Due opere “sapientemente complementari”: così la studiosa Cristina Acidini, tra i massimi esperti dell’arte di Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564), definisce, nel catalogo della mostra Michelangelo divino artista (Genova, Palazzo Ducale, dall’8 ottobre 2020 al 24 gennaio 2021, a cura di Cristina Acidini e Alessandro Cecchi) i due primi capolavori noti dell’artista, ovvero la Madonna della Scala e la Battaglia dei centauri, entrambi conservati a Firenze, a Casa Buonarroti (e il primo dei due esposto proprio a Genova per la mostra). Sono entrambe opere che risalgono al periodo in cui un Michelangelo, appena quindicenne, si legò a Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1449 - Careggi, 1492), dopo aver conosciuto un suo collega artista, allora un ragazzo poco più grande di lui, Francesco Granacci (Bagno a Ripoli, 1469 - Firenze, 1543), destinato a diventare in futuro uno dei suoi più fedeli collaboratori (con anche un’interessante attività da artista indipendente): fu proprio Granacci, ricorda Cristina Acidini, a convincere il padre di Michelangelo, Ludovico, ad assecondare il talento artistico del giovane (il genitore, che di professione faceva il funzionario statale, e quando Michelangelo nacque ricopriva la carica di podestà di Caprese, voleva infatti indirizzarlo a una carriera nei pubblici uffici, all’epoca ritenuta socialmente più prestigiosa) e, all’incirca nello stesso periodo, a introdurlo al signore de facto di Firenze.
All’epoca, il Magnifico si poneva a tutti gli effetti come un patrocinatore dei giovani talenti dell’arte: nel cosiddetto Giardino di San Marco, ovvero una corte annessa al Casino Mediceo e vicina alla chiesa e al convento di San Marco (da cui il nome col quale questo spazio è noto a studiosi e appassionati di storia dell’arte del Rinascimento), dove si trovavano alcune statue antiche della ricca raccolta dei Medici, Lorenzo, fin dagli anni Ottanta, aveva dato accoglienza ai giovani artisti permettendo loro di esercitarsi nella pratica artistica e nel disegno copiando le sculture antiche: il Giardino era dunque luogo in cui, grazie a un’intelligente intuizione del Magnifico, antico e moderno s’incontravano per formare i giovani artisti. Senza, naturalmente, intenti programmatici, come si potrebbe sospettare leggendo le pagine delle Vite di Giorgio Vasari, nelle quali lo storiografo aretino scrive che Lorenzo desiderava sommamente “di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti”. Il Giardino in realtà non era una scuola, come hanno dimostrato gli studî più recenti, ma più semplicemente un sito, scrive Acidini, “allestito in modo da permettere lo studio di pezzi archeologici delle raccolte medicee, la creazione di apparati effimeri, la lavorazione di marmi e materiali da costruzione”. È qui che dobbiamo immaginare il giovane Michelangelo muovere i suoi primi passi da scultore, dialogare, confrontarsi e sicuramente anche litigare con altri giovani come lui, e ascoltare i suggerimenti del suo primo maestro, quel Bertoldo di Giovanni (Firenze, 1440 circa - Poggio a Caiano, 1491) ch’era al tempo uno dei rari allievi e collaboratori di Donatello ancora in vita, e che faceva da guida ai giovani del Giardino di San Marco. E possiamo immginare il giovane Michelangelo mentre addirittura discorre con lo stesso Magnifico che, racconta Ascanio Condivi, primo biografo di Michelangelo, nutriva per il ragazzo un forte interesse.
Un interesse che, peraltro, avrebbe avuto importanti conseguenze per il resto della sua carriera, dal momento che Michelangelo talvolta fu anche invitato al palazzo dei Medici, e qui ebbe modo di conoscere i figli del Magnifico, tra i quali il suo coetaneo Giovanni de’ Medici (Firenze, 1475 - Roma, 1521), poi divenuto nel 1513 papa Leone X, e il nipote, il più giovane Giulio (Firenze, 1478 - Roma, 1534), anch’egli destinato a salire al soglio pontificio, nel 1523, col nome di Clemente VII. Un famoso aneddoto, raccontato da tutti i biografi antichi (Condivi, Vasari, Benedetto Varchi) racconta di un giovanissimo Michelangelo che vede, nelle raccolte medicee, la testa di un vecchio fauno, a cui mancava la bocca: non solo la copiò perfettamente, ma la sua inventiva lo portò ad aggiungere ciò che alla statua antica mancava. Lorenzo il Magnifico vide l’opera di Michelangelo, e per prenderlo in giro gli disse che però i vecchi non hanno tutti i denti: Michelangelo, seduta stante, rimodellò la bocca per togliere alcuni denti e farla sembrare più credibile. L’episodio divertì molto il Magnifico e venne preso a esempio dai biografi come rivelatore del talento e del genio dell’artista. Quella al Giardino di San Marco fu un’esperienza intensa, ma di breve durata, dal momento che il Magnifico morì l’8 aprile del 1492 e il figlio Piero, pur avendo interesse per le arti e pur accordando la sua protezione a Michelangelo, non dimostrò d’avere la stessa caratura e lo stesso talento del padre. La scomparsa del Magnifico sancì dunque la fine del Giardino di San Marco, e il ritorno di Michelangelo alla casa paterna.
Ottavio Vannini, Michelangelo mostra a Lorenzo il Magnifico la testa del Fauno (1638-1642; affresco; Firenze, Palazzo Pitti, Sala di San Giovanni) |
Le opere giovanili di Michelangelo a Casa Buonarroti |
È in questo contesto che si colloca la realizzazione della Madonna e della Battaglia dei centauri. La prima, più acerba della seconda, è da ritenere cronologicamente precedente. Di questo originale rilievo è lo stesso Vasari a parlare: l’autore delle Vite riferisce che Leonardo Buonarroti, figlio del fratello minore di Michelangelo, Buonarroto, aveva donato al duca Cosimo I de’ Medici (che, scrive Vasari, “la tiene per cosa singularissima, non essendoci di sua mano altro bassorilievo che questo di scultura”), una “Nostra Donna di basso rilievo di mano di Michelagnolo di marmo alta poco più d’un braccio, nella quale sendo giovanetto in questo tempo medesimo, volendo contrafare la maniera di Donatello si portò sì bene che par di man sua, eccetto che vi si vede più grazia e più disegno”. Nella descrizione, Vasari aveva notato l’elemento più evidente di questa precoce prova michelangiolesca, ovvero il tentativo d’utilizzo dello stiacciato, la tecnica attraverso la quale Donatello, nei rilievi, suggeriva all’osservatore il senso della profondità, rendendo più aggettanti le figure più vicine al riguardante e, viceversa, meno staccate dal fondo le figure che, nella finzione della scultura, dovevano essere più lontane. È quanto cerca di fare anche Michelangelo, con fare ancora un poco incerto per via dell’inesperienza (si vedano ad esempio il braccio che regge il Bambino che pare quasi staccato dal corpo della Vergine, o il putto che ha un forte aggetto della spalla, che invece è molto minore nelle gambe), ma proponendo tuttavia una propria interpretazione della tecnica donatelliana, in chiave più solenne, con le figure che prevalgono sullo spazio, tanto che i piani non appaiono scalati in profondità, ma sono soltanto i personaggi a suggerire la distanza (mentre invece nei rilievi di Donatello non mancava uno spazio prospetticamente impostato). “Il rapporto di Michelangelo con Donatello”, ha scritto la storica dell’arte Pina Ragionieri, a lungo presidente di Casa Buonarroti, “appare, già in quest’opera così giovanile, personale, intenso, senza dubbio di rottura: una rivisitazione affascinata, ma già polemica e di congedo”. Ma non solo: la vicinanza a Donatello è dimostrata anche dalle similarità con la Madonna che quest’ultimo realizzò nella scena del Compianto in uno dei rilievi che decorano il Pulpito della Passione di San Lorenzo a Firenze, dove vediamo una Vergine nella stessa posa della Madonna della scala, con anche la mano poggiata allo stesso modo.
La Madonna di Michelangelo è seduta su una grande scala a gradoni (da cui il nome con cui il rilievo è universalmente noto) e tiene tra le mani il Bambino (con il braccio sinistro lo sorregge, mentre col destro tiene il suo velo sopra il capo del piccolo), mentre sulla scala compaiono, in profondità, due figure di putti, in un atteggiamento che non è stato ben chiarito: pare che stiano danzando. La figura della Madonna occupa in verticale tutta la composizione, e appare seduta come su un trono: Michelangelo ha soltanto quindici anni ma è già in grado di scolpire figure dall’impatto monumentale, come quelle che avrebbe eseguito anche nelle fasi più mature della sua carriera, quando sarebbe divenuto un artista di successo. E ancora, ci sono delle caratteristiche dalle quali è possibile intuire quanto sia innovativo l’estro del giovane Michelangelo: in particolare, l’idea di raffigurare la Madonna di profilo, quella di cogliere il Bambino girato di spalle, e lo stesso inserto dei due bambini che giocano sulla scala, un dettaglio talmente originale che il suo significato non è ancora stato ben inquadrato.
La spiegazione più ragionevole dell’opera potrebbe essere quella che, intanto, vede nella scala il simbolo dell’unione tra il cielo e la terra e di conseguenza tra gli uomini e la sfera divina. È in questo senso piuttosto agevole il richiamo al capitolo 28 del libro della Genesi, dove si narra del sogno di Giacobbe: “Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Poteva trattarsi di un’immagine che Michelangelo aveva presente, anche perché molto diffusa nell’iconografia rinascimentale e medievale, e in questo senso la Vergine potrebbe ricoprire un’ulteriore funzione di tramite tra uomini e Dio: tanto più che secondo alcuni studiosi (benché l’argomento non sembri dei più forti) i cinque gradoni della scala potrebbero alludere alle cinque lettere che compongono il nome di Maria. Ma è possibile leggere l’opera anche nel quadro dell’accostamento di Michelangelo al neoplatonismo ficiniano, e in tal senso la scala potrebbe esser vista come il simbolo dell’anima che si eleva verso la contemplazione, uno dei temi della filosofia neoplatonica. L’opera andrebbe così a collocarsi a metà tra umanesimo ficiniano e mistica di derivazione medievale, esprimendo una tensione che ben incarna lo spirito della nascente età savonaroliana.
In questi termini è stata letta la Madonna della Scala da una studiosa come Maria Calì, secondo cui l’opera di Michelangelo “sembra ancora umanistica, ma nega già l’Umanesimo; rappresenta una rottur col passato, sia da un punto di vista formale, sia ideologico e culturale, ma, guardando al futuro, si volge ad un passato ancora più lontano nel tempo, quello dell’età medievale”. Per Calì, la Madonna di Michelangelo, “grandeggiante e lontana come una scultura fidiaca, sembra conservare l’integrità e la purezza della forma classica”, ma allo stesso tempo “una inquietudine serpeggia lungo il corpo della Vergine, attraverso il panneggio vibrante, che avvolge tutta la persona in ampie spirali, che ricade in pieghe più spesse lungo i polsi, lasciando intravvedere le mani grandi e corpose”. Ancora più indicativa in tal senso è la presenza del Gesù bambino, “impegnato in una difficile, quasi incredibile torsione, che interrompe l’apparente fluida stesura della figura della Madonna”. Ed ecco dunque che la Madonna della Scala diventa capolavoro che “presenta già per intero la problematica formale e ideologica che Michelangelo svilupperà negli anni successivi”, una poetica dove il mondo umanistico convive con “motivi dal significato oscuro che vengono riesumati dall’antica tradizione medievale”, in questo caso la scala di Giacobbe.
Michelangelo, Madonna della Scala (1490 circa; marmo, 56,7 x 40,1 cm; Firenze, Casa Buonarroti, inv. 190) |
Donatello, Compianto, dettaglio, dal Pulpito della Passione (post 1460; bronzo, 137 x 280 cm; Firenze, San Lorenzo) |
Michelangelo, Madonna della Scala, dettaglio |
Michelangelo, Madonna della Scala, dettaglio |
La Battaglia dei centauri, l’altro capolavoro giovanile di Michelangelo, è di poco successiva, e dalla critica viene collocata in un periodo che sempre coincide con quello della sua frequentazione del Giardino di San Marco. Viene menzionata per la prima volta quando l’artista è ancora vivente e in piena attività, per la precisione in una lettera datata 5 marzo 1527 e inviata da Giovanni Borromeo, agente dei Gonzaga a Mantova, al marchese Federico II Gonzaga che, all’epoca, era alla ricerca di un’opera di Michelangelo. Nella missiva, si parla di un “certo quadro di figure nude, che combattono, di marmore, quale havea principiato ad istantia d’un gran signore, ma non è finito. È braccia uno e mezo a ogni mane, et così a vedere è cosa bellissima, e vi sono più di 25 teste e 20 corpi varii, et varie attitudine fanno”. La Battaglia viene comunque citata dai principali biografi cinquecenteschi di Michelangelo, anche se Condivi e Vasari non concordano sul soggetto, dal momento che per il marchigiano si tratta di un “ratto de Deianira e la zuffa de’ Centauri”, mentre per l’aretino il rilievo raffigura “la battaglia di Ercole coi centauri”, che, aggiunge Vasari lodando la scultura, “fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro pregiato e consumato negli studii e pratico in quell’arte”. Vasari, peraltro, ricordava che, esattamente come la Madonna della Scala, l’opera all’epoca della stesura delle Vite si trovava nella casa di Leonardo Buonarroti, ed è interessante notare come da allora non si sia mai mossa dalla casa di famiglia, visto che ancor oggi si trova nella raccolta di Casa Buonarroti a Firenze. Per ciò che riguarda il soggetto, altri studiosi (ad esempio Angelo Tartuferi e Fabrizio Mancinelli) vi individuano una zuffa tra i centauri e i lapiti: è l’episodio mitologico che, narrano le Metamorfosi di Ovidio, sarebbe occorso durante i festeggiamenti per il matrimonio tra Ippodamia e Piritoo, quest’ultimo re dei lapiti (i centauri, invitati al matrimonio, dopo essersi ubriacati avrebbero tentato di rapire la sposa, scatenando dunque una rissa coi lapiti che alla fine avrebbero avuto la meglio).
Qualunque sia il soggetto, è comunque evidente che Michelangelo aveva già familiarità con temi colti, tratti dalla classicità, passibili di letture allegoriche in chiave neoplatonica (per esempio, una possibile lotta tra la natura ferina dell’uomo e le sue pulsioni spirituali, altro tema caro alla filosofia ficiniana): in questo caso, a suggerire l’argomento del rilievo potrebbe essere stato un poeta della cerchia laurenziana, il Poliziano (Angelo Ambrogini; Montepulciano, 1454 - Firenze, 1494), almeno stando a quanto rammenta Condivi. Il soggetto è di difficile interpretazione anche per il fatto che l’artista non è tanto interessato alla descrizione dell’episodio in sé, quanto alla sua restituzione, alla raffigurazione dei corpi in battaglia, alla resa anatomica dei personaggi impegnati nella rissa. E nonostante la giovanissima età, Michelangelo è già in grado di proporre un modo originale di trattare lo spazio: le figure infatti sono disposte su piani molteplici e non sfumano in modo rigido e ordinato, ma quasi s’accavallano l’una con l’altra, in modo comunque molto credibile e verosimile. La modernità dell’opera appare ancor più evidente se si confronta l’opera di Michelangelo con la Battaglia di Bertoldo di Giovanni conservata al Museo del Bargello di Firenze, un rilievo dal quale, probabilmente, Michelangelo trasse alcuni spunti, data anche la sua vicinanza al più anziano maestro. Dal confronto risulta evidente come sia alquanto distante la costruzione dello spazio di Michelangelo rispetto a quella di Bertoldo, dal momento che l’impaginazione prospettica tipicamente quattrocentesca è già abbandonata da Michelangelo, e lo stesso dicasi per la resa minuta dei dettagli. Al contrario, Michelangelo abolisce il fondo e la cornice, ed è tutto interessato al modellato dei corpi dei contendenti, comunicando attraverso questi ultimi la profondità della scena, e dimostrando di aver già raggiunto una propria indipendenza nella trattazione del nudo maschile.
Occorre comunque specificare che si trattava di un lavoro “principiato” ma “non finito”, come scriveva Borromeo nella sua lettera al marchese di Mantova: in tutte le figure sono ancora evidenti i segni dello scalpello dell’artista (e sono quindi non rifinite), ci sono pezzi di marmo ancora attaccati al fondo dietro i corpi dei personaggi e soprattutto c’è una fascia in alto che è ancora tutta da sbozzare: si è dunque ipotizzato che Michelangelo avesse lasciato incompiuto questo lavoro alla scomparsa di Lorenzo il Magnifico, al quale probabilmente era destinato, come si potrebbe supporre leggendo la lettera di Borromeo e individuando dunque nel Magnifico il “gran signore” di cui è fatta menzione. Tuttavia anche qui, come nella Madonna della Scala, si riconoscono alcuni dei motivi che saranno proprî del Michelangelo maturo: il forte dinamismo, l’attenzione per il nudo maschile, il non finito, l’assenza del fondo. Elementi che già prefigurano le tensioni del Rinascimento maturo e l’arrivo della poetica manierista. E motivi che torneranno: si è spesso sottolineato come la figura centrale della Battaglia dei centauri anticipi il potente Cristo giudice del Giudizio universale che decora la parete di fondo della Cappella Sistina. E qualsiasi fossero i riferimenti del giovane Michelangelo (si è detto di Bertoldo di Giovanni, c’è chi ha proposto d’individuare l’ispirazione dell’artista nei sarcofagi romani, chi invece nelle lastre che decoravano i pulpiti di Giovanni Pisano), lo scultore fu in grado di superarli per promuovere, già a quindici anni, una maniera personale e modernissima.
Michelangelo, Battaglia dei centauri (1490-1492 circa; marmo, 80,5 x 88 cm; Firenze, Casa Buonarroti, inv. 194) |
Bertoldo di Giovanni, Battaglia (1480-1485 circa; bronzo, 45 x 99 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello) |
Michelangelo, Battaglia dei centauri, dettaglio |
Michelangelo, Battaglia dei centauri, dettaglio |
Michelangelo, Battaglia dei centauri, dettaglio |
Ed ecco pertanto che dai capolavori del Michelangelo adolescente già emerge la figura di un artista solido, originale, sicuro dei suoi mezzi fin quasi alla sfrontatezza, già capace di trasmettere, attraverso il marmo, una sensibilità non comune per un ragazzo di soli quindici anni, privo di timori reverenziali e, anzi, già in grado di rileggere la tradizione per sorpassarla senza farsi troppi problemi. Una personalità che non poté non stupire i suoi contemporanei. Premesse dalle quali era già facile intuire quale sarebbe stato il percorso di uno dei più grandi artisti della storia dell’arte.
E quelli che emergono dai lavori giovanili, ha scritto ancora Acidini, sono pertanto “elementi di affermativa e matura originalità: accenni misteriosamente innovativi nella Madonna (l’assetto di profilo, il Bambino di spalle, i putti per le scale), e poi, aurorali inclinazioni alla complessità e all’auto-imposizione di difficoltà, che si esprimono nella mischia primordiale di membra umane ed equine ricavata nell’esiguo spessore della lastra marmorea della Battaglia. Tra torsioni, stiramenti, sforzi e prese reciproche, i protagonisti assumono posture improbabili e penose che esaltano l’impianto corporeo di ciascuno, moltiplicando i contrapposti: busti busti ruotanti, schiene incurvate, braccia allacciate, gesti di violenza e sopraffazione, ma anche ripiegamenti dolorosi. Come un embrionale archivio di lavorazioni di volume e di superficie, il rilievo sembra contenere ogni futura scelta di Michelangelo, e non di rado il suo contrario: cavità e sporgenza, levigato e ruvido, finito e non finito, in una sapiente orchestrazione che darà luogo a variazioni inesauribili”.
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