agli odori inebrianti. Spesso i pittori abbandonano il piglio filologico e documentario, accontentandosi di evocare un Oriente decorativo e fantastico, atto a soddisfare l’immaginario occidentale, ancora fortemente basato sul mito, come quello tratto dalle novelle orientali delle Mille e una notte.
Il napoletano Vincenzo Marinelli (San Martino d’Agri, 1819 – Napoli, 1892) dipinse nel 1862 Il Ballo dell’ape nell’harem, dove le danzatrici del sultano ballano fingendo di essere state punte da un’ape fino a spogliarsi, un probabile riferimento alla letteratura internazionale e in particolar modo a Flaubert: “Kuchuk ci balla la danza dell’ape […] abbiamo messo sugli occhi del bambino un piccolo velo nero, ed abbiamo abbassato sugli occhi del vecchio musicista una banda del suo turbante blu. Kuchuk si è spogliata ballando”. Le composizioni nell’harem, così come nei bagni turchi, si prestavano alla perfezione per offrire all’occidentale un campionario di bellezze orientali, frequentemente nude, come accade nel quadro di Domenico Morelli, dove le diverse bellezze esotiche sono dipinte con voluttuosa e vibrante resa del disegno e dei chiaroscuri che rendono il brano come sospeso in un sogno. Seppur in forme e misure ben diverse, anche l’interesse per l’Estremo Oriente fu spesso venato di intonazioni erotiche ed edonistiche. La geisha, del resto, per l’occidentale diventa la trasposizione dell’odalisca, ancora in accezione di schiava e concubina. La pittura occidentale poté anche rifarsi a modelli iconografici che erano già appartenenti alla cultura nipponica, come le stampe erotiche shunga. Nell’opera Fluttuante di Renato Natali (Livorno, 1883 – 1979), seppur con una declinazione più simbolista e richiamando il tema della morte, appare evidente la rilettura della celebre stampa di Hokusai, Pescatrice di awabi e piovre. Gli appetiti sessuali occidentali sulle bellezze del Sol Levante furono anche eternati in musica da opere come Iris di Pietro Mascagni o Madama Butterfly di Giacomo Puccini. L’immaginario di una sessualità selvaggia e senza inibizioni fu arricchito ulteriormente dalle avventure coloniali italiane in terra d’Africa di fine Ottocento e durante il Fascismo.
L’erotismo venne trasmigrato sulle bellezze africane e le opere dei pittori e degli scultori italiani si riempirono di “faccette nere”. Ne è un esempio la fontana di Angiolo Vannetti (Livorno, 1881 – Firenze, 1962) a Tripoli, recentemente distrutta per mano probabilmente di integralisti islamici, ma di cui si conserva un bronzetto al Museo Fattori di Livorno, Le due gazzelle. L’artista raffigurò un’indigena abbracciata a una gazzella, che come affermò lo scultore “sintetizza la natura della colonia: una giovane araba mollemente seduta che accarezza una gazzella: le due creature più gentili di quella terra che hanno affini fra loro la docile, quanto selvaggia natura”. L’Oriente, nelle sue declinazioni, ha continuato a esercitare un fascino irresistibile per gli Europei, entrando nelle case occidentali attraverso l’arte e la letteratura. Le bellezze e i costumi di paesi lontani si sono posti a lungo come un rifugio dagli opprimenti limiti di una società borghese e moralista, andando ad alimentare un mito, di cui ancora oggi si scorgono le propaggini.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.