È merito di poche menti illuminate se oggi nei musei italiani possiamo ammirare una sparuta manciata di quadri di Paul Cézanne. Palma Bucarelli che acquistò il Cabanon du Jourdan, ritenuto l’ultimo dipinto di Cézanne, per la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Carlo Grassi che comperò Les voleurs et l’âne per la sua raccolta, e la vedova Nedda Mieli che, nel 1956, donò tutto al Comune di Milano. E Luigi Magnani, altro intelligente collezionista di Cézanne, che nel 1990 aprì al pubblico la sua “villa dei capolavori”, quella della Fondazione Magnani Rocca, dove s’ammira oggi la Natura morta con ciliegie, una delle rarissime opere del grande francese che si trovano in Italia.
Per Cézanne potrebbe valere lo stesso discorso che si fa per tanti altri artisti stranieri dagli impressionisti in poi. Munch, Mondrian, gli espressionisti tedeschi. Decennî d’opportunità sprecate, di giudizî affrettati, di commissioni spesso incapaci di riconoscere il valore di pittori e scultori che hanno fondato l’arte moderna e quindi di portare le loro opere nei musei italiani. Per Cézanne poi il rammarico è doppio, dacché si trovava in Italia, negli anni Venti, una delle più grandi collezioni di Cézanne esistenti al mondo, quella di Paolo Egisto Fabbri, che del pittore provenzale, con cui fu in rapporto epistolare, era uno dei maggiori sostenitori. Arrivò a possedere una trentina di quadri di Cézanne: poi, per far fronte a un suo progetto filantropico, quello della ricostruzione della chiesa di Serravalle in Casentino, distrutta da un terremoto, fu costretto a vendere i suoi dipinti di Cézanne. Nessun museo italiano si fece avanti per acquistarli. E la sostanziale assenza di Cézanne dai musei pubblici italiani, scriveva Giuliano Briganti, “è un fatto che va sottolineato perché è molto sintomatico se vogliamo formulare un giudizio sulla cultura della classe dirigente cui erano, in un passato non troppo lontano, affidate le sorti della nostra politica artistica”. Una “dolente storia d’incomprensione, d’ignoranza e di occasioni mancate”, per sintetizzare.
La possibilità di vedere la Natura morta con ciliegie nell’eleganti sale della villa di Mamiano di Traversetolo, nel mezzo della campagna parmense, ripaga in parte la delusione nei confronti di chi, in passato, non riuscì a comprendere l’utilità d’arricchire le raccolte pubbliche con opere di Cézanne. Magnani diceva che era poco interessato ai soggetti dei dipinti che acquistava: “Il rapporto che amo con l’opera d’arte è quello che si riferisce esclusivamente alla forma. Un quadro pieno di contenuti, anche belle storie, non mi interessa affatto. Mi preme solo ciò che riguarda l’aspetto formale, se no resto indifferente”. Questo atteggiamento lo portò a cercare di rimpinguare la sua raccolta con opere di Cézanne, del cui valore Magnani era totalmente avveduto, così come, con tutta probabilità, era anche consapevole del fatto che la sua ricerca di opere del maestro francese faceva da ideale contraltare all’assenza di suoi lavori nelle collezioni pubbliche. Erano soprattutto gli acquerelli come la Natura morta con ciliegie ad affascinarlo, per quella loro capacità di porsi dinnanzi al riguardante come immagini “cerebrali”, ha giustamente sottolineato Stefano Roffi: negli acquerelli, scrive il direttore della Fondazione Magnani Rocca, “l’artista ricrea il consistere delle cose, la struttura della forma, il senso plastico insito nella natura: una ricognizione dell’essenza che porta a una ricostruzione pittorica vera oltre quello che appare all’occhio, superando l’aneddotica retinica impressionista”.
Ci si lascia sorprendere dall’apparente banalità di quest’immagine. Un tavolo, raffigurato in prospettiva, sistemato all’interno d’un ambiente spoglio. Sopra, nient’altro che un piatto di ceramica bianca colmo di ciliegie, e a fianco una tazzina da caffè, con cucchiaino, sopra un piattino anch’esso di candida ceramica. Non possiamo considerare Cézanne il padre dell’arte moderna perché altrimenti, parafrasando Jean Clair, dovremmo escludere dalla modernità tutte le ricerche sul figurativo, ma è indubbio che gran parte dell’arte del XX secolo nasca da immagini come queste: immagini dove gli oggetti nello spazio rispondono all’idea dell’artista che, contemplando la realtà, al contempo ne indaga gli aspetti più puri, al fine di cogliere l’essenza, l’identità di ciò che esisteva già prima dell’artista, già prima dell’essere umano. Per questa ragione le nature morte di Cézanne sono profondamente diverse rispetto a tutte quelle che le hanno precedute: il riguardante non ha la sensazione d’esser capitato dinnanzi a una tavola preparata per un pranzo, non ci sono oggetti che qualcuno, arrivando da un momento all’altro, comincerà a utilizzare. Le nature morte di Cézanne sono costruzioni dell’artista, sono una sorta di laboratorio.
L’artista cerca di cogliere la complessità del mondo a partire dalle sue forme più elementari, cellule primarie d’un universo estremamente ricco. “Arrivare al cuore di ciò che esiste da prima di te e continuare a esprimerti nella maniera più logica possibile”: questa l’idea che Cézanne manifestava in una lettera inviata il 26 maggio del 1904 a Émile Bernard dalla sua Aix-en-Provence. Da questa ricerca deriva l’estrema semplicità delle forme che caratterizza la Natura morta con ciliegie della Fondazione Magnani Rocca, così come tante altre nature morte di Cézanne. Una semplicità di forme ch’è però completata da un armonioso equilibrio di colori, da un’alternanza calibrata di vuoti e pieni, con la luce che fa risaltare il bordo del tavolo e fa emergere il volume delle ciliegie.
Uno dei primi entusiasti dell’arte di Paul Cézanne, Roger Fry, notava che occorre guardare il contorno degli oggetti per rendersi conto della complessità dell’arte di Cézanne. Vale per tutto ciò che troviamo nella Natura morta con ciliegie: il contorno, si veda per esempio quello del tavolo, è solo apparentemente continuo. In realtà cambia con vivacissima frenesia, è tutto meno che uniforme, varia nella disposizione dei tratti che lo compongono, nella luminosità, nel colore, financo nello spessore. “Otteniamo così”, scriveva Fry, “la nozione di estrema semplicità nel risultato generale e di infinita varietà in ogni parte. È questa qualità infinitamente mutevole della materia stessa del dipinto che comunica un così vivido senso della vita”. E nonostante la semplicità delle forme, tutto è movimento, tutto è colmo di vita, tutto ci riporta a quel caos che l’artista cerca di dominare per coglierne il senso. Con in più, rispetto ai dipinti a olio, quella sensazione d’immediatezza che l’acquerello riesce a garantire, e che non impediva a Cézanne d’esprimere con pari efficacia il suo desiderio di catturare l’eternità delle immagini.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).