Nel 2008, nelle sale di Palazzo Reale a Genova, si tenne un’importante mostra monografica dedicata a Valerio Castello (Genova, 1624 - 1659), il più grande genio del barocco genovese (e la mostra si intitolava, infatti, Valerio Castello 1624 - 1659. Genio moderno). In quell’occasione, fu prodotto un interessante documentario, della durata di poco meno di venti minuti, con testi redatti da uno dei curatori della mostra, Camillo Manzitti, tra i maggiori esperti dell’arte del Seicento genovese. Il video, reperibile anche sui principali portali di video sharing (ve lo proponiamo di seguito), ripercorreva a grandi linee la vita e la carriera di Valerio Castello, soffermandosi sulle principali suggestioni che l’artista accolse nell’ambito della sua produzione.
Una delle suggestioni più riconoscibili è quella esercitata dal melodramma, il genere musicale che iniziava a diffondersi proprio nei primi decenni del Seicento: dato il successo che il melodramma riscosse un po’ in tutta Italia, è lecito immaginarsi che non furono pochi i pittori capaci di lasciarsi attirare dal fascino delle opere messe in musica. Tra questi pittori figurava lo stesso Valerio Castello: con l’aiuto del documentario (dal quale abbiamo tratto i brani che seguiranno in corsivo) vogliamo dunque analizzare un paio di opere per vedere, da vicino, come il melodramma fosse entrato anche nella sua arte.
In riferimento a Valerio Castello, il documento esordisce, nella sezione dedicata al melodramma, facendoci sapere che non v’è dubbio che in molte opere della sua maturità, debbano riconoscersi i riflessi di quella che rappresentava la grande novità di quel tempo in campo artistico: la straordinaria affermazione del melodramma, con la conseguente profonda influenza che questo esercitò nel costume della società del tempo attraverso spettacolari rappresentazioni, che si davano con grande successo nei teatri (a Genova, in quello del Falcone) per la prima volta aperti a un pubblico pagante che accorreva numeroso ed entusiasta. Genova fu, tra l’altro, la prima città d’Italia, dopo Venezia, ad avere un suo teatro aperto al pubblico con spettacoli a pagamento: il primato spettava al Teatro di San Cassiano di Venezia, che lo ottenne nel 1637 aprendo a un pubblico munito di biglietto la rappresentazione dell’Andromeda di Benedetto Ferrari e Francesco Manelli. Il Teatro del Falcone di Genova, chiamato così in quanto la progettazione veniva tradizionalmente attribuita all’architetto Giovanni Angelo Falcone (ma c’è chi avanza l’ipotesi che ideatore del progetto fosse il bolognese Andrea Sighizzi), fu costruito per conto della famiglia Adorno: nel 1602 un suo membro, Gabriele Adorno, aveva acquistato un’osteria sull’odierna via Balbi con il preciso intento di farne un teatro. Quest’ultimo aprì i battenti nel 1652, con la rappresentazione del primo spettacolo a pagamento: la Didone del fiorentino Vincenzo Della Rena.
Possiamo tranquillamente immaginare che nel pubblico di quella rappresentazione ci fosse anche Valerio Castello: i suoi dipinti degli anni Cinquanta appaiono infatti densi di riferimenti alla musica e alla danza. Il documentario prosegue dicendoci infatti che appare del tutto naturale che il sentimento musicale che aveva finito per impregnare profondamente i gusti della società, si traducesse in pittura attingendo all’espressione propriamente estetica di quella nuova forma d’arte: la danza, intesa come insieme di movimenti e gesti regolati da un ritmo ideale, e che tendono, nella loro cadenza misurata, all’espressione poetica. Nascono così capolavori assoluti come i suoi [di Valerio Castello] Ratti delle Sabine, dove il pittore provvede in maniera del tutto licenziosa, rispetto alla tragicità di un evento che vede le donne sabine sottratte con la violenza all’affetto dei propri cari (genitori, mariti e figli), ad inserire nella composizione improbabili figure di orchestrali, seguendo il suono dei cui strumenti i protagonisti adattano i loro vorticosi avvitamenti alla cadenza ritmata di stilizzati passi di danza. Com’è noto, il tema del Ratto delle Sabine era particolarmente gradito ai pittori di epoca barocca, in quanto dava modo agli artisti di cimentarsi con pose contorte, movimenti convulsi e repentini, pathos e drammaticità per composizioni in cui spesso la violenza dell’azione veniva stemperata in una sontuosa teatralità: succede anche, come rilevato dal documentario, nel Ratto che Valerio Castello dipinse attorno al 1653. Un’opera in cui le donne sabine non sembrano, peraltro, infastidite dalle inopportune attenzioni dei romani, ma sembrano piuttosto abbandonarsi con provocante lascivia tra le braccia dei loro rapitori. L’opera di Valerio Castello, che oggi è custodita in una collezione privata, faceva parte un tempo delle collezioni di un nobile genovese, Francesco Donghi, e decorava una sala del suo palazzo nella contrada genovese del Canneto, nel cuore del centro storico.
Valerio Castello, Ratto delle Sabine (1653 circa; olio su tela, 145 x 203 cm; collezione privata) |
Valerio Castello, Ratto delle Sabine, particolare con gli orchestrali |
L’influenza delle rappresentazioni teatrali sulla pittura di Valerio Castello (influenze che, secondo Camillo Manzitti, sarebbero del tutto evidenti) sono ravvisabili anche in altre opere. Continuando con il documentario: nel bellissimo dipinto che illustra la Leggenda di santa Genoveffa di Brabante, oggi ad Hartford, l’azione si esprime in una danza raffinata di corteggiamento e amore figurato, con tutti i suoi inchini stereotipati, la mimica degli atteggiamenti giocosi e la teatralità dei gesti reticenti che sembrano evocare l’atmosfera elegante e spensierata del minuetto. Il personaggio di santa Genoveffa, una figura dai contorni leggendari, era stato reso celebre dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze, che la descriveva come una nobile proveniente dal Brabante, regione storica a cavallo tra Belgio e Olanda. La donna era sposa di un signore locale, Sigfrido, che dovette per qualche tempo assentarsi da palazzo: Genoveffa, una donna casta e devota, sarebbe stata dunque circuita da un seduttore, al quale però non avrebbe ceduto, e sarebbe stata pertanto accusata, per ripicca, di adulterio. La donna sarebbe stata condannata a morte assieme a suo figlio neonato: tuttavia, il servitore incaricato di eseguire la condanna avrebbe preferito abbandonarla in un bosco, e dopo qualche tempo Genoveffa sarebbe stata ritrovata dal marito. Valerio Castello rappresenta proprio il momento in cui Sigfrido, durante una battuta di caccia (lo vediamo riccamente abbigliato come un soldato romano, pur con un berretto a piume seicentesco, mentre impugna una lancia ed è seguito da due cani e alcuni servitori), ritrova moglie e figlio con, a fianco, la cerva che avrebbe permesso ai due di sopravvivere nutrendoli col proprio latte. La storia, che mescola sacro e profano (e qui l’aspetto sacro è evidenziato soprattutto dal gruppo di angioletti in alto a destra) non poteva non fornire a Valerio Castello il pretesto per donare al suo dipinto tutta quella teatralità che ben si adatta all’episodio e che traspare dai gesti dei protagonisti, dalle loro pose “stereotipate”, dal gioco di sguardi che si instaura tra i protagonisti, tra i movimenti degli arti e dei corpi che sembrano seguire il ritmo di una musica. Movimenti che, peraltro, sembrano essere assecondati anche dagli elementi naturali: la grotta entro cui Genoveffa ha trovato riparo pare quasi evidenziare con un cerchio l’arrivo dei salvatori, e attorno a questo cerchio si dispongono anche le nuvole, le montagne, gli alberi e financo la cerva.
Valerio Castello, Leggenda di santa Genoveffa (1652 circa; olio su tela, 171 x 270 cm; Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art) |
Valerio Castello, Leggenda di santa Genoveffa, particolare con santa Genoveffa |
Le opere mature di Valerio Castello assumono ulteriori elementi che provano come la produzione dell’artista genovese fosse pienamente in linea con il concetto tipicamente barocco di opera d’arte totale, secondo il quale le varie forme d’arte dovevano unirsi, sommarsi e influenzarsi reciprocamente: pitture che decorando le pareti dei palazzi suggerissero l’illusione di trovarsi dinanzi a sculture e ad architetture, statue che tramite l’utilizzo di materiali policromi ricercassero l’effetto pittorico, architetture che tentassero di coinvolgere l’osservatore con effetti arditi, instaurando peraltro profondi rapporti con l’ambiente circostante. Valerio Castello, che aveva già dato prova della sua maestria tipicamente barocca in opere da cavalletto e in sontuosi affreschi che risentivano pienamente del gusto del suo tempo, aveva sommato alle sue opere d’arte la componente musicale: i suoi dipinti più maturi si mostrano dunque a chi li ammira come se fossero stati realizzati sulle note di una raffinata musica da melodramma.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).