Napoli, la Cappella Sansevero e il Cristo Velato: un'immersione nello splendore barocco


La Cappella Sansevero, il tempio di Raimondo di Sangro, famoso per la presenza del celeberrimo Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, è un vero tesoro del barocco napoletano.

Una totale immersione nello splendore del Barocco napoletano nel cuore della città partenopea, così potrebbe essere definita l’esperienza da chiunque visiti uno dei monumenti più conosciuti di Napoli: la Cappella Sansevero. Un luogo ai più noto come custode di uno dei più grandi capolavori della storia dell’arte, il Cristo velato, ma la Cappella è un vero scrigno di sculture, di marmi e di ornamenti che lasciano estasiati. Al centro dell’unica navata è collocato il Cristo, di fronte la bianca monumentalità dell’Altare maggiore, e tutt’intorno, sulle pareti laterali, quattro archi a tutto sesto che custodiscono monumenti sepolcrali degli antenati illustri dei di Sangro, la famiglia a cui apparteneva il capolavoro architettonico. A separare gli archi, insieme ai pilastri, sono le straordinarie sculture che costituiscono gli altri veri tesori della Cappella, dopo il Cristo velato: basti pensare al Disinganno o alla Pudicizia. Tuttavia se si alza lo sguardo verso l’alto, la meraviglia non è ancora finita, perché la volta è magistralmente decorata ad affresco con la Gloria del Paradiso, con squarci repentini, apparizioni di angeli e stratagemmi architettonici illusionistici. E il tutto era completato da un pavimento labirintico, in parte tuttora visibile in alcuni punti dell’edificio, come in prossimità della tomba di Raimondo di Sangro, colui a cui si deve l’aspetto settecentesco della Cappella (l’impianto iconografico giunto sino a noi), ma soprattutto nei numerosi resti presenti nel deposito del museo.

Già nel 1688, dunque prima della “rimodernizzazione” ad opera del già citato Raimondo, Pompeo Sarnelli descriveva così nella sua Guida de’ forestieri, curiosi di vedere, e d’intendere le cose più notabili della regal città di Napoli, e del suo amenissimo distretto, la chiesa di Santa Maria della Pietà de’ Sangri (altrimenti denominata Pietatella): “è grandemente abbellita con lavori di finissimi marmi, intorno alla quale sono le statue di molti degni personaggi di essa famiglia co’ loro elogi”, collocata “a riscontro della porta piccola, e laterale di San Domenico Maggiore” e fondata da “Alessandro di Sangro Patriarca d’Alessandria, ed Arcivescovo di Benevento per divozione della Madre di Dio”.

Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Napoli, la Cappella Sansevero. Ph. Credit Museo Cappella Sansevero

Secondo la leggenda (molte leggende sono legate alla storia della Cappella di Sansevero e allo stesso Raimondo), accadde che un uomo innocente, ma condannato a essere rinchiuso in una prigione, vide crollare una porzione di muro del giardino del palazzo dei di Sangro in piazza San Domenico Maggiore e apparire l’immagine della Madonna, mentre veniva trascinato in catene in carcere: accadeva alla fine del Cinquecento. L’uomo, in segno di misericordia, promise alla Madonna di donarle una lampada d’argento e un’iscrizione, se fosse stato scarcerato e dichiarato innocente. Così avvenne e l’immagine sacra della Vergine iniziò a essere meta di pellegrini, che ricevettero a loro volta numerose altre grazie. Tra questi miracoli, si racconta che anche il duca di Torremaggiore, Giovan Francesco di Sangro, fu protagonista di un episodio: gravemente malato e rivoltosi a quest’effigie della Madonna per chiederle di farlo guarire, tornò sano e per questo fece erigere una piccola cappella votata a Santa Maria della Pietà, proprio nel punto dove la Vergine era apparsa all’innocente. Successivamente, agli inizi del Seicento, il figlio di Giovan Francesco, Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria, diede inizio a significativi interventi di ampliamento e modifiche all’originaria Pietatella in segno di ringraziamento per la guarigione di suo padre: realizzò un vero edificio di devozione destinato a ospitare le tombe degli antenati della dinastia, nonché i futuri esponenti. Intenzione era proprio accogliere e riunire i membri della famiglia di Sangro in un unico luogo, lo stesso in cui era stato salvato suo padre. Poco rimane dell’aspetto secentesco della Cappella: in pratica, solo la struttura esterna, la decorazione policroma dell’abside e quattro mausolei delle cappelle laterali. Gli interventi compiuti da Alessandro e l’intento alla base di essi sono testimoniati ancora oggi dall’iscrizione visibile sulla porta principale: “Alessandro di Sangro patriarca di Alessandria destinò questo tempio, innalzato dalle fondamenta alla Beata Vergine, a sepolcro per sé e per i suoi nell’anno del Signore 1613”. Questa non è l’unica iscrizione presente nella cappella monumentale a testimoniare parte della sua storia: sulla porta laterale si legge infatti un’altra lunga iscrizione, che in questo caso risale al Settecento, nella quale, rivolgendosi direttamente al visitatore, viene raccontata la gloriosa fase che vide protagonista Raimondo di Sangro (Torremaggiore, 1710 – Napoli, 1772), altro esponente della famiglia. “Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggi alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero don Raimondo di Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati”: con queste parole viene accolto chiunque vi entri. Fu infatti a metà del Settecento che il settimo principe di Sansevero compì l’opera straordinaria che vediamo ancora oggi: l’aspetto odierno è infatti frutto della volontà di quest’ultimo di realizzare un grande tempio che glorificasse tutti i membri della sua famiglia. Sebbene, come attestato dalle parole di Pompeo Sarnelli, già nel Seicento la cappella fosse arricchita da molti marmi e statue, con il riassetto di Raimondo esplose in ogni suo angolo e dettaglio il barocco: commissionò ai maggiori scultori dell’epoca le statue collocate vicino ai pilastri tra gli archi, che nel complesso impianto iconografico dovevano rappresentare le Virtù, nonché il capolavoro assoluto, ovvero il Cristo velato, e ai pittori più abili la magnifica Gloria del Paradiso che decora la volta.

Carlo Amalfi e Ferdinando Vacca, Ritratto di Raimondo di Sangro (1747-1750 circa; incisione)
Carlo Amalfi e Ferdinando Vacca, Ritratto di Raimondo di Sangro (1747-1750 circa; incisione)

Raimondo era un esponente dei di Sangro alquanto irriverente: era solito cimentarsi in sperimentazioni, poiché molto abile nella meccanica, nell’idrostatica, nella pirotecnica, nell’architettura militare. Tra queste, nel secondo volume dell’Istoria dello Studio di Napoli di Giangiuseppe Origlia, testo fondamentale pubblicato nella metà del Settecento attraverso il quale si apprende la biografia dettagliata di Raimondo, sono menzionate invenzioni come un particolare archibugio che funzionava sia a polvere che ad aria compressa, un cannone più leggero, una carrozza galleggiante, un tipo di cera e un tipo di seta ricavate da specie vegetali, farmaci prodigiosi, pietre preziose artificiali, un palco pieghevole e altre stranezze che sortivano meraviglia da parte dei cittadini e degli stranieri. Una mente creativa e vivace capace di dare vita a straordinarie fantasticherie che puntualmente realizzava. Oltre a queste materie, possedeva una grande conoscenza delle lingue, della letteratura e della filosofia. Nel 1737 fu introdotto tra i gentiluomini di camera di re Carlo III di Borbone e tre anni dopo, nel 1740, fu nominato cavaliere dell’ordine di San Gennaro. Fu inoltre valente militare: divenne colonnello del reggimento di Capitanata e prese parte alla guerra di Velletri, dando prova del suo coraggio. Nel 1751 venne poi pubblicata la sua opera letteraria più famosa, la Lettera Apologetica: un’apologia su un antico sistema di comunicazione che utilizzavano gli Incas del Perù. Si trattava dei quipu, ovvero di nodi realizzati con cordicelle colorate mediante cui questa popolazione narrava eventi e racconti. In realtà il testo era per Raimondo uno strumento per veicolare il libero pensiero su temi come l’origine del mondo e dell’uomo, la Chiesa di cui non tollerava l’intromissione non necessaria, il Tribunale dell’Inquisizione. Temi che vennero ritenuti espressioni della massoneria, alla quale fu considerata legata la stessa figura del di Sangro. Per questo la Lettera Apologetica entrò nei libri proibiti e fu condannata dalla Chiesa e il suo autore considerato esponente dell’esoterismo, nonché Gran Maestro della Massoneria. Si creò un vero mito attorno a lui per il suo prodigioso ingegno e per il suo essere “uomo meraviglioso predisposto a tutte le cose che osava intraprendere”, come si legge sulla sua lapide. La personalità insolita di Raimondo fece nascere numerose leggende sia su lui stesso che sulla Cappella. Quest’ultima, e in particolare i suoi sotterranei, divenne nell’immaginario un luogo quasi demoniaco, poiché di notte si udivano rumori sordi e incessanti come quello di un martello su un’incudine e si vedevano dai finestroni bagliori infernali. Secondo una credenza, Raimondo commise addirittura omicidi: fece uccidere due suoi servi per imbalsamarne i corpi al fine di realizzare le Macchine anatomiche, uccise sette cardinali per costruire sedie con le loro ossa e la loro pelle, e sempre secondo una leggenda, accecò Giuseppe Sanmartino (Napoli, 1720 – 1793), scultore del Cristo velato, per non permettergli di realizzare un altro capolavoro come quello. E ancora, che grazie a un processo alchemico riuscì a marmorizzare il velo del Cristo.

Si racconta anche che al momento della morte, il principe di Sansevero risorse e si fece tagliare a pezzi da uno schiavo moro per entrare bene in una cassa, dalla quale sarebbe uscito sano in un determinato momento; la famiglia di Sangro tuttavia cercò la cassa, la scoperchiò e il cadavere provò a rialzarsi ma cadde subito lanciando un urlo di dannato. Ancora oggi molte leggende demoniache circondano il principe e si raccontano persino episodi di incontri ravvicinati con il suo spirito. Alla luce di tutto ciò, tuttora non si conosce il vero significato del progetto iconografico che Raimondo volle creare nella Cappella attraverso le sculture marmoree, ma è stato tuttavia spesso accostato alla massoneria, a un progetto iniziatico.

La descrizione che ne fa Camillo Napoleone Sasso nella metà dell’Ottocento nella sua Storia de’ monumenti di Napoli e degli architetti che gli edificavano dallo stabilimento della monarchia, sino ai nostri giorni rispecchia largamente quella attuale: come narrato nella descrizione ottocentesca, è un “tempietto degno di essere veduto per le eccellenti opere di scultura che vi sono, dirette dal feracissimo ingegno di Raimondo di Sangro” e “si veggono molti nobili e sontuosi Sepolcri con bellissime statue”. I monumenti sepolcrali sono collocati nelle cappelle laterali e ospitano gli antenati illustri della famiglia, mentre le sculture situate tra un arco e l’altro sono dedicate alle donne della famiglia, ad eccezione del Disinganno che intende omaggiare il padre di Raimondo, Antonio. Queste ultime, emblemi delle Virtù, costituirebbero presumibilmente, a partire dall’ingresso, un percorso iniziatico per condurre alla conoscenza dell’animo e la complessità del raggiungimento della stessa era ulteriormente sottolineata dal pavimento labirintico che il visitatore si trovava a percorrere. Nell’ideare le statue delle Virtù, il principe di Sansevero fu influenzato dall’Iconologia di Cesare Ripa, che doveva certamente conoscere bene, dato che finanziò anche una riedizione in cinque volumi del testo di fine Cinquecento.

“Sopra la porta della chiesa vi è il deposito di uno di Sangro che armato di elmo e di corazza esce con la spada in mano da una cassa ferrata” scrive Sasso: si tratta di Cecco di Sangro, comandante al servizio di Filippo II, che durante una campagna nelle Fiandre rimase nascosto per due giorni in una cassa per sconfiggere i nemici e impadronirsi della rocca di Amiens. L’opera di Francesco Celebrano (Napoli, 1729 – 1814) dà inizio alla glorificazione della famiglia che si compie all’interno della Cappella ed è stata ritenuta da molti una sorta di guardiano immortale del tempio massonico.

Francesco Celebrano, Monumento a Cecco di Sangro (1766; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Celebrano, Monumento a Cecco di Sangro (1766; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Celebrano, Monumento a Cecco di Sangro (1766; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Celebrano, Monumento a Cecco di Sangro (1766; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Giuseppe Sammartino, Cristo velato (1753; marmo, 180 x 80 x 50 cm; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero

Dall’ingresso, camminando verso l’Altare maggiore, si susseguono a sinistra il Decoro, la Liberalità, lo Zelo della religione, la Soavità del giogo coniugale e la Pudicizia; superato il monumentale Altare maggiore e tornando verso l’ingresso, seguono il Disinganno, la Sincerità, il Dominio di se stessi, l’Educazione e l’Amor Divino. Capolavori scultorei raffiguranti come detto le Virtù che vennero realizzati da artisti quali Antonio Corradini (Venezia, 1668 – Napoli, 1752), Francesco Queirolo (Genova, 1704 – Napoli, 1762), Fortunato Onelli, Paolo Persico (Sorrento, 1729 – Napoli, 1796).

Il Decoro è impersonato da un giovane nudo che indossa sui fianchi una pelle di leone e che si appoggia a una colonna posta al suo fianco sovrastata dalla testa del felino, simboleggiando la vittoria dello spirito umano sulla natura selvaggia. La Liberalità è una raffinata figura femminile che tiene nella mano sinistra una cornucopia ricca di gioielli e preziosi e nella mano destra delle monete e un compasso. Ai suoi piedi un’aquila. La statua è ambientata davanti a una delle quattro facce di una piramide (le altre tre sono legate alla Soavità del giogo coniugale, alla Sincerità e all’Educazione). Probabilmente la figura geometrica simboleggiava nell’impianto iconografico iniziatico di Raimondo la sapienza egizia.
Lo Zelo della Religione si presenta come un gruppo scultoreo più complesso: un anziano tiene in una mano la luce della Verità e nell’altra una frusta; con un piede calpesta un libro dal quale escono alcune serpi che mordono un puttino. Quest’ultimo sta distruggendo testi eretici, mentre altri due putti sollevano un medaglione sul quale sono raffigurati i volti di due donne, le mogli di Giovan Francesco di Sangro. Una donna impersona la Soavità del giogo coniugale: tiene un giogo piumato e solleva due cuori fiammeggianti, mentre un putto alato solleva in una mano un pellicano. L’uccello simbolo del sacrificio di Cristo sulla croce rimanda all’alchimia: è emblema di un particolare recipiente utilizzato per la distillazione e anche della pietra filosofale.

La Sincerità è dedicata a Carlotta Gaetani, moglie di Raimondo: raffigurata leggiadra, la donna tiene un cuore e un caduceo nelle mani e ai suoi piedi è posto un putto con due colombe (in alchimia, lo stato della materia grezza prima che diventi pietra filosofale); il caduceo è invece simbolo dell’unione degli opposti. Un guerriero che ha in catene un leone rappresenta il Dominio di se stessi, il controllo delle proprie passioni: un tema tipico della massoneria. Si aggiungono al soggetto due putti e un medaglione con il volto della nonna di Raimondo, Geronima Loffredo. L’Educazione è raffigurata da una donna che insegna a un fanciullo, che a sua volta ha tra le mani aperto il De officiis di Cicerone. Infine l’Amor divino ha il volto di un giovane con mantello che innalza un cuore fiammeggiante, riferimento al fuoco che l’alchimista riceve da Dio. Gli elementi legati all’alchimia, alla massoneria, sono dunque ravvisabili nella maggior parte delle statue delle Virtù. Tuttavia, le sculture di grande rilevanza sia dal punto di vista della qualità che del significato sono collocate ai lati dell’Altare maggiore: da una parte la Pudicizia e dall’altra il Disinganno. La prima rappresenta la madre di Raimondo, “coverta con un velo trasparente sotto del quale si rilevano tutte le fattezze del corpo”, come si legge nella Storia de’ monumenti di Napoli; la seconda rappresenta il padre del principe, nelle fattezze di “un uomo avviluppato in una rete da cui tenta districarsi con l’aiuto delle proprie forze. La rete sta quasi tutta isolata senza che tocchi la statua. È da osservarsi l’atteggiamento dell’uomo che cerca uscir dalla rete per conchiudere esser questo un non plus ultra tra i capi d’opera dell’arte”, come racconta Sasso. Nel suo massimo capolavoro, il Disinganno, Francesco Queirolo rende magistralmente il tentativo di un uomo di liberarsi dal peccato attraverso la rete nella quale è impigliato, aiutato da un genio alato: la figura maschile sta sollevando la rete dal capo e ha già liberato il braccio destro e il petto. Il giovane aiutante indica all’uomo un globo e la Bibbia, a simboleggiare rispettivamente le passioni mondane e il sacro, e sul basamento del gruppo scultoreo è visibile un bassorilievo raffigurante Gesù che dona la vista al cieco, episodio che ben esprime l’intento della scultura. Quando la madre di Raimondo morì prematuramente, il padre cominciò a intraprendere una vita sregolata, viaggiando per tutta Europa, ma ormai anziano tornò a Napoli, si pentì dei suoi errori e dedicò gli ultimi anni della sua esistenza alla fede. Non esiste nella storia dell’arte un’altra scultura assimilabile: l’invenzione della rete avviluppata attorno al corpo è uno straordinario esempio di virtuosismo che l’artista riuscì a compiere col marmo. Se la rete del Disinganno afferma la grande abilità nel padroneggiare un materiale come il marmo, non è da meno il velo che ricopre l’intera figura della Pudicizia, compreso il volto. La donna volge elegantemente lo sguardo di profilo, rivelando sotto il velo il raffinato volto, e porta sul grembo rose, nelle pieghe del tessuto. Il velo trasparente è finemente modellato sul corpo e sottolinea la perfezione raggiunta dall’autore della statua, Antonio Corradini. Simboleggiando con alcuni espedienti, come la lapide spezzata e lo sguardo perso, la prematura morte, è stata vista nella donna la raffigurazione della dea Iside velata, divinità appartenente al mondo iniziatico.

Antonio Corradini, Decoro (1751-1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Antonio Corradini, Decoro (1751-1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo, Liberalità (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo, Liberalità (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Fortunato Onelli, Francesco Celebrano e altri, Zelo della religione (1767; marmo; Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Fortunato Onelli, Francesco Celebrano e altri, Zelo della religione (1767; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Fortunato Onelli, Francesco Celebrano e altri, Zelo della religione (1767; marmo; Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Fortunato Onelli, Francesco Celebrano e altri, Zelo della religione (1767; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Paolo Persico, Soavità del giogo coniugale (1768; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Paolo Persico, Soavità del giogo coniugale (1768; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Antonio Corradini, Pudicizia (1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Antonio Corradini, Pudicizia (1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Antonio Corradini, Pudicizia (1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Antonio Corradini, Pudicizia (1752; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo, Disinganno (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo, Disinganno (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo, Disinganno (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo, Disinganno (1753-1754; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo, Sincerità (1754-1755; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo, Sincerità (1754-1755; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Celebrano, Dominio di se stessi (1767; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Celebrano, Dominio di se stessi (1767; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo, Educazione (1753; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo, Educazione (1753; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Francesco Queirolo (?), Amor divino (seconda metà del XVIII secolo; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Francesco Queirolo (?), Amor divino (seconda metà del XVIII secolo; marmo; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero

Un velo ricopre anche il capolavoro più celebre dell’intera Cappella, nonché tra le più famose della storia dell’arte, che richiama numerosi visitatori da ogni parte del mondo: il Cristo velato, l’opera marmorea che Giuseppe Sanmartino realizzò a metà Settecento. Sasso la descriveva come “una scultura in cui questo eccellente artefice superava se stesso. Dinota un Cristo morto disteso sul cataletto, è coverto da un velo trasparente, come la Pudicizia che si propose di imitare, ma che a giudizio degli intendenti lo superò. Non solo si ammira in esso la trasparenza del velo, ma l’artificiosa negligenza del lenzuolo ove posa il Divin Cadavere e l’espressiva positura della statua sembrando veramente un morto”. Sanmartino scolpì il corpo del Cristo morto a grandezza naturale, coperto da un velo trasparente, e cosa straordinaria è che lo fece in un unico blocco di marmo. Le pieghe del velo, attraverso cui si percepiscono tutte le fattezze del corpo, sono frutto di una così perfetta abilità scultorea che sembrano essere di altro materiale, di un tessuto palpabile. Riesce a ricamare il marmo, a dare una sensazione di morbidezza al materiale. Tant’è che, come già affermato, corre leggenda che il velo sia stato creato da Raimondo di Sangro mediante un processo alchemico di marmorizzazione.

Il corpo senza vita di Cristo, quasi a voler collegare questo con il capolavoro di Sanmartino, è rappresentato in un episodio immediatamente precedente, ovvero la Deposizione, nell’Altare maggiore. Qui il barocco si fa protagonista con volumi e forme che sembrano fuoriuscire e con espressioni di teatralità. Come teatrale è l’affresco sulla volta realizzato da Francesco Maria Russo: nella Gloria del Paradiso, dove dominano la luce e l’illusione, riveste un ruolo significativo la colomba dello Spirito Santo coronata da un nimbo di forma triangolare, figura geometrica del Maestro Venerabile nella massoneria.

Giuseppe Salerno, Macchine anatomiche (1756-1764 circa; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero
Giuseppe Salerno, Macchine anatomiche (1756-1764 circa; Napoli, Cappella Sansevero). Ph. Credit Museo Cappella Sansevero


Inizialmente il Cristo velato avrebbe dovuto essere destinato alla Cavea sotterranea, una sorta di grotta al di sotto della navata principale che avrebbe ospitato le tombe degli antenati della famiglia; il progetto sepolcrale non venne realizzato così come concepito dal principe, ma oggi l’ambiente ospita, all’interno di due teche, le Macchine anatomiche: due scheletri, uno maschile e l’altro femminile, posti in piedi, che hanno perfettamente conservato l’intero sistema circolatorio. Addirittura, era visibile fino a poco tempo fa un feto. I sistemi anatomici vennero eseguiti dal medico Giuseppe Salerno, ma permane ancora la leggenda secondo cui il principe fece uccidere due suoi servi e li fece imbalsamare, anche perché Raimondo era solito compiere, come si è detto, sperimentazioni anche in campo medico.

La figura del principe di Sansevero è una delle più enigmatiche e avvolte da un alone di mistero, a seguito soprattutto delle numerose leggende che lo circondano: immortale veglia ancora oggi nella sua Cappella nel suo monumento sepolcrale, a cui si accede dal terzo arco a sinistra. Il suo ritratto scruta, dopo secoli, chiunque giunga a rendergli omaggio, sovrastato dai simboli che ne celebrano l’attività militare, le sperimentazioni scientifiche e la passione letteraria: tutte cose che osava intraprendere e per cui era notevolmente predisposto.

Bibliografia essenziale

  • Aurelio De Rose, Napoli. La Cappella Sansevero, Rogiosi, 2016
  • Enrico Facco, Esperienze di premorte. Scienza e coscienza al confine tra fisica e metafisica, Edizioni Altravista, 2010
  • Oderisio De Sangro, Raimondo de Sangro e la Cappella Sansevero, Bulzoni, 1991
  • Camillo Napoleone Sasso, Storia de’ monumenti di Napoli e degli architetti che gli edificavano dallo stabilimento della monarchia sino ai nostri giorni, Vitale, 1856
  • Pompeo Sarnelli, Guida de’ forestieri, curiosi di vedere e d’intendere le cose più notabili della regal città di Napoli e del suo amenissimo distretto, 1688


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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