Tre sono i motivi che usualmente spingono il visitatore a varcare l’ingresso della Fondazione Querini Stampalia di Venezia: la Presentazione al tempio di Giovanni Bellini, la magnificenza dei saloni e gli spazî di Carlo Scarpa al pianterreno. Probabilmente pochi vi s’addentrano perché mossi dal desiderio di conoscere i dipinti di Gabriele Bella: i più però son sempre sorpresi quando capitano nella sala a lui dedicata, tappezzata con le sue tele. Sono una quarantina, tutte d’egual formato, sistemate a coprire ogni centimetro vuoto della parete, in un singolare accesso d’horror vacui in cui si dispiegano brani della vita veneziana del Settecento: i dipinti di Bella catturano infatti momenti di quotidianità della Venezia nel secolo diciottesimo, tra cerimonie pubbliche, laiche o religiose, fiere, sagre e feste popolari, concerti e feste da ballo, scene di passeggio, di pesca o di caccia, giochi sportivi.
Bella non era un artista particolarmente dotato, tutt’altro: lo si potrebbe ritenere un semplice artigiano o poco più. I suoi dipinti sono ripetitivi, scarni, incerti nell’esecuzione, privi di studio, paratattici, piatti, e Bella era artista dotato di scarso senso della composizione. Non è dunque per un qualche pregevole valore linguistico che s’ammirano i suoi dipinti: sono però dei preziosi documenti del tempo, delle luminose testimonianze che informano su come si viveva nella mondana e festaiola Venezia del Settecento.
Distogliendo lo sguardo dai balli eleganti, dalle graziose damine che passeggiano per la riva degli Schiavoni, dalle parate sul mare e dalle celebrazioni per l’elezione del doge, si noterà, nel registro più basso della parete che si trova a sinistra entrando, quasi poggiata a terra, una tela che negl’inventarî della Querini Stampalia è registrata come La cantata delle orfanelle per i duchi del nord (oppure, se si vuol adoperare il titolo che Bella include nel cartiglio, la Cantata delle putte delli Ospedali nella Procuratia fatta alli Duchi del Norde). È un dipinto eseguito attorno al 1782: raffigura la festa approntata in occasione della visita a Venezia, quell’anno, degli eredi al trono di Russia, il granduca Paolo Petrovič Romanov, ovvero il futuro zar Paolo I, e sua moglie, Sofia Dorotea di Württemberg. In loro onore, è stato dato un concerto in un grande salone nelle Procuratie, ch’era nelle disponibilità dell’Accademia Filarmonica di Venezia (che qui aveva la sua sede) e che per l’occasione fu adibito a teatro, con tanto di palchetti per le musiciste.
Le musiciste sono le “orfanelle” cui fa riferimento il titolo del dipinto: erano giovanissime, poco più che bambine, e studiavano canto o musica nei quattro orfanotrofi femminili di Venezia. Osservando il dipinto viene alla mente il capolavoro di Tiziano Scarpa, Stabat Mater, il romanzo del 2008, vincitore del Premio Strega, che racconta la storia di Cecilia, una delle orfanelle dell’Ospedale della Pietà, seguendo la ragazza nella sua crescita individuale, nelle sue lezioni di violino, nei suoi dialoghi immaginarî con la figura della morte, nel suo rapporto con la madre assente che l’ha abbandonata e alla quale spera un giorno di ricongiungersi.
Gabriele Bella, La cantata delle orfanelle per i duchi del nord (1782?-ante 1792; olio su tela, 95,5 x 124 cm; Venezia, Fondazione Querini Stampalia) |
I dipinti di Gabriele Bella alla Fondazione Querini Stampalia |
In un passaggio del romanzo, è descritto con minuzia e poesia un concerto tenuto dalle orfanelle, che val la pena riportare per intero: “La chiesa è un grande salone quadrato, un cubo musicale. Sulle pareti laterali, a qualche metro d’altezza, ci sono due grandi poggioli, uno di fronte all’altro. Sono lunghi una dozzina di metri e sporgono un paio di metri dal muro. Vi si accede da una porticina interna, al secondo piano dell’Ospitale. La balaustra che circonda i due poggioli è a due fasce: la fascia inferiore è in pietra, quella superiore è di metallo dorato, è composta da una trina di ornamenti traforati. Così le musiciste che suonano su un poggiolo possono vedere quelle di fronte a loro, sul poggiolo all’altro lato della chiesa, riescono a seguire i loro movimenti e ad accordarsi con i gesti di don Giulio che scandisce il tempo. Ma chi sta seduto sulle panche e ci guarda dal basso non può distinguere i nostri volti, perché gli intrecci di metallo che circondano i due poggioli risultano troppo fitti al suo sguardo che sale diagonalmente. Per chi ci guarda da laggiù, seduto sui banchi della chiesa, noi siamo un contorno, una sagoma. Noi siamo un’ombra, un’immaginazione, un sogno. Noi siamo una parvenza che secerne musica. Siamo fantasmi che soffiano una sostanza impalpabile. Noi risultiamo belle perché siamo misteriose e spargiamo bellezza nell’aria, la menzogna della musica maschera la nostra afflizione”.
Di solito, agli spettatori non era dato vedere in volto le ragazze: suonavano in alto, dietro una grata che celava il loro aspetto agli occhi di quanti accorrevano ad ascoltarle. Ma la loro musica era apprezzata, il patriziato veneziano non poteva far a meno dei loro concerti, e non di rado capitava che le giovani si mostrassero, com’è nel dipinto di Gabriele Bella, o che si presentassero agli ascoltatori affinché questi le conoscessero dal vivo, come avviene verso il finale del romanzo di Tiziano Scarpa.
Ancora oggi ascoltiamo le musiche scritte per quelle fanciulle sfortunate. Lo facciamo verosimilmente, ad esempio, ogni volta che risuonano le note delle Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi, pubblicate nel 1725 ma, per affermazione dello stesso autore, composte prima, con tutta probabilità quand’era maestro di violino all’Ospedale della Pietà. “Don Antonio” è l’altro protagonista di Stabat Mater, è il nuovo insegnante di violino che comincia a far insinuare la musica dentro le orfanelle della Pietà, è il compositore che le aiuta a tradurre in suoni il loro essere e i loro umori: la sua musica, dice Cecilia, “entra dentro i nostri occhi, impregna le nostre teste, ci fa muovere le braccia. Il gomito e il polso del braccio destro si snodano per manovrare l’archetto, le dita della mano sinistra si piegano sulle corde”. Vivaldi è il maestro che “tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi”. Una musica “fatta di donna”, che sparge nell’aria il “profumo speziato” delle donne. Scarpa, nelle note finali a Stabat Mater, ha scritto che tendiamo a dimenticare che la musica di Vivaldi era spesso composta per esecutrici donne. Il quadro di Gabriele Bella ci riporta, con la palmare concretezza delle immagini, a questa evidenza storica.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).