L'amore sensuale e ambiguo tra il tritone e la nereide. Il capolavoro di Max Klinger


Capolavoro pittorico del tedesco Max Klinger, il “Tritone e Nereide” (noto anche come “Il bacio della sirena”) è conservato a Firenze e racconta l’amore, sensuale, ambiguo e misterioso, tra due creature marine, un tritone e una nereide.

Raramente si trovano, nella pittura di metà Ottocento, dipinti pregni d’un erotismo immediato, quasi sfrontato, come quello che intride il Tritone e Nereide di Max Klinger, il dipinto più celebre dell’artista tedesco, opera che ancor oggi riesce a riscuotere un certo successo. Lo stesso non può dirsi per altri suoi lavori, nonostante ai suoi tempi Klinger fosse un artista famoso (ai livelli d’un Klimt, giusto per dare un metro di confronto): le sue opere sollevavano discussioni, le sue incisioni circolavano ovunque, le sue idee avrebbero ispirato schiere d’artisti più giovani, a partire da Giorgio de Chirico, che gli è fortemente debitore. Poi sulla sua figura è come calato un sipario, che in Italia è stato parzialmente risollevato dalla mostra che, a Ferrara, Palazzo dei Diamanti gli ha dedicato nel 1996: tuttavia, il nome di Klinger è ancora tra quelli che faticano a imporsi presso il grande pubblico. Il suo dipinto però ha una fortuna che tocca a pochissimi altri: è tra quelli che rimangono impressi, scolpiti nella memoria, marcati con tracce indelebili nella mente e nell’anima di quanti lo ammirano. Si prenda un qualche visitatore a caso della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, dove il dipinto, da qualche anno, è in deposito dall’istituto Villa Romana di Firenze (fondato, peraltro, dallo stesso Klinger), e gli si domandi di nominare cinque opere a caso che lo hanno impressionato. C’è da scommettere che l’amplesso marino tra i due esseri mitologici sarà tra i dipinti più ricorrenti.

Merito, sicuramente, della sorpresa che il dipinto suscita: dopo un corridoio in cui il visitatore vede, per la più parte, sequenze di paesaggi, ritratti e scene d’interni, il quadro marino di Klinger ha lo stesso effetto d’un repentino, squillante, dissonante cambio di tempo in un concerto di musica classica. E merito, soprattutto, dell’evocativa immediatezza di quell’abbraccio così appassionato tra il tritone e la nereide, la ninfa del mare, in mezzo alle onde d’un mare agitato. Klinger sceglie di tenere molto alta la linea dell’orizzonte, a poca distanza dal bordo superiore del dipinto, accantonando qualunque tentativo d’equilibrio compositivo, tralasciando qualunque norma accademica, per far risaltare il momento di passione tra le creature marine. Un accenno di cielo nuvoloso in lontananza, e poi la distesa del mare: le due figure emergono tra i flutti, si lasciano trasportare dall’acqua, incuranti dell’impeto delle onde, chiaro rimando all’irruenza travolgente della loro passione. La nereide è immaginata da Klinger come una sirena: sdraiata sul dorso, è colta di lato, e noi ammiriamo i delicati toni rosacei del suo morbido incarnato, indugiamo sul braccio che avvolge il collo di lui, sui capelli rossi bagnati dall’acqua, vediamo la sua coda squamosa che s’attorciglia attorno ai glutei del tritone, dotato di gambe che a loro volta terminano con code di pesce. Il tritone, un adolescente dai capelli corvini e dalla carnagione olivastra, chiude gli occhi dopo aver trovato la bocca della nereide, incolla le sue labbra a quelle di lei, preme il petto contro il seno della ninfa, con la mano sinistra s’appoggia alla sua coda, incurante delle onde, trascinato dalla passione, rovente, vivo, sedotto.

Max Klinger, Tritone e Nereide (1895; olio su tela, 100 x 185 cm; Firenze, Galleria d'Arte Moderna, in deposito da Villa Romana)
Max Klinger, Tritone e Nereide (1895; olio su tela, 100 x 185 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna, in deposito da Villa Romana)

Sulle prime, la scena di Klinger appare come un idillio d’amore tra due abitanti del mare, parla d’una passione che non è meno forte rispetto a quelle che si consumano sulla terra, e potrebbe ricordare il mitologico episodio dell’amore tra Glauco e Scilla, tra il figlio di Poseidone e la bella naiade, finito in tragedia con la trasformazione di lei, per invidia della maga Circe, nell’orribile mostro nascosto tra le grotte dello stretto di Messina. L’ambiguità simbolista del dipinto dell’artista tedesco dischiude però ulteriori significati, meno rassicuranti: l’inquietante occhio arrossato della ninfa e lo stesso mare mosso potrebbero alludere alla natura ingannatrice della sirena, ai rischi che corre chiunque si faccia abbracciare da lei, ai pericoli della sua seduzione fatale. Un senso d’angoscioso turbamento che viene amplificato dalla luce cupa del cielo, dalle nuvole che s’addensano sopra l’orizzonte. L’abbraccio allora ci apparirà una morsa energica e indissolubile, la coda ci sembrerà un tentacolo pronto ad avvinghiare la vittima, l’apparente abbandono della ninfa diverrà la posizione della sirena pronta a trascinare negli abissi il suo amante, malgrado lui opponga un tentativo di divincolarsi, provando a spingere sulla coda con la mano sinistra.

È che all’epoca di Klinger il pubblico dell’arte trovava particolarmente affascinante il tema della doppiezza della donna, rimaneva intrigato dall’ambiguità indecifrabile del temperamento femminile. Il tema non era una novità assoluta per l’arte tedesca del tempo: già Arnold Böcklin, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, aveva prodotto alcune immagini di tritoni e sirene attorno alle quali la critica s’era a lungo interrogata. Si coglie, nelle immagini di Böcklin e Klinger, il fascino per le creature marine che Heinrich Heine descrive nei suoi Elementargeister, parlando dei Nixen, esseri della mitologia nordica simili nell’aspetto alle sirene: “C’è qualcosa di misterioso nelle azioni delle sirene. Ci si possono immaginare tante cose dolci e allo stesso tempo tante cose terribili sotto l’acqua. I pesci, gli unici che possono saperne qualcosa, sono muti. Oppure tacciono per prudenza? Temono una punizione crudele se tradiscono i segreti del tranquillo regno acquatico?”. Il quadro di Klinger pare una traduzione iconografica delle parole di Heine, un’immagine che trasmette con efficacia il temperamento oscuro, imperscrutabile, enigmatico delle sirene.

Tra l’altro è interessante osservare che nella mitologia classica non esistono amori tra tritoni e nereidi. La passione che accende le due creature è un’invenzione di Klinger, che all’epoca della realizzazione del suo capolavoro risiedeva in Italia, a Firenze, nel momento stesso in cui Gabriele d’Annunzio soggiornava alla Capponcina, in un periodo in cui anche Böcklin frequentava la Toscana. Solitamente si pensa alla cultura dannunziana come fonte d’ispirazione per le arti visive, ma talvolta accade anche il contrario. Ora, non sappiamo se e quanto D’Annunzio frequentasse Klinger e Böcklin, ma i personaggi che popolano il suo immaginario panico, le figure mitologiche che si muovono nelle acque del Tirreno nella sua Alcyone, sono gli stessi tritoni e le stesse nereidi che nuotano nei quadri dei simbolisti tedeschi, sebbene spogliati di quell’aura d’inquietudine, personaggi da elegia più che da tragedia, e funzionali semmai a comporre l’immaginario d’una Versilia come terra di sogno simile alla Grecia del mito. “L’Ellade sta tra Luni e Populonia”, si legge in uno dei sonetti de La corona di Glauco, una delle sezioni centrali dell’Alcyone, dove pure si legge un altro sonetto in cui una baccante trema di passione per un tritone, al quale vuole concedersi (“Tritone, son la tua femmina azzurra: / Salsa com’alga è la mia lingua; entrambe / Le gambe squama sonora mi serra”). D’Annunzio s’era inventato una Versilia da sogno come Klinger s’era inventato un amore di fantasia, vivo oggi nei corridoi di Palazzo Pitti: il museo fiorentino ha ricevuto in deposito l’opera dalla casa per artisti che Klinger fondò nel 1905 con l’idea d’assegnare un premio ai giovani tedeschi promettenti, garantendo loro un soggiorno di studio e lavoro in Italia. Il quadro è arrivato a Villa Romana nel 1976, donato dalla famiglia König in memoria dello stesso Klinger. Il capolavoro più libero, il dipinto più sensuale, l’invenzione più originale per omaggiare il fondatore della casa per artisti.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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