Esaminando la fortuna critica di Michele Ragolia è stato possibile ricostruire il suo percorso artistico, attraverso una revisione dei contributi, e verificare i contatti con la committenza partenopea e provinciale. La storiografia ottocentesca dice ben poco riguardo l’artista, ma è con l’aprirsi del Novecento che si avverte un crescente bisogno di rivalutare la pittura napoletana del Sei e Settecento, dando inizio ad una nuova stagione di studi.
Il biografo ottocentesco Bernardo De’ Dominici, che è la nostra fonte primaria, menziona il pittore come uno dei migliori discepoli di Belisario Corenzio e fornisce indicazioni utili in merito alle sue opere eseguite nella chiesa napoletana di San Diego all’Ospedaletto. Successivamente lo studioso Raffello Causa aggiunge altre opere e descrive l’artista come un ritardatario che adegua l’ultimo manierismo alla nuova cultura stanzionesca, guariniana e fracanzaniana, la cui arte tende a perdersi nella produzione provinciale. Per quanto concerne le origini siciliane e l’alunnato a Napoli presso il Corenzio, esse sono confermate altresì dal biografo siciliano settecentesco Francesco Maria Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca. Anche Giuseppe Ceci contribuì alla definizione del suo profilo biografico, dando conferma dell’iscrizione da parte dell’artista alla corporazione dei pittori nel 1665 e della data della sua morte risalente al 21 maggio 1686.
Riccardo Filangieri e Giovan Battista D’Addosio si interessarono alle differenti accezioni del cognome dell’artista presenti nel Künstlerlexicon di Thieme e Becker, in cui sono registrate varie grafie del cognome dell’artista: Ragonia, Regolia, Raglia, Reglia, Rigoglia. Ma la dizione “Ragolia” è da ritenere la più esatta in quanto così si firma il pittore e tale cognome è presente nella maggior parte degli atti. Sulla base delle testimonianze fornite dai documenti storici è stato possibile ripercorrere le tappe biografiche dell’artista, ma l’anno di nascita rimane attualmente ancora un mistero, nonostante siano state ipotizzate 3 date possibili: primo decennio del ‘600; 1625 (Jeff Matthews); 1638 (Alvar González-Palacios).
Date le lacune circa la sua gioventù, per una visione degli inizi artistici del Ragolia dobbiamo affidarci al parere dedominiciano che asserisce un influsso del suo maestro Corenzio nelle prime opere ed un’apertura al nuovo movimento caravaggesco in quelle successive. Diversamente dal suo precettore, il Ragolia tratta le forme solide sotto una luce radente ed utilizza un realismo antitetico al decorativismo astratto del Corenzio, mostrando perciò un prematuro distacco dal manierismo del maestro. Al contempo apprese sicuramente la delicatezza e la vivacità nel colorire del maestro, peculiarità che rimasero costanti nella sua produzione. È possibile cogliere nell’arte del pittore anche le ripercussioni del decorativismo di Pietro da Cortona e di Giovanni Lanfranco, ma sebbene l’artista si distaccherà quasi subito dalla cultura tardo-manierista e si aprirà alle nuove suggestioni del classicismo e del naturalismo caravaggesco provenienti da Massimo Stanzione, tuttavia si evincono influssi di Francesco Guarino, di Pacecco De Rosa e di Cesare Fracanzano. Più tardi si potrà notare anche un’apertura verso il colorismo di Federico Barocci e il pittoricismo di Luca Giordano.
Michele Ragolia, San Pietro circondato da santi (1652; Bomerano di Agerola, Chiesa di Tutti i Santi) |
Il Ragolia manifesta grande padronanza nell’uso della materia pittorica, rendendo gli incarnati dei santi puliti e smaltati e raggiungendo una brillantezza cromatica nell’accostamento dei blu, dei verdi e dei rossi usati per le vesti. La materia si ispessisce e si arricchisce di pigmento nei piviali e negli ornamenti, che sono trattati con un effetto di rilievo. I volti dei martiri alle spalle di San Pietro e le giovani donne dalle morbide acconciature che si intravedono tra la folla rammentano l’eleganza delle dee del Giudizio di Paride di Pacecco de Rosa.
La maggiore affermazione del Ragolia si registra nel ciclo di 40 tele inserite nel soffitto ligneo della chiesa di Sant’Antonio a Polla, firmato e datato al 1666. Questi dipinti rappresentano Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento e possono essere considerati un omaggio all’eclettica e a volte monumentale pittura stanzionesca, con inflessioni narrative ancora tardo manieriste. Essendo ormai un pittore nella piena maturità artistica, con questo capolavoro dimostrò di aver messo a punto gli aspetti principali della sua visione e della sua cultura figurativa.
Michele Ragolia, Storie del Vecchio e Nuovo Testamento (1666; Polla, Sant’Antonio) |
Nei dipinti vengono riproposti i modi e le tipologie delle opere più giovanili, ma emerge anche una pittura che si adegua al pittoricismo di Cesare Fracanzano. In alcune tele si riscontra il linguaggio di Angelo Solimena, evidente nell’addolcimento di quello guariniano. Osservando le tele del soffitto si nota che la pittura napoletana emerge proprio attraverso i soggetti e soprattutto dal modo in cui l’artista li ha rappresentati: il forte contrasto chiaroscurale rimanda agli influssi caravaggeschi, mentre la costruzione larga e luminosa dei quadri cruciformi discende dai criteri decorativi di Giovanni Lanfranco.
Nonostante tutte le notizie in nostro possesso colleghino il Ragolia all’ambiente napoletano, le pitture di Sant’Antonio offrono alcuni elementi di contatto con i pittori della sua isola mediati dal Monrealese. Tuttavia le qualità artistiche emergono dalla grandiosità compositiva avvertita nelle grandi tele cruciformi, nella magnificenza delle scene caratterizzate da sfondi splendidi e nella predilezione del colore vivace.
La grandezza artistica raggiunta nei quadri pollesi gli consentì la successiva commissione di ben ventuno tele per il soffitto della parrocchiale di Santa Lucia presso Cava de’ Tirreni, raffiguranti le storie della Santa. Nello strumento del notaio Aniello Siani, dov’è presente la firma del Ragolia, si apprende che il 3 marzo 1681 il pittore aveva dipinto solo 3 quadri, per cui i maestri della chiesa stipularono una “convenzione” con l’artista, il quale si impegnava a fornire 18 dipinti entro l’anno seguente, con il compenso di 230 ducati.
Questa indicazione documentaria interviene positivamente a chiarire uno dei passaggi della fase tarda dell’artista, in merito alla sua attività presso Cava de’ Tirreni dove, nel 1683, realizzerà un ciclo di quindici tele, rappresentando le Storie di San Francesco, per il soffitto della navata centrale della basilica di Santa Maria dell’Olmo, su commissione dei Padri Minimi.
Michele Ragolia, Storie di san Francesco (1683; Cava de’ Tirreni, Basilica di Santa Maria dell’Olmo) |
Un’altra opera che va ad arricchire la produzione artistica del pittore è la Madonna del Rosario, conservata nella chiesa monumentale di San Matteo Apostolo di Bomerano, nella quale l’artista si qualifica come “panormitanus” e la cui datazione, 1682, ipotizzata a seguito del recente restauro, è stata messa in dubbio dal dottor Mario Alberto Pavone, in quanto presenta notevoli affinità stilistiche con la pala del 1652 della chiesa di Tutti i Santi a Bomerano risultando cronologicamente troppo distante.
L’ultima opera attribuita al Ragolia è la decorazione ad affresco della volta trecentesca della chiesa della certosa di San Lorenzo di Padula, ultimata prima di morire nel 1686. Tali affreschi delineano il culmine evolutivo dello stile del pittore, in cui si avverte il distacco totale dagli influssi del suo maestro. Nelle vele della volta sono ritratte scene con episodi e personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento e durante la stagione dei grandi restauri, iniziati dopo il terremoto del 1980, è stato possibile recuperare i tratti tipici del pittore siciliano, come si evince dalle forme allungate dei profeti afflitti, dai guerrieri impennacchiati e dai delicati modelli muliebri.
Michele Ragolia, Madonna del Rosario (1652 circa; Bomerano di Agerola, San Matteo Apostolo) |
Michele Ragolia, Scene e personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento (1683-1686; Padula, Certosa di San Lorenzo) |
Negli affreschi si ravvisano influenze provenienti dai contemporanei Andrea de Lione e Agostino Beltrano, oltre che quelli già comprovati di Massimo Stanzione e di Belisario Corenzio. Le figure degli Apostoli evidenziano l’influenza di quelli dipinti da Giovanni Lanfranco lungo le pareti della certosa di San Martino.
I risultati raggiunti da Michele Ragolia, se da un lato rappresentano il prosieguo di una tendenza ancora di stampo tardomanieristico, dall’altro rivelano i propri limiti se paragonati con gli esiti maturati nell’ambito della decorazione ad affresco. Le sue opere dimostrano una conoscenza profonda dell’iconografia religiosa, tanto da trasmettere una forte emozione attraverso le espressioni facciali delle sue figure.
Come abbiamo visto, Michele Ragolia si è formato prima attraverso l’assimilazione dei motivi caravaggeschi e stanzioneschi e poi tramite le esperienze del Maestro degli Annunci ai Pastori e del Gruppo della Sapienza nel decennio 1635-1645 in cui si verificò uno slittamento delle forme caravaggesche verso un pittoricismo delicato e raffinato. Egli restò fedele all’esperienza di questo periodo fin quasi alla fine del secolo, trattandosi evidentemente di una scelta che lo appagava pienamente e che rispondeva alla sua sensibilità pittorica, spirituale ed umana. Generalmente, tranne per l’attenzione al barocco, che ben si nota in altre sue tele oggi conservate a Vienna, egli accoglie in sordina i suggerimenti di Luca Giordano barocco e di Pietro da Cortona, stemperando il loro stile nel suo.
Nonostante la concorrenza degli eccellenti artisti che si affermarono durante il Seicento napoletano, Michele Ragolia merita un riconoscimento artistico di rilievo, la cui passione e l’impegno diedero vita a dei veri e propri capolavori.