Mostre a Bologna: Natura ed espressione di Francesco Arcangeli (1970)


La mostra Natura ed espressione di Francesco Arcangeli, nel 1970, indagò un particolare filone dell'arte bolognese lungo i secoli: quello più espressivo e popolaresco

Dopo la grande mostra su Guido Reni del 1954, anche le successive Biennali d’Arte Antica continuarono a occuparsi di pittori classicisti: per esempio, nel 1956 fu la volta dei Carracci, nel 1962 ci fu la mostra L’Ideale Classico nel Seicento, nel 1968 la mostra fu dedicata al Guercino. Con la Biennale d’Arte Antica del 1970, gli interessi cambiarono. Fu quello l’anno in cui prese forma il progetto che dava corpo e sostanza ad anni di ricerche di uno dei più grandi storici dell’arte del Novecento, Francesco Arcangeli: la mostra Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana. L’esposizione venne aperta il 12 settembre del 1970, durò fino al 22 novembre, e si svolse nelle sale del Palazzo dell’Archiginnasio di Bologna.

Il catalogo della mostra Natura ed espressione nell'arte bolognese-emiliana a cura di Francesco Arcangeli
Il catalogo della mostra Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana a cura di Francesco Arcangeli
Gli studi di Arcangeli coprivano un periodo molto ampio della storia dell’arte emiliana e bolognese: all’incirca dal Mille e cento fino ai giorni nostri. Come anticipato, gli interessi dello studioso non vertevano però sulla corrente classicista dell’arte emiliana, quella corrente che fu particolarmente viva nel corso del Seicento e che dettò gusti e tendenze, come si è visto nell’articolo sulla mostra di Guido Reni. Arcangeli riteneva che l’arte di Bologna e dintorni fosse sempre stata contraddistinta da una costante che non l’avrebbe mai abbandonata, neppure ai giorni nostri: il profondo rapporto con la natura, dovuto al fatto che il sostrato culturale di Bologna deriva dal suo legame con le campagne e con la civiltà rurale che, nel corso dei secoli, ha permesso alla città di svilupparsi.

Questo rapporto con la natura si manifestò attraverso un’arte fortemente carica, molto espressiva, dal sapore spiccatamente popolaresco: Arcangeli faceva risalire le origini di questo modo di fare arte ai rilievi di Wiligelmo. Siamo in epoca romanica, e con Wiligelmo la ieraticità dell’arte bizantina lascia spazio a una narrazione più segnatamente umana, in cui è tangibile il dramma dei personaggi che l’artista rappresenta nella sua scultura. Valgano, a mero titolo d’esempio, i rilievi della Genesi sulla facciata del Duomo di Modena, con una delle cacciate dal Paradiso terrestre più potenti della storia dell’arte: la disperazione dei progenitori è tangibile. Non dimentichiamo poi che l’arte padana, e in particolare quella emiliana, in epoca romanica dava grandissima importanza al lavoro: in quest’epoca abbondano i cicli cosiddetti “dei mesi”, in cui a ogni mese dell’anno è associata la figura di un personaggio che si dedica a un mestiere tipico del mese.

Questo legame tra arte e natura, questa visione del mondo che affonda le sue radici nelle tradizioni contadine della civiltà padana, rappresenterà una sorta di fil rouge che percorrerà tutta la storia dell’arte bolognese fino ad arrivare ai giorni nostri. Si pensi, per esempio, al drammatismo di un artista come Vitale da Bologna, o ancora all’"antirinascimento", per usare le parole di Arcangeli, di Amico Aspertini, uno dei geni più bizzarri e dissacranti del Cinquecento, che oppose la sua arte a quella più lirica e delicata di Francesco Francia, che era invece pregna della dolcezza derivata dallo studio dell’arte del Perugino. Dal Cinquecento si passa al Seicento con il pietismo devozionale e quasi popolaresco di Ludovico Carracci, che Arcangeli vedeva come una figura in netta contrapposizione rispetto al cugino Annibale, esponente invece di un aggraziato classicismo. Le scene anticlassiche e quotidiane di Giuseppe Maria Crespi continuano questa linea dell’arte bolognese nel corso del Settecento, finché non si arriva al Novecento con le intime nature morte di Giorgio Morandi, l’artista forse più d’ogni altro capace di rappresentare la semplicità e la genuinità del carattere dei bolognesi.

Amico Aspertini, Pietà (1519; Bologna, San Petronio)
Amico Aspertini, Pietà (1519; Bologna, San Petronio)

Questo, in sostanza, il percorso della mostra Natura ed espressione di Francesco Arcangeli. Un viaggio lungo otto secoli, durante i quali però alcune caratteristiche comuni dell’arte bolognese, per Arcangeli, rimangono immutate. Nel catalogo della mostra ne individuava, in modo sistematico, otto. Sono delle “costanti”, come le chiamava lo studioso. La prima: lo spazio del dipinto, “denso e corposo”, pieno di corpi, “essenzialmente aprospettico”. Uno spazio quindi intuitivo, carico, regolato non da leggi matematiche, ma dai corpi stessi che lo occupano. Un esempio è la Pietà di Amico Aspertini, dipinto non solo ricco di fortissimo pathos, ma anche connotato da quello spazio “denso” e “aprospettico” di cui parlava Arcangeli, in quanto senza vuoti, interamente occupato dai personaggi e privo di riferimenti spaziali. Un dipinto, per certi versi, anticipatore del manierismo. La seconda: la vicinanza spaziale. Arcangeli individua una costante dell’arte bolognese nel fatto che gli elementi raffigurati nel dipinto sono sempre vicini a chi lo osserva. Questo perché la vicinanza, a livello emotivo, riesce a coinvolgere maggiormente lo spettatore, al contrario della lontananza che comporta distacco. La terza, diretta conseguenza delle prime due: la comunicazione spaziale con l’osservatore, con le scene che tendono a svolgersi sempre in primo piano.

Vitale da Bologna, Storie di sant'Antonio Abate (1340 circa; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Vitale da Bologna, Storie di sant’Antonio Abate (1340 circa; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
La quarta è quella che Arcangeli chiamava il brano di vita, ovvero la tendenza, dell’arte bolognese, di rappresentare entro i limiti fisici del dipinto nient’altro che un frammento di una figurazione più ampia: è la sensazione che ricaviamo, per esempio, dalle tavole con le Storie di sant’Antonio Abate di Vitale da Bologna, una delle quali scelta per decorare la copertina del catalogo dell’esposizione. E ancora, la “prepotenza del particolare”, ovvero la capacità dei singoli dettagli di richiamare la nostra attenzione: su un dipinto come la Latona che trasforma i pescatori in rane di Crespi non si può fare a meno di soffermarsi su ogni singolo particolare di questa potente composizione, di questa “bizzarra scena di vita naturale, rustica”. E infine, le ultime tre costanti dell’arte bolognese secondo Arcangeli: la “plasticità diretta e non chiaroscurale” (lo vediamo bene, per esempio, e forse alle sue conseguenze più estreme, nelle nature morte di Morandi), il “chiaroscuro tonale-cromatico”, in cui il colore di base non perde mai i legami col colore di vertice, e per ultimo il colore “strettamente legato a un chiaroscuro di luce e d’ombra”, e che legandosi quindi alla luce e alle ombre creando effetti veridici, diventa “contingenza, meteorologia, protoimpressione”.

Obiettivo della mostra di Francesco Arcangeli fu quello di far emergere questo solco della tradizione bolognese, avvicinandolo a quello, più solenne, più ufficiale (e, ovviamente, più studiato) della tradizione classicista: riuscire in questo obiettivo significava anche far entrare Bologna in possesso di una delle sue anime più vere e più profonde. Doveva esserci un’arte che rispecchiasse il carattere cordiale, sincero e passionale dei bolognesi, e questa arte non poteva che essere un’arte legata alle tradizioni popolari, legata alle radici: tant’è che, per la prima volta, le origini dell’arte bolognese venivan fatte risalire non al Trecento, bensì addirittura a Wiligelmo, quindi a un’epoca in cui i ritmi della vita umana erano fortemente scanditi da quelli della natura, ben prima che l’ascesa della borghesia introducesse un’economia basata sul commercio e sui traffici mercantili, piuttosto che sull’agricoltura, e andasse quindi a modificare in modo radicale gli stili di vita delle comunità. Con la mostra di Francesco Arcangeli, le nobili eleganze classiciste venivano, per la prima volta, contrapposte alla genuinità popolare. La Bologna “dotta” degli intellettuali raffinati contro la Bologna “grassa” dei contadini che si ritrovano nelle osterie, delle giovani massaie generose, dei popolani che commerciano sotto i portici: è dunque merito di Francesco Arcangeli se oggi, nello studiare l’arte bolognese, questo tipo di arte più popolaresca, ma non meno interessante, non può essere messo in secondo piano.

Giuseppe Maria Crespi, Latona trasforma i pescatori in rane (1710 circa; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Giuseppe Maria Crespi, Latona trasforma i pescatori in rane (1710 circa; Bologna, Pinacoteca Nazionale)


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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