Informazioni errate, facili da trovare in alcuni articoli d’inizio Novecento, riportano che un capolavoro del Parmigianino, il ritratto di Galeazzo Sanvitale che oggi s’ammira al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, venne sequestrato dai Farnese bramosi di metter le mani sui beni dei Sanvitale e degli altri feudatarî del Parmense dopo i fatti del 1612. In realtà, il ritratto del conte, un tempo presumibilmente appeso dentro la Rocca di Fontanellato, è registrato negl’inventarî delle collezioni farnesiane già venticinque anni prima. Forse era stato uno dei figli di Galeazzo, il vescovo Eucherio, erede dei beni paterni, a vendere il quadro al duca di Parma, Ottavio Farnese. E così oggi, nella Galleria degli Antenati della Rocca, al posto del ritratto del Parmigianino vediamo una sua copia antica, mediocre opera d’un artista ignoto. È vero però che tanti dipinti entrarono nelle raccolte ducali a seguito delle confische ordinate in quel 1612 da Ranuccio Farnese, che s’era dimostrato poco flessibile coi nobili che avevano partecipato alla congiura per eliminarlo. È passata alla storia come la “congiura dei feudatarî”.
I contorni della vicenda sono poco chiari: non s’è mai appurato se davvero i Sanvitale e gli altri signori delle campagne parmensi avessero tramato per rovesciare i Farnese, o se la congiura fosse un’invenzione del duca per incamerare i copiosi possedimenti dei suoi nobili ed eliminare potenziali nemici. Pare che la verità stia nel mezzo: forse qualcuno progettava seriamente una qualche azione contro Ranuccio Farnese, figura autoritaria che non aveva mancato di provocare malumori tra i suoi nobili. Ma il duca ne approfittò per ingigantire il caso e organizzare una repressione durissima, talmente violenta da indurre alcune case regnanti d’Europa a nutrire sospetti sull’operato di Ranuccio, che aveva ottenuto due benefici: aveva eliminato qualunque forma d’opposizione e aveva rimpinguato le casse ducali confiscando i feudi e i beni di tutti i nobili mandati al patibolo. Ecco: l’unica cosa certa, è che i presunti congiurati pagarono cara la repressione.
Alfonso II Sanvitale, conte di Fontanellato, è il primo protagonista di questa storia. Nella Galleria degli Antenati della Rocca c’è anche il suo ritratto. Un ritratto ideale, come la più parte delle decine d’immagini che affollano queste pareti. Un lungo corridoio, coperto da una volta a botte scialbata, e tappezzato di facce che osservano da tutti i lati chiunque si trovi a camminare qui dentro. Generazioni su generazioni di conti di Fontanellato messi uno di fianco all’altro, uno sopra l’altro, in una sequenza di volti quasi tutti uguali: verso metà del Seicento, a un anonimo pittore locale venne dato l’incarico d’inventarsi le facce dei Sanvitale che non avevano mai avuto la loro effigie. La galleria si deve soprattutto al lavoro di questo sconosciuto artista. Alfonso II è lì, in mezzo a tutti gli altri, senza che si distingua per qualcosa di particolare. Prima della congiura dobbiamo immaginarcelo, ha scritto Augusta Ghidiglia, come “un placido signorotto, ansioso solo di salvare le sue riserve e il fossato del castello da cacciatori e pescatori di frodo”. Le acque dolci del fossato che circondano la Rocca di Fontanellato sono sempre state popolate di pesci. Qui un tempo si veniva anche a pescare. È l’acqua l’elemento che più caratterizza questo castello costruito in mezzo al borgo di Fontanellato, al centro d’una pianura fertile, nel cuore del territorio più ricco del ducato di Parma. Anzi: è l’acqua l’elemento che ha consentito a Fontanellato di nascere e svilupparsi. Fontanellato, “fontana lata”, a indicare la grande quantità di risorgive, di sorgenti d’acqua dolce di cui abbonda la piana su cui sorge il borgo. Terra fertile, terra abbondante, terra di campi, di pascoli, di commerci lungo le acque dei suoi canali.
La storia della congiura comincia non lontano da qui, a Reggio Emilia, una notte di fine primavera del 1611. Silvia Visdomini, moglie di Alfonso, è ospite, assieme a sua madre Ginevra e suo fratello Ranuccio, di una famiglia del reggiano, i Malaguzzi, loro amici. È una serata calda, a cena le finestre della villa dei Malaguzzi son lasciate aperte per far entrare un po’ di fresco. Nessuno ha il sospetto che gli ospiti siano presi di mira: fatto sta che dalla finestra entrano colpi d’archibugio che colpiscono Silvia e sua madre. La moglie del conte è ferita ma sopravvive, la suocera morirà poco dopo. Il giovane Ranuccio Visdomini denuncia l’accaduto al duca di Parma, al suo omonimo Ranuccio Farnese, che fa arrestare Alfonso. È il 10 giugno del 1611. Il conte confesserà poi d’essere il mandante del tentato omicidio della moglie, e potrebbe averne già abbastanza. Ma le cose si complicano. Appena cinque giorni dopo, per un caso fortuito, viene fermato un bandito umbro, tale Onofrio Martani, servitore di Gianfrancesco Sanvitale, giovane marchese di Sala Baganza, cugino di Alfonso. Martani è tratto in arresto a seguito di un’accusa di tentata corruzione denunciata alle autorità ducali da un soldato che l’uomo voleva coinvolgere in certe sue ruberie. Gli viene trovata una lettera di Gianfrancesco, si lascia sfuggire qualche mezza parola di troppo, viene sottoposto a torture, e finisce per confessare il disegno d’una congiura nella quale sarebbero coinvolti molti dei nobili del parmense. Anche lo stesso Alfonso Sanvitale, ch’era già in carcere per i fatti suoi. E poi Gianfrancesco, i conti Girolamo da Correggio, Pio Torelli, Giovanni Battista Masi, Alberto di Canossa, Teodoro Scotti (l’unico morto in carcere a seguito delle torture), e anche il conte Orazio Simonetta che aveva sposato la bella Barbara Sanseverino, alla quale Torquato Tasso aveva dedicato una lirica in lode dei suoi capelli. Anche lei, ovviamente, viene arrestata. Per tutti loro, il giudice, il piemontese Filiberto Piossasco, alla fine del processo emette sentenza di condanna a morte. E stabilisce che i corpi siano squartati e appesi in giro per Parma a mo’ d’avvertimento. Ranuccio Farnese decide di risparmiare ai sudditi la macabra macelleria, ma non concede altri sconti ai condannati: l’unico graziato è Girolamo da Correggio. Tutti gli altri finiscono decapitati, il 19 maggio del 1612. Leggenda vuole che oggi il fantasma di Barbara Sanseverino s’aggiri di notte per la Rocca di Fontanellato, anche se la nobildonna qui non ha mai vissuto. Suggestioni date forse dalla presenza del suo ritratto, uno degli unici due superstiti, nella camera nuziale della Rocca, sotto al pregevolissimo soffitto ligneo a lacunari, al centro del quale campeggia lo stemma dei Sanvitale inquartato con quello dei Rossi di San Secondo. Allude al matrimonio tra Alessandro II Sanvitale e Margherita Rossi. Alessandro è passato alla storia come il “ricompratore” della Rocca di Fontanellato, come l’ha definito lo storico Guglielmo Capacchi.
La presenza di Alfonso II tra i congiurati aveva infatti determinato il passaggio della Rocca di Fontanellato, assieme a metà del feudo, ai Farnese. La restante metà sarebbe rimasta possedimento d’un altro ramo della famiglia, estraneo alla congiura, e discendente per linea diretta dal Galeazzo ritratto dal Parmigianino: sarà proprio suo nipote Alessandro, nel 1635, a riacquistare la metà del feudo ch’era stata confiscata da Ranuccio Farnese. Il nuovo duca, Odoardo, glielo concede come segno di riconoscimento per la sua devozione ai Farnese. I Sanvitale rientrano così in possesso della Rocca dopo un ventennio d’assenza, vent’anni in cui il maniero era caduto in stato d’abbandono. Alessandro II lo ha ricomprato dai Farnese, ma sarebbe stato suo nipote Alessandro III a porsi il problema di trasformarlo in una reggia moderna.
Un personaggio dai mille interessi, Alessandro III: è appassionato d’arte, di matematica, di musica, persino d’ingegneria meccanica. E promuove tante opere per la Rocca: fa aprire una cappella, fa addirittura costruire un teatro (demolito poi nell’Ottocento: oggi dell’impresa rimangono giusto alcuni lacerti d’affreschi, i putti appesi alle pareti di testa della Galleria degli Antenati), riempie il maniero di opere d’arte. Si devono alla sua committenza, per esempio, le grandi nature morte di Felice Boselli appese nella Sala da Pranzo. Il pubblico generalmente non dedica grande attenzione a questi quadroni appesi in mezzo alle stoviglie, di fianco alle grandi credenze dove sono stipate le ceramiche più belle della casa, sotto alle volte affrescate con gli stemmi delle famiglie imparentate coi Sanvitale, ma sono forse tra le immagini che meglio ci aiutano a capire come i conti di Fontanellato vedevano se stessi, come vedevano le loro terre, come vedevano la loro vita. Le nature morte di Felice Boselli sono forse le opere più politiche che s’ammirano dentro la Rocca di Fontanellato. Ci sono pesci dappertutto: solo nelle scene di mercato raffigurate dal pittore piacentino è dato vederne di più. Alludono all’abbondanza delle acque del feudo. C’è la cacciagione, che richiama i tanti boschi che punteggiavano il territorio di Fontanellato, e che in parte sopravvivono ancora oggi. Ci sono i prodotti della terra, ovviamente. I Sanvitale appartenevano a quella nobiltà emiliana ricca e godereccia che amava i piaceri della tavola, della terra, della convivialità: sarà sufficiente ricordare che il conte Luigi comincia a descrivere i prodotti del territorio già a pagina 2 delle sue Memorie intorno alla Rocca di Fontanellato pubblicate nel 1857 (“comodità che ponno allettare uno a vivervi in trattenimenti e piaceri di caccia e pesca”, vini deliziosi e abbondanti con cui gli abitanti riforniscono la stessa Parma, carni buonissime, formaggi e latticini e tutto il resto). Una nobiltà che, com’è ovvio, amava circondarsi di opere come quelle di Boselli, in grado di dare segno evidente della prosperità delle loro terre.
Alessandro aveva anche ospitato un erudito milanese, Carlo Giuseppe Fontana, e gli aveva fatto scrivere un Ragguaglio della Rocca di Fontanellato, pubblicato nel 1696. È qui che si legge una delle più antiche descrizioni degli affreschi con cui il Parmigianino aveva coperto la camera di Paola Gonzaga: è un piccolo ambiente al pianterreno della Rocca che s’incontra dopo aver superato la sala delle Donne Equilibriste, tappezzata di grottesche del Cinquecento, in parte sopravvissute, con donne che si reggono sopra tende tirate tra una serie di colonne ioniche dipinte, messe a scandire lo spazio. Sfugge il significato esatto di queste strane acrobate nude, forse opera del milanese Cesare Cesariano, che maneggiano archi e frecce, fronteggiano bizzarre figure simili a fauni ma anche ad arpie, reggono torce accese. Così come ancora sfugge la funzione ultima della camera affrescata dal Parmigianino.
Per Augusta Ghidiglia era forse la “stufetta”, una sorta di bagno privato di Paola Gonzaga, la moglie di Galeazzo Sanvitale, che osservando la storia di Diana, delle sue ancelle e dello sventurato cacciatore Atteone poteva forse rivedere se stessa nell’immagine della dea della caccia. Per Maurizio Fagiolo dell’Arco la stanza poteva essere un balneum nuptiale, luogo della coniunctio tra il principio femminile (la sponsa, Paola Gonzaga) e il principio maschile (lo sponsus, Galeazzo Sanvitale), ma sebbene le dottrine alchemiche andassero di moda al tempo, non abbiamo prova che il conte si dilettasse con questi trastulli. Gianni Guadalupi e Franco Maria Ricci notarono che l’Atteone trasformato in cervo ha sembianze inequivocabilmente femminili. È modellato sulla figura d’una ninfa, e non poteva essere un caso né un errore. Forse allora Atteone altri non è che la stessa Paola Gonzaga: un innocente colpito da Diana. Esattamente come la contessa, che aveva perso un figlio, forse il bambino raffigurato dal Parmigianino sulla volta della stanza, con una collanina di corallo al collo secondo l’uso del tempo: Diana era dea legata al parto e alla maternità, e forse era ritenuta la responsabile di quella dolorosa perdita. Allora, l’ambiente doveva forse essere un piccolo cenotafio. Massimo Mussini ha però criticato quest’idea, sulla base del presupposto che un uso simile non è altrimenti accertato a quelle altezze cronologiche: più probabile, allora, che fosse uno studiolo.
Il conte Luigi, nelle sue Memorie, suggeriva tra le righe che il Parmigianino avesse ingaggiato una sorta di gara col Correggio, il suo illustre concittadino. Se però Correggio, riprendendo un’idea di Argan, è il pittore della naturalità, allora il Parmigianino è il pittore dell’artificialità. Ed è forse a Fontanellato, più che altrove, che Francesco Mazzola ha “contestato”, avrebbe detto Argan, le idee di Antonio Allegri. Con una pittura intellettuale, difficile, a tratti financo inquietante, una pittura che trasforma il composto, classicheggiante pergolato della correggesca Camera di San Paolo nella frenetica scenografia d’una fiaba feroce: non più l’equilibrato padiglione chiuso del Correggio, ma una volta aperta su di un cielo azzurro il cui illusionismo viene però alla fine negato artificiosamente dalla presenza dello specchio, uno specchio vero, attorno al quale corre il motto “Respice finem”, un invito a osservare la fine della storia di Atteone.
Difficile pensare che il Parmigianino avesse in mente la frase latina delle Gesta Romanorum (“Quidquid agas, prudenter agas, et respice finem”: Qualunque cosa tu faccia, falla con prudenza, e guarda la fine): non si può incolpare Atteone di non esser stato prudente. Era stato solo sfortunato. Più semplice, e più calzante, immaginare un riferimento biblico simile, il libro del Siracide, richiamato da David Ekserdjian come possibile fonte d’ispirazione: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis” (“In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato”). Un fosco memento mori, verrebbe da pensare. Se non fosse che la stanza è presidiata dalla figura fulva e luminosa di Demetra, che osserviamo subito dopo l’episodio finale. La scena è commovente: i cani s’avventano contro Atteone trasformato in cervo, ma i loro occhi paiono quasi colmi di pietà, sembra quasi avvertano che quello non è un cervo come tutti gli altri. Parmigianino ci risparmia allora lo strazio dell’animale, ce lo lascia solo immaginare. E poi, ecco in una nicchia inondata di luce dorata, la dea dei raccolti, delle messi, dei frutti più preziosi della natura. Dea della vita che non teme le armi di Diana. È come se Galeazzo Sanvitale avesse voluto dire a sua moglie che la morte è un passaggio, che altre gemme nasceranno, che nuova vita cancellerà il passato. E che il ciclo si ripeterà all’infinito. Il senso dei riti misterici che si celebravano a Eleusi in onore di Demetra: guardare la fine, sapendo che poi, al culmine dello sgomento, avrebbe detto Plutarco, “una luce meravigliosa si presenta davanti agli occhi e si attraversano luoghi puri e praterie che echeggiano di voci e di danze”. La rinascita dopo la morte. Quello ch’è accaduto anche alla Rocca di Fontanellato. Il suo segreto palese che risuona tra queste mura.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).