Pochi momenti dell’anno sono malinconici come l’ultima settimana d’ottobre, quando finisce l’ora legale e il buio cala d’improvviso, vorace, come una cortina rapida e pesante, che spegne quasi di colpo le luci rosse dei tramonti (i più belli dell’anno, in questa stagione), porta un’aria di desolazione e mestizia, e stende un’ombra lunga, lugubre e fredda che anticipa l’approssimarsi dell’inverno. Tout l’hiver va rentrer dans mon être, diceva Baudelaire nel Chante d’automne dell’ottobre del 1859. Ne era consapevole Guido Ceronetti: “La fine dell’ora legale mi rattrista”, lamentava in Ballata autunnale, una terza pagina scritta per La Stampa e poi raccolta nell’antologia La vita apparente con gli altri suoi articoli firmati per il quotidiano torinese negli anni Settanta. Ceronetti citava il Chant d’automne, riflesso di un terrore dell’inverno, “che Baudelaire odiava, riflesso luttuoso dell’anima che lo patisce”. C’était hier l’été, voici l’automne!
Il poeta torinese aveva dedicato la Ballata autunnale a un capolavoro di Antonio Fontanesi, oggi conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Torino: un’opera poco nota, ma è difficile trovarne di più adatte a trasmettere la poesia della stagione delle nebbie e dell’abbondanza, l’“amica intima del sole maturo”, come l’aveva chiamata John Keats. È un dipinto che s’intitola Novembre: Fontanesi lo eseguì nei primi mesi del 1864, lo espose alla Promotrice torinese di quell’anno assieme ad altri due dipinti, Aprile e Altacomba, e si vide gratificato con l’acquisto di Vittorio Emanuele II per le collezioni di Palazzo Reale a Torino. L’opera non fu risparmiata dalle critiche: una costante che accompagnò tutta la carriera di Fontanesi, fino ai suoi estremi, trascorsi nella solitudine e nell’amarezza. Quadri come Novembre portarono i suoi detrattori a rimproverargli d’esser niente più che uno scialbo imitatore di Corot. Critiche superficiali, che si fermavano al mero aspetto esteriore dei dipinti (e forse neppure a quello), senz’addentrarsi nel profondo della sua sensibilità, meno contemplativa di quella di Corot, ma probabilmente più struggente. E in effetti c’era anche chi aveva apprezzato questo Novembre “davanti al quale si potrebbe morire di malinconia”, ha scritto Ceronetti.
Antonio Fontanesi, Novembre (1864; olio su tela, 103 x 153 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea) |
L’idea di paysage-état de l’âme che Amiel aveva fissato nel suo Journal intime era già ben presente nell’animo di certi pittori prima che venisse divulgata, verso il finire del secolo: Fontanesi era tra questi. Il suo Novembre è una veduta d’un paesaggio rurale che trasfigura il dato naturale ammantando la campagna d’un velo di pensierosa tristezza. È una campagna che potrebbe essere ovunque: quando l’artista stava lavorando al quadro, si trovava a Ginevra, come s’apprende da una lettera inviata all’amico François-Auguste Ravier dalle sponde del Lemano. Ma nel quadro non ci sono riferimenti definiti, e Fontanesi, artista viaggiatore per eccellenza, a quel tempo aveva già esplorato le pianure dell’Emilia natia, le rupi delle Alpi svizzere, le campagne del Delfinato, le nebbie dell’Inghilterra, la dolcezza delle colline toscane. È vero che Fontanesi, nella summenzionata lettera a Ravier, parla d’un “motivo di Tortu”, precisando dunque il nome della località, un villaggio nei pressi di Crémieu, vicino Lione, dove l’artista trascorse uno dei più fruttiferi soggiorni della sua carriera: ed è probabile che quel “motivo di Tortu” sia il Novembre della GAM di Torino. Ma è bello pensare a questo Novembre come a una specie di summa dei paesaggi che Fontanesi, allora affermato artista di quarantasei anni, aveva conosciuto fino ad allora, in attesa di nuovi viaggi che l’avrebbero portato anche fino in Giappone.
Più che un paesaggio, un “incantesimo”, secondo Ceronetti. Nell’abbandono d’una campagna imprecisata, al limitare d’un bosco dove gli alberi han già perso quasi tutte le foglie e che si perde in lontananza lungo la costa d’una collina, una contadina, intabarrata nei suoi spessi panni di lana ruvida, il volto chinato e coperto da uno scialle e da un cappello di paglia, siede assorta senza prestare attenzione a ciò che la circonda. Vicino, un agnello s’alza sulle zampe per brucare un arbusto. Un alito di vento muove le fronde, l’agro si riveste dei colori terrosi tipici della stagione, il cielo d’un azzurro spento è velato di nubi innocue che ricacciano sul fondo alcuni cumuli che migrano lontani, abbandonando il profilo delle colline che chiudono il fondo della scena. “La pittura di Fontanesi”, scrive Ceronetti, “scava come un piccolo paradiso […], un Eden senza fiumi, di terra muta e triste redenta da un sentimento puro del bene, dove siede, ferma, meditativa, una contadina col cappello di paglia, spiga di cruciale vita su quel campo di ossa vegetali, in una fumante umidità cosmica, in un silenzio assoluto”. E quella contadina non getta gravami sofferti sulle spalle del riguardante: non è la penosa campagnola d’un Millet, fiaccata dal lavoro duro e ingrato nei campi, non è la testimone d’una denuncia d’ispirazione realista. Non che sia mancato anche un certo grado di realismo nella pittura di Fontanesi, ma qui è anch’ella una nota di paesaggio, un dettaglio che acuisce la sensazione d’uggia e malinconia che pervade questa landa. E un dettaglio che introduce il fondamentale dialogo che l’essere umano intesse con la natura, ch’è un motivo fondamentale della pittura lirica di Fontanesi.
Una pittura lirica: la novità del Novembre di Fontanesi stava tutta nella sua dimensione sentimentale, nella sapienza con la quale il pittore, forse il più europeo degli italiani d’allora, in anticipo sui tempi, aveva saputo tradurre il mese in uno stato d’animo. Non è un caso se l’opera sarebbe stata meglio apprezzata verso la fine del secolo, al tempo della piena affermazione della poetica simbolista. Enrico Thovez, tra i critici più influenti del suo tempo, era rimasto estasiato dal Novembre di Fontanesi, e ne aveva lodato la “carezzevole vaporosità argentina”: aveva ammirato il dipinto alla quarta Biennale di Venezia, che all’epoca si chiamava “Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia”, e dove Fontanesi era stato ricordato con una retrospettiva postuma, che annoverava anche Novembre tra i capolavori esposti. Secondo Thovez, Fontanesi poteva “aspirare a titolo di poeta dell’aria e della luce” più di Lorrain, più di Turner, più di Constable e più di Corot, un poeta “entusiasta del detto di Leonardo”, che nel suo celebre Trattato aveva sentenziato che “la pittura è una poesia che si vede”. E Giovanni Cena, anch’egli di ritorno da quella fondamentale mostra, gli aveva riconosciuto, in comune con Corot, la capacità di trasformare la realtà in “temperamento musicale”. Lo stesso Fontanesi aveva detto che, se fosse rinato, avrebbe fatto il musicista. Meglio per noi che abbia invece fatto il pittore, per noi che oggi possiamo incantarci di fronte al suo “soffio poetico” e al suo “fraseggiare melanconico”, per usare due espressioni con cui Roberto Longhi, che di solito era estremamente ingeneroso e sprezzante nei confronti dell’Ottocento italiano, fissò i termini dell’arte di Fontanesi, che tra i nostri conterranei del secolo diciannovesimo era tra quelli che più apprezzava.
È un caso che Novembre oggi sia ancora Torino, perché in un momento non ancora definito uscì da Palazzo Reale per tornare sul mercato antiquario e finire in una collezione privata. Tornò in Piemonte nel 1978, quando entrò nelle collezioni della GAM col legato del collezionista Ettore De Fornaris. E da allora a tutti è dato farsi carezzare dalla malinconica poesia dell’autunno di Fontanesi.
Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).