Immobilizzato a una sedia di legno in una stanza nella penombra, mentre gli spettatori assistono con malcelato voyeurismo. Il malcapitato è contorto dal dolore e sembra quasi di sentirle, le urla. Alle spalle, l’apatico carnefice che attua il suo mestiere di cavadenti. Una scena di genere grottesca del 1608, quella attribuita a Caravaggio, il cui titolo convenzionale non poteva che essere Il cavadenti. Quello del dentista è, probabilmente, uno dei mestieri più temuti da grandi e piccini ma, seppure sia stato spesso bistrattato, affonda le sue radici nella storia più antica.
Il problema del mal di denti tormentava l’essere umano quando ancora si credeva che fosse una maledizione divina. Recentemente, infatti, sono stati effettuati studi sui denti di crani di circa 25.000 anni fa e sono state rinvenute tracce di carie. Una delle prime fonti scritte, però, risale a un testo sumerico del 7.000 a.C. che descriveva le carie come conseguenza del lavorio dei “vermi dei denti”: all’epoca venivano curate da abili artigiani con l’utilizzo di trapani ad arco. Risale invece a 6.500 anni fa, in Slovenia, la prima otturazione dentale, fatta in cera d’api (è stata scoperta nel 2012 sui resti di un dente fratturato, probabilmente con l’obiettivo di alleviare il dolore), ma la grande fioritura dell’arte odontoiatrica si avrà in epoca egizia. A Saqqara, venne scoperta la tomba di un uomo di nome Hesi-Ra, che visse durante il regno di Djoser e faceva parte di una classe conosciuta come Phostophori, che aveva il compito di curare i malati. Qui è stato trovato un papiro che parla di disturbi del cavo orale e dei suoi rimedi, come la sostituzione dei denti malati con dei denti sani e l’unione tra essi, tramite un filo d’oro.
Le scoperte mediche aumentarono a dismisura con il passare dei secoli e le cure si perfezionarono pazientemente e con continuità. Durante il VI e il IV secolo a.C., Ippocrate e Aristotele scrissero di odontoiatria, provando a creare una base scientifica per la comprensione e la conseguente cura delle malattie del cavo orale. Intorno al 100 a.C., anche Celso, scrittore e medico romano, narrò ampiamente di igiene orale nel suo importante compendio di medicina, trattando diverse tematiche, quali la stabilizzazione dei denti molli, le procedure da seguire in caso di mal di denti e le fratture della mascella. E anche gli etruschi fecero la loro egregia parte quando affinarono la protesi dentaria utilizzando corone d’oro e ponti fissi.
Un gigantesco passo indietro, purtroppo, si avrà dal XII secolo, quando una serie di editti papali proibì ai monaci di eseguire qualsiasi tipo di intervento chirurgico, salasso o estrazione di denti. Dopo tali editti, furono i barbieri ad assumere gli incarichi chirurgici dei monaci, ben più eruditi, e nel 1210 venne fondata, in Francia, una Corporazione dei Barbieri. Nel corso della storia, i barbieri, si evolsero in due gruppi: i chirurghi veri e propri e i barbieri laici che eseguivano servizi di routine come la rasatura e, appunto, l’estrazione dei denti. Una curiosità: risale proprio al Medioevo l’introduzione del “palo del barbiere”, quello con le strisce colorate. Era bianco e rosso e serviva per pubblicizzare i servizi chirurgici offerti dall’esercente (in particolare, l’estrazione di denti e il salasso).
Oggi, la parola “cavadenti” è utilizzata in modo spregiativo per indicare un dentista mediocre e poco abile a svolgere il suo lavoro, ma prima indicava semplicemente una sorta di dentista che, con attrezzi rudimentali, estraeva i denti, anche per strada, e per lavorare più facilmente poneva una pallina di vetro o di carta all’interno della bocca del povero paziente. E poiché spesso lavoravano in maniera tutt’altro che professionale, i cavadenti ciarlatani si prestarono benissimo a numerosissime scene di genere, soprattutto nel Seicento. Il più famoso è, senza ombra di dubbio, il sopra citato Cavadenti attribuito a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Per molti anni si è discusso sulla paternità dell’opera e molti storici dell’arte si sono ben schierati su entrambe le posizioni. Ciò che è certo, però (sebbene non sia una prova per attribuire l’opera al Merisi), è che nel 1638 l’inventario di Palazzo Pitti comprendeva: “un quadro di tela di mano del Caravaggio dipinto che uno levava i denti a un altro e altre figure intorno a una tavola (…)”. E ancora, nel 1657, l’autore del Microcosmo della Pittura, Francesco Scannelli scrisse: “Vìddi pure anni sono nelle stanze del Serenissimo Granduca di Toscana un Quadro di meze figure della solita naturaleza, che fa vedere quando un Ceretano cava ad un Contadino un dente, e se questo Quadro fosse di buon conservatione, come si ritrova in buona parte oscuro, e rovinato, saria una delle più degne operationi, che havesse dipinto”. Il dipinto, esposto a Palazzo Pitti, non mira a svelare reconditi significati della vita, quanto piuttosto a raccontare, con macabro realismo, una scena vera e per niente edulcorata.
Particolarmente interessante potrebbe apparire l’auto-citazione dell’anziana signora irradiata da una luce caldissima proveniente da destra, il cui viso è presente anche nella crudissima opera di Giuditta e Oloferne. Pare di assistere a una strana tortura in cui il cavadenti, alle spalle del paziente procede, con aria beffarda, all’estrazione. Tutto attorno è schierata una piccola folla di curiosi dalle espressioni distorte ed enfatizzate che sembrano sottolineare la duplicità della natura umana. Da un lato, alcuni sembrano compiacersi e nutrirsi del dolore provato dal cliente, mentre altri sembrano sinceramente grati che quel supplizio non spetti proprio a loro. Sulla sinistra e in penombra, un bambino curioso e intimorito, si sporge, appoggiandosi alla tavola. Sembra di assistere a una messa in scena teatrale in cui le espressioni devo essere enfatizzate e fortemente caratterizzate.
Ritroviamo scene odontoiatriche anche nella pittura di genere del fiammingo Theodoor Rombouts che visse in Italia tra il 1616 e il 1625 dove lavorò anche per Cosimo II de’ Medici. Guardò al prototipo caravaggesco, tanto da replicare il cavadenti del famoso artista lombardo, ben quattro volte. Probabilmente una copia, attualmente custodita al Museo del Prado di Madrid, venne eseguita durante il soggiorno a Firenze, dopo aver avuto l’opportunità di ammirare da vicino l’esempio del Merisi. Anche in questa tela, la folla è riunita attorno al callido cavadenti che rivolge il suo sguardo allo spettatore dell’opera quasi a volerlo tranquillizzare, rompendo prepotentemente la quarta parete. I volti dipinti sono grotteschi ed estremamente stravaganti, e il malcapitato pare una sottile citazione al Ragazzo morso dal Ramarro di Caravaggio più che al suo Cavadenti.
Moltissimi saranno gli artisti fortemente attratti dalla rivoluzione caravaggesca che non solo proveranno a imitarne lo stile, ma anche il tema del cavadenti, come nel caso di Gerrit van Hontorst che, probabilmente, vide la tela di Caravaggio a Firenze, durante il suo soggiorno in Italia dal 1610 al 1620. Gherardo della Notte, (così l’artista venne ribattezzato in Italia), per i suoi interni scaldati dalla fioca luce delle candele, fu uno tra i più grandi pittori olandesi giunti in Italia. Ebbe un grandissimo successo tra Roma e Firenze, diventando uno dei pittori più amati di Cosimo II, che era particolarmente interessato alle sue scene conviviali. Fa parte di queste la strana opera del 1619-1620 dal titolo Cena con suonatore di liuto. Anche se quella che è stata interpretata da alcuni come l’estrazione del dente è relegata al margine della tela, ogni dettaglio porta l’osservatore a volgere lo sguardo alla sua estrema destra, aggregandosi ai curiosi della tavolata che ridacchiano sommessamente mentre assistono alla scena (anche se, osservando il disegno preparatorio conservato a Grenoble, quello che è stato interpretato come un panno per coprire il dente estratto potrebbe essere semplicemente una forchettata di spaghetti, come quelli vediamo sulla tavola, che la giovane sta infilando nella bocca dell’uomo in un momento goliardico).
Opera decisamente più somigliante a quella dell’amato maestro della luce è Il cavadenti, conservato presso le Staatlische Kunstammlungen di Dresda. Nel dipinto del 1622, un giovane assistente regge una candela per aiutare il cavadenti esperto che, sogghignando, procede con l’estrazione fra le urla di dolore del barbuto paziente. I testimoni attorno, non fingono educato disinteresse, ma accorrono a guardare l’operazione da vicino mentre uno di essi tiene fermo il malato.
I pittori olandesi sembrano essere decisamente affascinati dal tema dell’estrazione dei denti come dimostrano le tele di Adriaen van Ostade, Jan Miense Molenaer e Lambert Doomer. Di quest’ultimo ci perviene un particolare disegno che sembra descrivere il mestiere del barbiere cavadenti in maniera quasi fotografica. L’estrazione dentale si svolge all’aperto, coi protagonisti riparati solamente da un parasole. Il degente è disteso, appoggiato contro il petto del cavadenti e, accanto ai due, un assistente regge una fiaschetta. Tutto attorno, numerosi spettatori, alcuni interessati all’operazione praticata dal barbiere e altri allo spidocchiamento effettuato da una scimmia.
Anche Jan Miense Molenaer si cimentò in diverse rappresentazioni, rispettivamente un ciarlatano e un vero cavadenti. Il primo è conservato all’Anton Ulrich Museum di Brunswick e mostra un ciarlatano aiutato dal suo complice che recita la parte del paziente e, mentre la folla accorre incuriosita a osservare la finta operazione, un uomo ruba i volatili dal paniere di una signora in apprensione. L’artista, qui, mette in scena la cattiveria dell’animo umano e la disonestà dei ciarlatani. Ma di differente respiro è la tela conservata al North Carolina Museum of Art (NCMA) di Raleigh.
La scena si svolge in un luminosissimo interno dai colori vivaci che rendono il tutto bislacco e vagamente divertente. Il giovane paziente stringe tra le mani un rosario a sottolineare quanto, sovente, le preghiere dei fedeli siano vane, mentre il suo viso assume un’espressione di fortissimo dolore. Sempre in un interno è la rappresentazione di Adriaen van Ostade del 1630 circa, conservata oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il cavadenti è costantemente posizionato dietro al paziente mentre è concentrato nell’operazione odontoiatrica e, vicino a lui, un piccolo assistente porge prontamente un piatto. Tutto intorno, l’immancabile folla interessata.
Ognuna delle rappresentazioni viste sin qui mette alla berlina il povero malato, esponendolo agli occhi di curiosi e vili personaggi, ma sarà Gerrit Dou con il suo Cavadenti (1630-1635) a restituire dignità al mestierante, così come al paziente, inserendoli in abitazioni private, lontane dagli sguardi di prepotenti voyeur. Non sempre i barbieri cavadenti si occupavano delle operazioni di bellezza e di piccola chirurgia all’esterno, ma sovente si rifugiavano nelle case dei clienti per lavorare in piena tranquillità. In questo esempio giovanile, la tela è composta da pochi elementi e abitata dai soli due personaggi rivolti verso la flebile luce profusa dalla finestra. Accanto al cliente dolorante, poggiata a terra, una cesta con prodotti alimentari con la quale il contadino pagherà, a lavoro finito, il cavadenti. Sullo sfondo, pochi elementi debolmente illuminati quali il teschio e il violino, che vengono utilizzati dall’artista come memento mori, ricordando allo spettatore la fugacità della vita e le sofferenze che ne conseguono.
Decisamente più maturo è il Cavadenti a lume di candela, datato fra il 1660 e il 1665, che raffigura un intervento fuori orario di lavoro, all’interno dello studio del medico barbiere, nonostante i pesanti tendaggi attorno al profilo del dipinto ricordino più una scena teatrale. Il pover’uomo, accompagnato da una donna in apprensione che potrebbe essere la moglie, rivolge lo sguardo, preoccupato, allo strano coccodrillo appeso. Un oggetto, questo, all’epoca presente in molti studi di barbieri e chirurghi, come status symbol, come segno di appartenenza.
Ognuno di questi artisti ha provato a schiarire flebilmente, ad accendere un piccolo riflettore su un mestiere dal passato fatto di luci e pesantissime ombre e, forse, è proprio per questo che ancora il dentista è così temuto. La sua non è stata una storia facile e i chirurghi hanno dovuto vedere il proprio nobile mestiere schernito da ciarlatani e impostori e soprattutto, furono molti, i secoli di profonda sofferenza dei pazienti. Dal Cinquecento, fortunatamente, l’odontoiatria iniziò timidamente ad essere considerata una scienza e lentamente iniziò a farsi strada fra le menti di intellettuali e studiosi, che cercarono di migliorarla.
Dovremo, però, aspettare il 1899, quando il dentista Edward Hartley Angle venne accreditato per aver trasformato l’ortodonzia in una specialità dentale. Angle fondò anche la prima scuola di ortodonzia (Angle School of Orthodontia a St. Louis, 1900), la prima società di ortodonzia (American Society of Orthodontia, 1901) e la prima rivista di specialità odontoiatriche, donando a questa particolarissima professionalità un futuro roseo.