È difficile trovare un manuale di storia dell’arte che non riproduca la Sant’Anna Metterza, la tavola degli Uffizi realizzata, attorno al 1424, da Masaccio assieme a Masolino da Panicale. E rare sono anche le opere che riescano a rivaleggiare col fascino della Sant’Anna Metterza: trovarsi dinnanzi a questo caposaldo delle vicende artistiche italiane equivale a osservare un passaggio storico nel suo svolgimento, ad assistere a uno spartiacque fondamentale, all’incontro tra due epoche, ci consente d’ammirare simultaneamente, entro i bordi della tavola, gli esiti della rivoluzione masaccesca e le reazioni alle novità che quel giovanissimo provinciale nato a San Giovanni Valdarno, e quindi conterraneo di Masolino, aveva recato nella pittura del primo Quattrocento. Masaccio s’occupò della Madonna, del Bambino e dell’angelo in alto a destra, quello che ha l’abito verde cangiante in rosso, mentre sant’Anna, ovvero la figura gerarchicamente più importante, come si può osservare dalla dimensione più grande del nimbo, madre della Vergine e nonna di Cristo, “messa per terza” (“mi è terza” si sarebbe detto nel vernacolo toscano del tempo: di qui, il soprannome della tavola), toccò all’artista più anziano ed esperto, che dipinse anche gli altri quattro angeli.
Eppure, l’esperienza e la differenza d’età di diciott’anni perdono di significato di fronte all’incolmabile scarto che allontana Masolino da Masaccio: era il divario generazionale che teneva separati un giovane che aveva maturato un senso tutto nuovo dei volumi e della costruzione dei corpi, e un quarantenne che s’era formato nell’alveo della tradizione, ma ch’era comunque convinto che la pittura vecchia potesse aprirsi alla nuova, e che la tradizione sarebbe riuscita a rianimarsi accogliendo l’irruenza della modernità. Giuliano Briganti, nel descrivere quest’opera, immaginava dunque un Masolino che non s’era chiuso a Masaccio, ma anzi tentava di stargli dietro, cercando di dare al volto di sant’Anna “una certa scultoreità, una certa severità”, senza però riuscirci, e risultando anzi goffo e pesante: semplicemente, perché eran due modi d’intender la spazialità completamente diversi. Masolino, scriveva Longhi già nella sua giovanile Breve ma veridica storia della pittura italiana, era “il frutto di un seme senese caduto per caso su terra fiorentina”. Masaccio era invece un resurrected Giotto, per adoperare una nota espressione di Berenson. Un Giotto rinato, un pittore fermamente convinto, al pari di Giotto, del fatto che il mondo esista e che abbia una sua evidenza plastica. Masolino, al contrario, s’era formato secondo una cultura del tutto diversa, e di conseguenza, in questa tavola, non può che essere “masaccesco per condiscendenza”, come rimarcò felicemente Longhi nei suoi fondamentali Fatti di Masolino e di Masaccio: sembra quasi che voglia rincorrere il giovane collega, sembra “implorar Masaccio di fermarsi, di lasciar andare”. Tant’è che, terminata la collaborazione con lui, Masolino avrebbe smesso di cercare di seguirlo e sarebbe tornato al suo linguaggio elegante, fiorito, sostanzialmente gotico.
Per meglio esplicitare il portato della rivoluzione di Masaccio, Argan ebbe a scrivere che, nella Sant’Anna Metterza, la sua Madonna ha il volume e persino il “profilo ogivale” della cupola di Brunelleschi, la cui costruzione cominciava il 7 agosto del 1420: “si inserisce nella figura di sant’Anna esattamente come la cupola del Brunelleschi si inserisce nella spazialità dimensionale delle navate trecentesche”, provava a spiegare lo storico dell’arte. “E, come la cupola, costituisce al centro del quadro un potente nucleo plastico, che riassorbe e ‘proporziona’ sul proprio asse tutto il resto”. E lo stesso Longhi, cui si deve il merito (ancora nei Fatti soprammenzionati) d’aver distinto nella tavola le mani dei due pittori mettendo d’accordo tutta la critica, era convinto che la logica spaziale della Sant’Anna Metterza s’accordasse alla moderna logica brunelleschiana: e non è, beninteso, un’evenienza episodica nell’arte del giovane valdarnese, che supponiamo abbia avuto contatti diretti con Brunelleschi. È come se Masaccio avesse inscritto la Madonna in una sorta di piramide visiva, entro un sistema nel quale anche il colore, rilevò Ragghianti, diviene protagonista della struttura prospettica e compositiva, quasi che alle cromie spetti il compito di render evidente l’organizzazione della costruzione prospettica celata agli occhi del riguardante, col blu della tunica di sant’Anna che costituisce il vertice della piramide costituita dal mantello di Maria, e viceversa col rosso della tunica di Maria che dilaga nel rosso luminoso della veste della madre.
Masaccio e Masolino da Panicale, Sant’Anna, la Madonna col Bambino e cinque angeli o Sant’Anna Metterza (1424-1425 circa; tempera su tavola, 175 x 103 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 8386) |
Si osservi, a questo punto, la Madonna col Bambino di Masaccio. Il volto ci si presenta come un ovale pieno che abbandona le proporzioni allungate tipiche della pittura precedente, il suo corpo è modellato con nuovo senso plastico, occupa uno spazio reale, il collo è saldo nel suo palese vigore muscolare ch’emerge dai tendini in tensione, le gambe si vedono sotto la pesante veste di panno che le copre, e la luce, reale, lascia quasi del tutto in ombra il viso di Gesù. E il Bambino stesso è una sorta di Ercole in miniatura, col corpo scolpito, monumentale, manifesto ricordo d’una qualche scultura classica che Masaccio dovette aver ammirato e studiato: quella forza di membra è allegoria della forza della fede. Masolino cercò, a sua volta, di non cedere il passo, e provò a dar evidenza di scultoreità al volto della sant’Anna, ma ne uscì legnoso (volendo adoperare un aggettivo usato da Briganti), finì col creare un corpo privo di rilievo, che sembra quasi un fondale, più che una figura che occupa uno spazio assieme alle altre. Ancora Longhi: “un accomodamento poco meno che sconveniente” per Masolino, costretto ad allogare la sant’Anna “alla peggio in secondo piano”. È del resto opinione largamente condivisa che Masaccio abbia cominciato per primo a dipingere la tavola, “con innegabile prepotenza, e senza riguardo alle primitive indicazioni”, suggerisce Longhi, “lasciando poi che l’anziano si accomodasse dello spazio residuo”. Allo stesso modo, l’artista di Panicale cercò d’esser credibile nella prospettiva della mano destra che compie il gesto di protezione sul Gesù Bambino, ma anche in questo dettaglio non ottenne esiti felici. E volendo confrontare i due artisti vis-à-vis in un paragone diretto sullo stesso tipo di figura, s’ammirino i due angeli reggicortina in alto, quello sulla destra dipinto da Masaccio e quello a sinistra da Masolino. Quello di Masaccio emerge dal fondo, ha il collo saldamente e credibilmente attaccato al tronco, ha la veste che fascia il suo corpo mettendone in rilievo le proporzioni con un forte e sapiente chiaroscuro che accentua la terza dimensione: viceversa, l’angelo di Masolino è una creatura garbatamente tardogotica.
Sappiamo che la pala di Masaccio e Masolino, peraltro primo frutto della loro collaborazione, era destinata alla chiesa di Sant’Ambrogio in Firenze, dove avrebbe decorato la “cappella che è allato alla porta che va al parlatorio delle monache”, scrisse Vasari, e sappiamo, grazie ai ritrovamenti d’archivio dello studioso Alessandro Cecchi, che committente del dipinto fu un Nofri del Brutto Buonamici, di professione tessitore di drappi serici, profondamente devoto alla Vergine e detentore del giuspatronato della cappella di sant’Anna nella chiesa fiorentina. La sant’Anna Metterza, per quanto non consuetudinaria, non costituiva un’iconografia nuova per i fiorentini, profondamente devoti alla madre della Vergine, che a Firenze è anche patrona delle libertà civili: fu durante la sua ricorrenza, il 26 luglio, che nel 1343 i fiorentini cacciarono il duca di Atene, Gualtieri VI di Brienne, riconquistando le perdute libertà comunali. Ma l’idea di raffigurare la genealogia femminile di Cristo potrebbe anche esser connessa al fatto che la chiesa di Sant’Ambrogio era collegata a un convento di monache benedettine: così, ha scritto Timothy Verdon, autore d’una interessante lettura iconografica della Sant’Anna Metterza, “il bambino è posto davanti al grembo di sua madre, Maria, la quale siede poi tra le gambe di sua madre, sant’Anna: un corpo che nasce da un altro corpo, la vita di Dio che viene dalla nostra storia, che nasce dalla nostra carne collettiva, per diventare vero ‘Figlio dell’uomo’”. Anche il gesto di Maria, che tiene tra le mani il bambino col gesto d’una “casalinga che lavorando la pasta fa il pane”, a sua volta però guidata da Gesù che pone la sua mano su quella della madre, suggerisce non soltanto l’idea che, probabilmente, l’opera doveva esser posizionata sopra l’altare su cui si celebrava il sacramento eucaristico, ma forse anche la percezione, più o meno consapevole, di dar forma al primo verso del Canto XXXIII del Paradiso di Dante: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”. E non v’è ragione di dubitare che Masaccio, anche in altre occasioni, abbia meditato sulla Commedia.
Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo; Novembre di Antonio Fontanesi; i tondi di san Maurelio di Cosmè Tura, la Madonna col Bambino e Angeli di Simone dei Crocifissi, le Bilance a bocca d’Arno di Francesco Gioli, lo Specchio della vita di Pellizza da Volpedo, la Galatea di Elisabetta Sirani.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).