Un diadema in oro e pietre dure, riccamente decorato con motivi vegetali. Un sorprendente ed elaboratissimo orecchino a navicella decorato con motivi fitomorfi e figure alate (le cosiddette nikai), il tutto realizzato con la tecnica della filigrana. Un bizzarro schiaccianoci a forma di mani, in bronzo con decorazioni dorate, che farebbe la gioia di tanti odierni appassionati di decorazioni da tavola. Un’elegante teca in forma di conchiglia con, al centro della valva, la figura di una Nereide che cavalca un cavallo marino. E poi ancora braccialetti, collane, anelli, pendenti, sigilli, monili il tutto in ottimo stato di conservazione e in fogge ricercatissime. Sono questi alcuni dei cosiddetti ori di Taranto, la straordinaria raccolta di arte orafa di età ellenistica (risalente quindi a un periodo compreso tra il IV e il II secolo avanti Cristo) conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MarTa), che agli ori ha dedicato un’apposita sala (tra le più gettonate e famose del museo) e proveniente da alcune necropoli del territorio. A quel tempo, Taranto e dintorni erano al centro di quello che oggi potremmo identificare come un “distretto dell’oreficeria”: la produzione di oggetti preziosi era qui molto diffusa e le botteghe, attingendo con tutta probabilità a fonti d’ispirazione provenienti dalla Grecia, si tramandavano le tecniche di lavorazione di generazione in generazione (anche se, purtroppo, non ci sono rimasti i nomi degli artigiani che diedero vita a una così fiorente e raffinata produzione).
È interessante sottolineare come, su questa produzione, dovette esercitare un certo influsso il legame tra Taranto e la Grecia: centro tra i principali della Magna Grecia (la vasta area dell’Italia meridionale che a partire dall’VIII secolo avanti Cristo fu colonizzata dai greci, che qui fondarono numerose città e portarono la loro cultura), l’antica “Taras” conobbe proprio in età ellenistica il sul periodo di massimo sviluppo. Alleati degli spartani (pare infatti che fossero spartani i coloni che fondarono la città, la cui nascita si fa risalire alla convenzionale e tradizionale data del 706 avanti Cristo), i tarantini, verso la metà del quarto secolo, arrivarono all’apice della loro potenza e della loro espansione, entrando addirittura in conflitto con Roma: solo nel 209 avanti Cristo i romani ebbero definitivamente ragione dei tarantini, nel contesto delle guerre puniche (in quell’anno la città fu conquistata da Quinto Fabio Massimo che la fece saccheggiare e fece ridurre in schiavitù migliaia di tarantini e di cartaginesi loro alleati), mentre a partire dal secolo successivo la città fu definitivamente inglobata nella repubblica romana. Per tutto questo tempo, Taranto era rimasta sostanzialmente una città greca: i suoi abitanti parlavano greco, si abbigliavano alla greca, erano di cultura greca. Il grande drammaturgo Livio Andronico, per citare il più illustre dei tarantini del tempo (visse all’incirca tra il 280 e il 200 avanti Cristo), era di lingua e cultura greca, e assimilò la cultura latina solo in quanto portato a Roma come schiavo, da ragazzino, in seguito alla prima occupazione di Taranto da parte dei romani (il nome “Livio” fa riferimento alla famiglia romana presso cui prestò servizio come schiavo: si guadagnò la libertà forse in virtù delle sue competenze come precettore).
L’oreficeria tarantina era strettamente legata alla dipendenza della città dalla cultura greca, tanto che, in seguito al definitivo assoggettamento di Taranto da parte dei romani, l’attività orafa entrò inesorabilmente in declino fino a scomparire in breve tempo (si trattò di una crisi che andò di pari passo con la decadenza della città, che sotto i romani non riuscì più a ottenere quell’egemonia culturale e politica che era riuscita a conquistarsi in epoca magnogreca). Ed è pertanto tra il VI e il III secolo, quindi nel periodo di massimo sviluppo economico della città e della sua espansione urbana, che l’oreficeria tarantina conobbe il suo più alto splendore, il culmine della sua fioritura e della sua raffinatezza, riuscendo anche a produrre oggetti tipici, che non hanno riscontro altrove: è stato sottolineato che sono caratteristici della produzione tarantina, per esempio, i diademi in lamina d’oro sottile stampati con motivi a foglie (che potevano essere di quercia, di alloro, di ulivo, di edera o di altre piante). Il fatto che gran parte di questi ori siano stati ritrovati nelle necropoli ci informa sulla funzione sociale dei gioielli, che non venivano soltanto ostentati in vita dai loro ricchi proprietari (ovviamente, dobbiamo immaginare che, essendo lavori di eccezionale raffinatezza, si trattasse di oggetti che solo una piccola e fortunata parte della popolazione di Taranto poteva permettersi: erano pur sempre articoli di lusso), ma venivano anche inclusi nelle loro sepolture, dal momento che la condizione del defunto doveva esprimersi anche nel suo viaggio verso l’aldilà (gli ori divennero dunque una caratteristica distintiva delle sepolture aristocratiche). I corredi funerari, che arricchivano soprattutto le sepolture femminili, riguardavano sia i defunti che venivano inumati che quelli che venivano cremati: le spoglie dei personaggi più in vista, qualunque fosse la modalità della sepoltura, erano sempre corredate di ori e gioielli. Oggetti che, come detto, avevano diffuso a Taranto modelli greci: in particolare, lo spiccato naturalismo delle decorazioni, gli effetti cromatici raggiunti mediante l’uso di smalti, il gusto per la decorazione erano tutti elementi legati a quanto, negli stessi periodi, si produceva in Grecia (il tutto poi andava a impreziosire i repertori di forme e modelli tipici del luogo). La produzione tarantina risentiva anche di quanto accadeva in Grecia sul piano meramente economico, dal momento che l’espansionismo di Alessandro Magno verso est, negli ultimi decenni del quarto secolo avanti Cristo, aveva consentito l’apertura di nuovi mercati e l’importazione di grandi quantità di materia prima dall’Oriente, che attraverso le vie commerciali del tempo raggiungeva la Magna Grecia. La maggior parte degli ori di Taranto era lavorata a filigrana, tecnica che si riscontra in molti degli oggetti ritrovati nelle sepolture del luogo: alla superficie metallica venivano applicati, tramite saldatura, sottili fili d’oro che, intrecciati, ritorti o giustapposti, andavano a comporre una raffinata tramatura che formava la decorazione dell’oggetto.
Il Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Ph. Credit Fabien Bièvre-Perrin |
Taranto, le colonne dell’antico Tempio di Poseidone. Ph. Credit |
Taranto in un’incisione di Nikolaus Gerbel del 1545 |
Tra gli ori più preziosi figura il diadema fiorito proveniente dalla “tomba degli Ori di Canosa”, dove venne ritrovato negli anni Venti del Novecento: la scoperta della tomba, nel territorio di Canosa, avvenne in maniera casuale nel 1928, e lo scavo che portò al ritrovamento degli oggetti fu subito ricoperto per essere pressoché dimenticato fino al 1991, anno in cui la tomba fu riaperta per consentire agli esperti di condurre studi più approfonditi sulla sepoltura, sugli oggetti che vi si trovavano, sulla loro funzione. Il diadema è un’opera risalente alla metà del III secolo avanti Cristo, in oro, perle, smalto, paste vitree e pietre semipreziose (o “pietre dure”: si tratta soprattutto di corniola e granati), che veniva indossata sul capo (una cerniera permetteva di regolarne l’ampiezza in modo che si adattasse a... diverse taglie) e poi fermata sulla nuca tramite un nastro. L’opera colpisce soprattutto per la sua ricca decorazione (più di centocinquanta fiori che compongono una lunga fascia che corre su tutto l’oggetto), per la straordinaria varietà di colori e di forme (molti sono i fiori che l’orefice aveva immaginato per questo singolare oggetto) e per la particolarità che gli elementi non sono saldati, ma sono inseriti a incastro: questa caratteristica faceva sì che la composizione si potesse cambiare. Conosciamo anche il nome della proprietaria del diadema, in quanto inscritto su di un oggetto rinvenuto nella sua tomba: si chiamava Opaka Sabaleidas ed era, come possiamo presumere dalla preziosità del suo corredo, una signora di alto lignaggio.
Il diadema era un oggetto che si differenziava dalla corona, malgrado la somiglianza, per il fatto che il diadema era un monile semplicemente decorativo, mentre la corona aveva una funzione sociale e indicava un preciso status. Inoltre, se il diadema veniva indossato dalla sua proprietaria anche in vita, le corone spesso ritrovate nelle sepolture tarantine avevano invece una funzione prevalentemente funeraria, in qualità di offerta per il defunto, soprattutto se era un personaggio particolarmente importante. Tra le corone più importanti rinvenute nell’area di Taranto spicca una corona funeraria a foglie di quercia della prima metà del II secolo avanti Cristo, composto da trenta lamine a stampo che si dispongono in dieci gruppi (cinque per ogni lato del capo) di tre foglie ciascuna (ogni foglia presenta una nervatura al centro e bordi a rilievo per dare l’impressione dell’irregolarità che le foglie di quercia presentano nella realtà). Il naturalismo è accresciuto dal fatto che le foglie non vengono disposte secondo un ordine regolare, ma sono smussate o sovrapposte per raggiungere un duplice effetto: da una parte dare più corpo all’oggetto, dall’altra simulare in maniera più veritiera la disposizione delle foglie in un ramo di quercia. Anche questa corona, come il diadema di cui sopra, ai lati è provvista di fori che servivano per far passare il nastro che aveva la funzione di tener fermo l’oggetto sulla nuca di chi lo indossava.
L’oggetto che riportava il nome di Opaka era nient’altro che la teca citata in apertura: si tratta di un manufatto a forma di conchiglia realizzato con doratura a caldo, che assumeva l’aspetto di una capasanta (o, a seconda di come la si nomina secondo la propria provenienza geografica, un pettine di mare o una conchiglia di san Giacomo), con due valve che si potevano chiudere e aprire. Quando la conchiglia era aperta, rivelava una splenda decorazione con una figura femminile di nereide (una ninfa del mare) sul dorso di un cavallo marino che ha quasi l’aspetto di un drago: il muso è allungato e crestato, lo sguardo è truce, le zampe sono palmate, la lunga coda si avvolge su se stessa e termina con una specie di pinna caudale. Probabilmente la piccola teca, date le sue dimensioni, ricopriva la funzione di contenitore per cosmetici.
Ancora, tra gli oggetti più raffinati è possibile ammirare il particolarissimo orecchino a navicella, costituito da un corpo principale la cui forma ricorda quella di un’imbarcazione (da cui il nome di questo tipo di manufatto) e che è riccamente decorato con motivi fitomorfi. Alle due estremità della “navicella” notiamo due elaborati fiori che vengono sostenuti dalle due nikai alate, mentre al di sotto alcune catenelle reggono pendenti anch’essi a forma di elementi vegetali. E sempre parlando di orecchini, non si possono non menzionare alcuni splendidi orecchini a disco: il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, in particolare, conserva un paio di orecchini a disco con triplice pendente, della metà del IV secolo avanti Cristo, composti da un disco decorato con al centro una rosa con quattro ordini di petali (quelli più piccoli e centrali sono in rilievo rispetto agli altri), affiancato da due fiori più piccoli ai lati: dai due fiorellini pendono catenelle composte da elementi geometrici (a forma di sfere e di rombi, alternati, con in fondo due piccole campanelle), mentre al disco è appesa una raffinatissima testina femminile realizzata a cesello, con estrema minuzia (tanto da essere lei stessa ingioiellata: vediamo che a sua volta indossa un diadema, una collana e due orecchini a pendente).
Ancora, è possibile citare un eccentrico anello in lamina d’oro a spirale, con le parti terminali che si chiudono con due teste di leone (le protomi leonine si distinguono anch’esse per il loro stupefacente realismo), anelli con pietre incastonate e un oggetto particolarissimo come lo schiaccianoci citato in apertura: questo nucifrangibulum è costituito da due avambracci che si chiudevano per stringere il frutto da aprire (è un oggetto in bronzo con decorazioni in oro).
Oreficeria tarantina, Diadema fiorito (fine III secolo a.C.; oro, perle, smalto, paste vitree e pietre semipreziose, lunghezza lineare 47,2 cm; Taranto, Museo Archeologico Nazionale). Ph. Credit Tommaso Saccone |
Oreficeria tarantina, Teca a forma di conchiglia (seconda metà del III secolo a.C.; argento e doratura a caldo; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
Oreficeria tarantina, Corona a foglie di quercia (prima metà del II secolo a.C.; oro; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
Oreficeria tarantina, Orecchini a navicella (IV secolo a.C.; oro; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
Oreficeria tarantina, Orecchini a disco (metà del IV secolo a.C.; oro; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
Oreficeria tarantina, Anello (fine del IV secolo a.C.; oro; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
Oreficeria tarantina, Schiaccianoci (fine del IV-inizi del III secolo a.C.; oro e bronzo; Taranto, Museo Archeologico Nazionale) |
La maggior parte degli ori di Taranto venne rinvenuta, come anticipato, negli anni Venti, e la loro storia è costellata anche di un episodio particolarmente avventuroso e drammatico, ovvero il loro viaggio a Parma durante la seconda guerra mondiale: la Soprintendenza Archeologica di Taranto aveva infatti deciso per il loro trasferimento in Emilia per scongiurare il rischio che andassero distrutti, dispersi o rubati durante il conflitto (erano già state predisposte misure protettive a Taranto, ma l’avvicinarsi della linea del fronte e il fatto che Taranto fosse un’importante base navale utilizzata per le operazioni belliche aveva suggerito di far lasciare la città agli ori). Furono pertanto spostati in due cassette di sicurezza la cui gestione venne affidata alla filiale parmense della Banca Commerciale Italiana, dove si trovavano alcuni depositi ritenuti tra i più sicuri in Italia (erano infatti stati appositamente progettati per resistere anche ai bombardamenti aerei): accompagnati dall’ispettore della soprintendenza Valerio Cianfarani, gli ori arrivarono a Parma il 2 febbraio del 1943. Le traversie degli ori però non erano finite, perché com’è noto, dopo l’8 settembre l’Italia si ritrovò divisa, e se Taranto faceva ancora parte del Regno d’Italia, Parma era invece sotto la Repubblica Sociale Italiana: nel dicembre del 1944, il Ministero dell’Educazione della RSI richiese alla Banca le due cassette (motivando la richiesta con il pretesto di spostarle più a nord, in un luogo più sicuro, dal momento che il fronte si stava avvicinando a Parma), ma il direttore della filiale rispondeva affermando che solo l’ispettore Cianfarani avrebbe potuto riottenere in consegna le cassette. La Banca decise di prendere tempo e il braccio di ferro con il ministero repubblichino andò avanti per mesi, finché non arrivò il 25 aprile: caduta la Repubblica di Salò, gli ori erano salvi e poterono far ritorno a Taranto, in perfette condizioni. Ci sarebbero voluti tuttavia altri quattro anni per vederli nuovamente esposti al Museo Archeologico Nazionale, dal momento che l’edificio era stato nel frattempo occupato dagli alleati che lo avevano trasformato in una sorta di magazzino, e occorreva pertanto restaurarlo.
Gli ori di Taranto hanno conosciuto una vasta popolarità a partire dagli anni Ottanta e sono stati esposti in mostre in diverse città: si ricorda in particolare una rassegna itinerante che, tra il 1984 e il 1986, portò gli ori a Milano, a Parigi, a Tokio e ad Amburgo. Un’ottantina di pezzi della collezione ha lasciato per l’ultima volta l’Italia nel 2010, quando sono volati alla volta di Shanghai, in Cina, per essere esposti al Padiglione Italia dell’Expo mondiale di quell’anno, in una rassegna di oreficeria che li aveva visti esposti assieme ad alcune creazioni di gioielleria contemporanea. E in effetti ancora oggi gli ori di Taranto continuano a ispirare artisti e gioiellieri: varrà la pena ricordare che nel 2015, proprio al Museo Archeologico Nazionale di Taranto, gli Ori di Umberto Mastroianni, che tra gli artisti del Novecento è stato tra i più prolifici nel campo dell’oreficeria, sono stati esposti accanto agli ori ellenistici del museo. La loro raffinatezza, la loro eleganza, le loro forme che sorprendono ancora a più di duemila anni di distanza, il loro gusto che incontra il favore di molti orafi e designer contemporanei li hanno resi, del resto, tra i più grandi capolavori d’oreficeria di tutti i tempi, pubblicati non solo in cataloghi, libri e saggi scientifici, ma anche in riviste generaliste, glamour o di moda, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, in grado di meravigliare ancora oggi chi li osserva.
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