Pubblichiamo di seguito, come anticipato nell’articolo di Bruno Zanardi dello scorso 18 maggio, e dopo l’articolo scritto di Francis Haskell, quello scritto da Alberto Arbasino per il libro che Guanda pubblicò nel 1990 in occasione del restauro degli affreschi del Correggio nella cupola di San Giovanni a Parma.
Dopo i “divino! divino!” di Stendhal (“che grazia seducente! che grazia celeste! la grazia dell’espressione unita a quella dello stile! un miracolo! è musica e non scultura! étonnant, charmant, irrésistible, sublime!”), quanti decenni di rabbuffi e cipiglio: Correggio troppo grazioso... Correggio lezioso... Correggio sdolcinato... Correggio smanceroso... Correggio manierato... Madonne e culatelli... Correggio affettato...
Ma Quella Famosa Luce Del Correggio – erotismo soft di carnagione e pelle come frutta autunnale giovanissima, da toccare – par diffondere un incanto musicale e un tepore poetico sempre meno garbato, o corrivo, o Kitsch, viaggiando sotto i cieli settentrionali, da Vienna a Dresda a Berlino, fra guance piú smorte e terree, e meno confettura di pesca o albicocca, o elegia. E quelle pinacoteche illustri sembrano riscaldate oltre che illuminate dalla parete dei Correggio, come da un caminetto lampante nella fila dei saloni dinastici. Anche tra compagnie sublimi: la soffice Io in estasi come una Santa degli Orgasmi acchiappata dalla zampona elastica di un King-Kong di nuvola (con un senso di réclame per profumi galeotti); e Ganimede che lascia il cane perplesso per l’aquilotto esplicito (come la prima volta che un succulento piccolo si lascia portare dietro i cespugli da un grandicello con le caramelle) – appesi nel Kunsthistorisches Museum absburgico accanto all’altro angiolotto Parmigianino che sporge il dietro non piú innocente come segando un paletto o gonfiando una gomma di bicicletta. (Ma il San Paolo attiguo nonèê caduto, come parrebbe, perché ha bucato, bensì snobbato dal cavallone superbo e araldico, con una testa così elegante e piccola: una mise-en-abîme equina...)
Quale italiano, del resto (anche poco artista), non sarà pronto a dividersi tra amori “impudichi et dishonesti”e una moglie “che è una vera santa a sopportarmi ”?...E dal collezionismo sensual ee galante di Rodolfo II (vecchia Praga...), al campionario di pale d’altare devote di Augusto III (vecchia Dresda...), già nell’ambito delle quattro Madonne correggesche in quella suprema Gemäldegalerie sassone si intende un carattere del “nostro Antonio” in comune con gli autori che invece di riscrivere trenta o quaranta volte lo stesso romanzo mutano continuamente le impostazioni tematiche e tecniche, come per esempio Thomas Mann dai piccoli formati di Tonio Kröger e La morte a Venezia alle vaste cupole cono senza pennacchi, quali Giuseppe e i suor fratelli e il Doktor Faustus. ... Pale mattutine di “esterno giorno” e pale notturne con luci della ribalta; pale con poca gente immobile com ea Castelfranco Giorgione, o con parecchi santi in movimenti eleganti, come il Giorgio e il Michele di Dosso Dossi, che sono lì vicini, nelle tre sale dresdensi dello strabiliante slalom collezionistico tra la Madonna Sistina di Raffaello e Botticelli e Mantegna e i massimi veneti, passando e ripassando in mezzo ai Sansebastiani di Cosmè Tura e Antonello da Messina che fanno da quinte.
Nel triplo partenone museale di Budapest, dopo una scalea spropositata, in una verandina di madonnine oltre un salone di lombardi leonardeschi e scuri, quella correggesca allatta molto abbondantemente il Bambino accanto a una Barocci dubbia e vis-à-vis alla Esterhàzy di Raffaello. Un collettivo o ensemble molto devozionale: sotto le madonnine infila si immaginano i lettini dei bambini e il bacio della buonanotte. Ma anche una “colazione di signore”, giacché il solo uomo lì presente è Pietro Bembo giovane ritratto da Raffaello, come appunto in un ladies’ lunche dove c’è un uomo ogni dieci donne perché i mariti manageriali hanno detto a ciascuna “vacci tu”, e si trovano a tavola con un solo letterato da talk show.
A Berlino, invece, in fondo a un saloncino piuttosto lungo, la cara Leda ha viaggiato più di tante nostre zie mondane messe assieme, vero? A Mantova con Federico II, a Madrid con Filippo II, a Praga con Rodolfo II, a Stoccolma con Gustavo Adolfo, a Roma con Cristina, a Bracciano dagli Odescalchi, a Parigi dagli Orléans, a Berlino con Federico II di Prussia omonimo del Gonzaga, ancora a Parigi con Napoleone, poi nuovamente qui a Dahlem. E dopo tante compagnie diverse, ora la competizione immediata qui nel saloncino risulterà da una parte con la Venere di Tiziano cui il musico ricciuto va suonando l’organo in mood pastorale... E dall’altra, col nervosismo e l’inquietudine dell’Addio alla Madre di un Cristo lottesco (“Madre... oh madre, addio!”... “Manrico!... Ov’è mio figlio?”... “A morte e i corre!. ..”) nel disagio di un porticato simmetrico e pieno di movimento ma aperto a tutti i venti. E un catalogo del Prado potrà dire che il Correggio, “aunque no sea propriamente un manierista, lo mismo que Sarto, su pintura anticipa este estilo”. Ma intorno a questa Leda col suo “cygne d’autrefois” vivace e bello, certe ledine più piccole allevano uccelli più giovani in un Lago dei Cigni che tira indubbiamente più al dunque di quello di Ciaikovskij.
I turisti d’autrefois, tentando una visita ai Correggio nell’Italia d’oggi, potrebbero forse raccontare che la Danae non abita più nella Villa Borghese sinistrata e franante quasi come Dresda sotto le bombe, ed emanerà un lume forse argenteo e non più “così giallo quando è giallo” dopo i restauri, mentre i Martini e i Cristi e le Madonne d’Emilia risiedono accumulati o impilati in un cul-de-sac effimero e metallico, alla Galleria Nazionale di Parma ristrutturata e rimansardata come un Pavesini ove bisogna far chilometri di scalette e percorsia U fra i topi gigi per poter prendere un caffè. Ma arrivando nella capitalina di Maria Luigia un viaggiatore sentimentale d’arte rimarrà innanzitutto incantato dalle invenzioni e dagli estri della Camera di San Paolo, ombrellone di verzura post-gotica e gazebino neo-pagano per una singolare Badessa dallo spirito evidentemente forte, una Frances Yates degli anni 1510.
Altro che quelle Jeanne Moreau monache pecione fra Diderot e Monza... Qui le teste degli abbacchi ionici ancora freschi dal banco del beccaio tendono con le volute dei corni-capitellii tovaglioli che reggono i servizi da tavola “buoni” proprio sotto i “conversation pieces” mitologici e comunque classici che daranno un avvio tematico alla causerie a colazione. E più su, da guardar sedendo, un’anticipazione con ingrandimento di quell’espediente elementare ma eccelso di voyeurismo erotico poi variamente chiamato “oeil-de-boeuf”o “glory hole”, ed egualmente apprezzato da Marcel Proust come dai paraculetti in cabina a Ostia: la sessualità che si trasferisce e concentra dai soliti organi ad essa deputati in uno Sguardo che “penetra” attraverso un “buco” non carnale ma ottico. Anche esaltando come “dionisiaco” ciò che senza il Foro e l’Ostacolo potrebbe ricondursi a quel modello di anticlimax feriale che è la spiaggia nudista, senza festoni né siepi.
Entro gli oculoni di verzura nel gazebo alto, il movimento dei bambinacci correggeschi può sollecitare interrogativi sulle motivazioni e destinazioni – oggi si direbbe il target – perché sono piuttosto sviluppati, vissuti, e senz’ali. Non “culini santi”o “d’oro” per intenerire mammine di tesorucci, e spingerle ad acquisti insensati di borotalco e carta igienica di sofficità tipo famiglia. Però non ancora quel primo fil di barba con cambio di voce che preannuncia prossime – benché inesperte – soddisfazioni per la signora: temi per lo più svolti da Colette e da Gide, ovvero se il buon seme non muore verrà su il grano in erba, e noi siamo lì pronti. “Mutare il verde prato / in un giuoco proibito. / Mi ci sono provato. / Ma ci sono riuscito?” (Sandro Penna). Forse quei culetti allegri nell’età più critica per il bambinaccio in crescita non dovevano proprio dilettare una dama eccentrica dai gusti sodomitici. Forse la savia e mondana Badessa Piacenza mostrava piuttosto un cortese riguardo per certi suoi amici che venivano a far conversazione: vecchi sodomiti doviziosi, provinciali, aggiornati, dabbene, magari collezionisti segreti di chissà quali Sansebastiani galeotti, magari gastronomi abituati allo scherzo su Culatelli e Felini col figlio del salumiere che ha capito tutto “e allora facciamo buon peso?” Però orgogliosi dell’amicizia con la Signora – uno dei pochi salotti che si possano ancora frequentare – e non meno assidui col loro regalino alle prime comunioni dei piccini dei villici. “Dei signori così bravi con la gioventù!” Molto conservatori e benpensanti. E siccome Parma sembra pochissimo cambiata nel tempo, le loro amabili conversazioni si possono ricostruire benissimo, forse. Quante eleganti simiglianze (avete notato?) tra gli affettuosi giudizi di Stendhal sul Correggio, e un suo sorprendente anticipatore (l’avrà mai letto?) che è l’Ardinghello e le Isole Felici di Wilhelm Heinse, del 1787: un viaggio-conversazione preromantico e giovane attraverso l’Italia più rinascimentale e passionale dei “tre grandi apostoli dell’arte, Raffaello, Tiziano, e Correggio”... dove “qualche misera cittadina, ricca soltanto di un quadro celestiale di Raffaello o di Correggio, brilla come una stella di fronte a immense ricchezze del Nord, notturni deserti dove non appare alcuna bellezza”...E proprio a Parma, paragonando il Cristo Morto correggesco già in San Giovanni alla Deposizione Borghese di Raffaello: “Secondo me, egli ha superato tutti e tiene il primo luogo come un Sofocle, tanto grandi sono la severità, la commozione e la semplicità con cui tratta l’episodio, rinunziando alla sua consueta magnificenza di colori e alla sua sorridente maniera. Il divino giovane, pallido, esangue, giace disteso. Maddalena gli siede a lato, immersa in profonda tristezza, e versa calde lacrime, come un’amante inconsolabile; il dolore della tenera madre per il terribile destino del figlio confina con l’amarezza della morte. Li avvolge una torbida luce; tutto è in grandezza naturale”.
Ma subito dopo, rammentando il Correggio voluttuoso: “Raffaello, martire lui stesso per Amore, non ha mai espresso la delizia dell’amore – forse il più alto soggetto per tutte le arti figurative – con la profonda armonia dell’anima e con la serena fantasia che manifestò nella sua Io il grande Lombardo, senza fama invita e vicino di Ariosto, anche se avesse dovuto offrirgliene occasione la piccola e antica Leda con la quale Giove si accoppia sotto forma di cigno, un eccellente e voluttuoso gruppo che voi veneziani avete collocato proprio davanti all’ingresso della Biblioteca di San Marco a dimostrazione del vostro libero modo di pensare ”...E un’idea fissa: “Ah, se si potessero unire in un solo essere la verità del colore di Tiziano, la luce e le ombre del Correggio, l’alto spirito di Raffaello e la conoscenza del corpo umano di Michelangelo, avremmo indubbiamente l’ideale di pittore, quale forse nemmeno gli stessi Antichi hanno mai avuto”. Sturm und Drang? Anti-Werther? Mezzo secolo prima della Certosa di Parma...
Non per nulla Ardinghello è in realtà un giovanotto Frescobaldi in esilio antimediceo tra l’atelier di Tiziano vecchio a Venezia e sempre in incognito a un ballo a Genova ove finisce nell’armadio della bellissima Lucinda, e... mentre lei dorme... “Davanti a una Madonna col Bambino, copia della deliziosa Madonna della seggiola di Raffaello e opera di uno dei suoi migliori scolari, ardeva una lampada, un’altra era accesa davanti a una Maddalena, opera certamente di quel grande genio lombardo che fu Antonio Allegri; vi era una indescrivibile grazia nei tratti del suo volto, una gran delicatezza nel colore;i capelli biondi, dipinti in un modo insuperabile, erano come mossi deliziosamente da un’aura lieve sopra le giovani mammelle. Davanti a ogni quadro vi era una pianta fiorita: davanti alla Maddalena, boccioli e rose in fiore; dinanzi alla Madonna, gigli e garofani che lei stessa aveva coltivato d’inverno. Su di un tavolino di fronte alla Maddalena, le poesie di Petrarca, l’occorrente per scrivere...” E dopo numerosi correlativi obiettivi – potenza erotica del Correggio! Giù i pantaloni, preromantici! – “alla fine non fui più padrone di me stesso. Mi liberai dei vestiti e mi accostai a poco a poco con tutto il corpo alla cosa più bella che abbia il mondo. Con la punta delle dita scostai la camicia ai due lati, mettendo a nudo le mammelle che mi sorrisero coi loro innocenti boccioli, come implorando di venir risparmiati nella loro verginità; sollevai il lenzuolo dai piedini asciutti e slanciati e dalle belle gambe fino alla metà delle cosce che salivano verso l’alto rotonde e opulente come colonne, e sotto le quali esso restò imprigionato...” (W. Heinse, Ardinghello e le Isole felici, Una storia italiana del Cinquecento, a cura di Lorenzo Gabetti, Bari, De Donato, 1969).
Anche Ardinghello ricollega volentieri Correggio alla musica. (Ma gli autori preferiti da Heinse sono i medesimi rivalutati da Riccardo Muti e da Amadeus: Salieri, Jommelli, Traetta.) E come poi Stendhal, che favorirà Mozart, Paisiello, e addirittura Cimarosa (a proposito della Madonna della Scodella). Possibile mistificarsi a tal punto? Eccellenti sciarade e quiz per gli eleganti ospiti della Badessa: quale musicista corrisponderà più profondamente al Correggio? E per soavità mitologica sovrana si dovrebbe inesorabilmente arrivare a Francesco Cavalli, cremasco, ma del quale Stendhal non poteva conoscere le sublimi opere – La Calisto, L’Ormindo – avendo mancato tutti i carnevali veneziani ai teatri di San Cassiano, Sant’Apollinare e San Moisè, fra il 1640e il 1670 circa, nonché le riprese fra un prediletto Mozart e un altro in quelle arcadie di stendhalismo aggiornato che sono Glyndebourne e Santa Fe, dove l’Orione barocco del Cavalli “en plein air” si trasformava in costellazione su nel cielo del New Mexico estivo...
E sarà proprio La Calisto, perché riunisce due temi così correggeschi come gli Amori di Giove e la Caccia di Diana (eccola lì sulla cappa del camino a San Paolo), mentre non per nulla una Callisto di Dosso Dossi teneva buona compagnia alla Danae nella sala XIX della Galleria Borghese d’una volta? Un amore fra i più “intriganti”, anche per un Parmigianino dopo Fontanellato, giacché mentre Diana un pochino si sperde a contemplare il sonno di Endimione, Giove si traveste appunto da Diana per sedurre la ninfa Callisto, che rimane contentissima e vorrebbe ricominciare con la vera Diana. Ma essa ribatte con sussiego: “Taci, lasciva, taci. Qual, qual delirio osceno, l’ingegno ti confonde? Come immodesta, donde, profanasti quel seno, con introdur in lui sì sozze brame? Qual meretrice infame, può de’ tuoi, dishonesta, formar detti peggiori?” E arriva Giunone a interrogarla: “Altro che baci, dì, v’intervenne, vi fu, tra la tua Diva e te?” E la balorda ninfa: “Un certo dolce che, che dir non t’el saprei”. Capito tutto, Giunone la trasforma in orsacchiotta, e Giove a sua volta nell’Orsa Minore (quante costellazioni per i festival all’aperto!), mentre Pane certi satiri si comportano malissimo con Endimione in fondo ai boschi (“Legato agli aceri, costui si maceri”, ecc.), e gli amici della Badessa Piacenza sarebbero stati contentissimi.
Ma altre sciarade incombono. In una lettera a Balzac, recuperata da V. del Litto, Stendhal sostiene che “tout le personnage de la duchesse Sanseverina est copié du Corrège”. Ma non sarà Clelia, la più correggesca di tutti? E la Sanseverina e Fabrizio non sono piuttosto Bronzino, fuori da quest’area? Si può andare avanti per sere e sere...
E circa gli “intriganti” viaggi del Correggio a Roma o altrove, con quale gusto si rammenterebbero le controversie a proposito dei viaggi di Luchino Visconti negli Stati Uniti, quando faceva regie talmente identiche ai Tennessee Williams di Elia Kazan che la documentazione non poteva esser bastata, ci voleva un’esperienza diretta. Però si sa che Luchino aveva fatto tutta l’America prima della guerra, mentre dopo la simpatia per il Pci avrebbe creato problemi...E allora come si spiegano certe coincidenze impressionanti anche per chi andava e tornava da Broadway ogni anno come Garinei e Giovannini?... Insomma, com’è difficile la certezza storica anche sui contemporanei: altro che il Vasari, quando non si sa niente su un “periodo nazista di Luchino”, rimosso da familiari e vecchi amici, però fonte della “giustezza” negli ultimi film “bavaresi”, elaborati su una testimonianza personale di prima mano ma evidentemente immediata, anche se in incognito.
E circa le congetture intorno ai programmi iconografici forse presunti di collezionisti magari “casual”, chissà quanti commenti e sorrisi: quest’anno ho messo le incisioni di Rops accanto alle eliografie di Klimt perché mi pare spiritoso in bagno; quest’angolo ha una differenza di formati perché sotto i centauri di Klinger vanno le bottiglie alte mentre sotto le Figlie del Reno di Fantin-Latour arriveranno i bicchieri bassi...
Nèi e cicisbei del Cinquecento... nelle intermittenze di una Tangeri o Patmos dello spirito... Saranno insomma gli stessi vecchi amici locali della Badessa, in diversi momenti della giornata, quegli “ambigui vegliardi in vestaglia accanto agli angioli senz’ali” (Longhi) sulla cupola dei frati di San Giovanni Evangelista, oggi restaurata nei suoi splendori dopo secoli di invisibilità per sudiceria? tra le ambiguità della prosa d’arte antica, per Berenson era “pressoché inevitabile” un’emersione di Michelangelo a Firenze, un’apparizione di Raffaello in Umbria, un’emergenza di Tiziano a Venezia. Ma per niente affatto era prevedibile, “in the petty municipalities of Emilia” – e in quel “petty” commiserativo si compendia di solito tutta la meschinità dell’Universo – “il delizioso flusso che conosciamo come Correggio”. E il curiosissimo sostantivo “stream” (mica sempre “of consciousness”) significa per lo più un getto liquido molto consistente e molto abbondante, definito “un miracolo” in paraggi dismessi in quanto “uninspiring”.
Però Berenson identifica flusso e miracolo con l’irresistibile seduzione di uno charme talmente femminile da anticipare il Settecento e mirare “miracolosamente ” al più squisito Rococò... Dunque, tagliando completamente fuori gli impressionanti Giganti di questa cupola, dove i referenti e le competizioni di un artista all’incirca trentenne potevano soprattutto risultare la Cappella Sistina e i suoi omoni per niente galanti e chic. (E circa i programmi platonici o plotinici, impossibile dimenticare ciò che rispondeva Maria Callas circa il supposto Nietzsche nella sua vertiginosa Medea: “La massima preoccupazione era il peso dello strascico, per far cadere giuste le pieghe nelle voltate improvvise sui gradini”.)
Ardinghello, invece: “La cupola del Correggio che racchiude l’Ascensione in cielo di Cristo nella chiesa di San Giovanni a Parma appartiene a un genere particolare di tattica pittorica ed è un’opera a sé che per effetto pittorico non è possibile paragonare a quella di Raffaello senza fargli torto. Si resta stupefatti, se ci si pone sotto la cupola, inchiodati al pavimento come per un incantesimo, e si osserva un giovane di questa terra, dagli attributi sovrannaturali, ascendere verso lontane altezze, trasportato da tempestosi e servizievoli venti che giocano carezzevoli con il suo ampio mantello di porpora”.
Nella prosa del giovane preromantico si avverte quindi la presa dell’elegante artificio illusionistico per cui dalla parte del pubblico (cioè, i fedeli) il volo del Cristo appare effettivamente come un’Ascensione: e infatti il giovane Giacomo Minore, avendo già salutato e preso congedo e augurato buon viaggio ed esauriti i convenevoli, si sta volgendo altrove, già distratto, senza attardarsi a far ciao ciao con la manina come alla stazione finché il treno è scomparso dietro la curva. Invece, dalla parte del coro, i monaci potevano scorgere il rovescio ottico della frittata, e una situazione opposta: questo vecchio d’aspetto malvissuto – Giovanni Evangelista a Patmos – già immerso e schiacciato in chissà cosa fino alla cintola (per punizione? per anamorfosi?), come un Atlante di William Blake o di Samuel Beckett, ormai muto e avvilito e Fin de partie dopo aver ripetuto le mille volte: “tutto il peso di questa roba deve gravare sulle mie spalle, mentre voi andate in giro notte e giorno a divertirvi”...E l’infelice vegliardo vede questa cosa abbastanza tremenda: un Gesù anziano e depresso (i trentenni stempiati d’una volta...) che cade a testa in giù scomposto e smarrito dalla sua parte, non come quegli aviatorio aviatrici che nei film degli anni Trenta planavano ridenti su un mucchio di fieno lì pronto, ma senza guardar suo giù e senza badare alla direzione...
Quindi, probabilmente, essendo Giovanni un apocalittico e un visionario, rinfocolando certi spaventi circa l’avvenire, caratteristici e diffusissimi anche oggi quando si deve lasciare Patmos: magari, una resurrezione della carne con un corpo ormai centenario (a differenza degli Endimioni e Atteoni e Adoni morti giovani e romantici e neoclassici e splendidi), e un futuro tutto in compagnia di altri vecchi santi e sante per niente divertenti (Gerolamo, Antonio, Tommaso), in un aldilà dove sarà forse già stato abolito il miglior gregoriano come nell’al di qua, sostituito dagli scampoli di Sanremo eseguiti dal rag. Brambilla alla chitarra conciliare elettrica, con le rime in “are”e in “ato”...E se non si sono sentiti il Tristano e il Pélleas la Carmen al Teatro Regio, basta, è finita: e pensare che era lì a un passo dal San Giovanni Evangelista...
“Come farli volare?” era un tema che tipicamente inquietava Carlo Emilio Gadda, sia per gli aspetti tecnici, ingegnereschi, leonardeschi, del volo umano (cono senza cupola), sia per i risvolti psicologici che lo portavano a identificarsi con i problemi intimi degli esseri mitici: sarà davvero contento l’Ippogrifo? non si annoierà, sempre lì sola, la Sfinge? che cosa penserà, per tutto il giorno, la Chimera? cosa proverà, il centauro Chirone, tutte le volte che il piccolo Achille gli salta in groppa poco vestito?... Domande sospese a mezz’aria anche in questa cupola dove tutti gli astanti si comportano come in una sauna o un hammam civilissimo e frequentato benissimo... se non fosse per tutte quelle bande di ragazzini lì fra le gambe a domandare e a pretendere...E se si guarda in su come quando si esclama “Juste Ciel!” in spiaggia a Copacabana, fra le richieste di sigarette e di spiccioli, si potrebbe tentare qualche riflessione leonardesca - inframmezzata da “attento alla borsa!”, “dov’è il mio costume?”, “lascia stare quelle scarpe!” - rammentando Gadda che esclamava “non si può lasciar passare una simile grossièreté estetica!”a proposito del “volo dell’Alfieri” nell’Ode al Piemonte di Carducci, dovei versi sono ahimè così: “Venne quel grande, come il grande augello / ond’ebbe nome;e a l’umile paese / sopra volando, fulvo, irrequieto / Italia, Italia / egli gridava a’ dissueti orecchi. ..”
“Qui si pone un problema che il poeta non si è posto, mentre sarebbe stato tenuto a porselo”, osservava Gadda. “Come volava il grande Alfieri? E questo Alfieri che volava sarà stato così entusiasmante da vedere per chi se lo vedeva passar sopra? Prima di tutto, un individuo che vola sopra di noi ci dà la sensazione che ci possa lasciar cadere qualcosa di pericoloso sulla testa: che so, un sasso, una bomba. E poi, in che toilette vola l’Alfieri, secondo il Carducci? In quella di Icaro? E che spettacolo offrirebbe allora a chi guarda di sotto in su? E se volasse invece con abiti del suo tempo, non fulvo ma calvo come un ginocchio avendo contratto da giovanetto la tigna alla scuola militare dei cadetti?... In ambedue le ipotesi, far volare la gente è sempre pericoloso, e può sboccare in situazioni impoetiche per eccellenza: grottesche-barocche; anzi, di tipo grottesco-grullo.”
.. Forse ecco un lievissimo (e rimosso) “souppon” di Carducci e d’Alfieri, nel Cristo correggesco visto dalla parte del coro, col timore italiano che appena giù possa iniziare un “Qui freno al corso, a cui tua man mi ha spinto, onnipossente Iddio, tu vuoi ch’io ponga?” (Versi dell’Astigiano)... E andare avanti magari a lungo... Ma se oltre alla visuale “ascenditiva” dalla navata e alla “discenditiva” dal coro si contempla questo Cristo anche lateralmente, dal transetto, altro che figura à double face: struttura e gesti appaiono assai polimorfi (anche da Ratti d’Europa illustri, come se alla figura svolante fosse stato sfilato il toro di sotto), entro il luminoso contorno o dessert d’angiolini più elegante e discreto che nella cupola del Duomo, dove un grande aspiratore tira su di tutto, anche un frullato di Ganimedi affini a quello viennese.
Sotto, invece, secondo la leggenda, gli ambigui vegliardi si troverebbero a Patmos, isola così piacevolmente frequentata in vacanza. E fra i tanti artisti che hanno trattato il tema delle visioni di San Giovanni in quella perla del Dodecaneso dall’aula “magica” come Ascona e St-Moritz, anche oggi, taluni già nel Rinascimento ne hanno “azzeccato” visionariamente il panorama (come Kafka che indovinò l’America senza esservi stato), sicché talvolta al Metropolitan o al Louvre si incontra un gruppetto ancora abbronzato che “riconosce” la casa di Grazia e Giuseppe, quella di Teddy, ecc. E neanche molto tempo fa, in estate, si salutavano sulle spiaggette patmiotee al monastero di San Giovanni Evangelista diversi vecchie vecchioni molto somiglianti a quelli della cupola parmigiana – per lo più, antiquarie mercanti d’arte di Londra e New York – con salviette e ciniglie identiche alle correggesche, e altrettanti ragazzini disposti per pochi soldi a riportarli in palanchino sua Kora per le funzioni bizantine dei monaci. C’era anche su quelle rive non ancora di massa un apostolo più giovane e chiaro degli altri, ma è stato il primo (forse) ad andarsene: era Bruce Chatwin.
Naturalmente c’era già sempre stata la leggenda di Capri, come “topos” di relax fra nonni maturi e maliziosi nipotini, magari (i più anziani) indaffarati con asciugamani per coprirsi a vicenda e non mostrare le brutture ai meno-che-teenagers senza pudore come cene sono sempre stati a frotte, sempre lì a intrufolarsi e a chiedere, anche su prode e greti di fiumi e torrenti nell’Italia padana povera. E Roberto Longhi cita divertito John Addington Symonds per cui la cupola correggesca del Duomo parrebbe “un paradiso erotico mussulmano” con “angeli efebi quali urì”. Poi commenta, a proposito dei suoi colleghi incapaci di interpretazioni “epicureistiche”o “anti-trascendenti”, e di “illuminata struttura mentale”: “ma che cosa attendersi da un terreno dove sempre lussureggiava il bosco dell’eterna arcadia italiana, sebbene drappeggiata in costumi di tardo romanticismo?” Avrebbe ridacchiato parecchio trovando nelle Memorie dello stesso Symonds che il suo luogo preferito a Venezia era il giardinetto dell’osteria Fighetti al Lido, “prediletta dai gondolieri perché Fighetti, un muscoloso gigante, è per loro un eroe›. (“In traccia di alcuni anonimi Giganti e Fighetti correggeschi”... Che titolo per un contributo da inviare a “Paragone” anonimo... Ma The Memoirs of J.A. Symonds, a cura di Phyllis Grosskurth, uscì da Random Housea New York solo nel 1984.)
Mentre però noi ci stiamo divertendo qua sotto, “... Ah, organizzare e illuminare una cupola!”, si staranno dicendo Mantegna e Goya dentro la cupola più grande di tutte. E citeranno subito questo capolavoro giovanneo del Correggio per la sovrana libertà e disinvoltura degli affetti e dei gesti, tenerezze parmigiane e solletico anche giù fra tori e leoni alati in odor di evangelio simbolico...E non già graziose Delikatessen di congiuntura storica o peculiarità geografica, ma estro e vocazione per una bellezza calda e confidenziale e capace di grandiosità come di intimità, in un fremito di vibrazioni dorate che creano ed emanano luce (e il Rococò ne sarà forse “ricaduta” o “indotto”?...).