La basilica di Santo Stefano Maggiore viene indicata nelle guide di Milano principalmente per esser stata la chiesa dove fu battezzato il piccolo Michelangelo Merisi, destinato da adulto a diventare il Caravaggio: lo si è scoperto nel 2007, quand’è stato ritrovato un documento d’archivio in grado d’attestare che qui, il 30 settembre del 1571, il futuro pittore ricevette il sacramento. Tutt’al più, Santo Stefano Maggiore si ricorda perché oggi è la parrocchia dei migranti, e il punto di riferimento nel capoluogo lombardo per le comunità dei fedeli provenienti dalle Filippine e dal Sudamerica. È a pochi passi dal Duomo, dietro piazza Fontana, eppure al turismo milanese è quasi totalmente sconosciuta. Chi arriva qui, solitamente la visita assieme al santuario di San Bernardino alle Ossa, che le sorge a fianco e che, con le sue pareti decorate d’ossa, suscita molta più curiosità. Chi ha poco tempo neppure entra in Santo Stefano Maggiore. Le si dedica una visita veloce, un po’ svogliata: chiesa in cui fu assassinato Galeazzo Maria Sforza nel 1476, la pietra dei martiri, battesimo di Caravaggio, interventi voluti da Federico Borromeo che le hanno dato l’aspetto attuale, e cose così. Un giro rapido sotto alle sue colonne scrostate da secoli d’umidità, un’occhiata agli affreschi e alle tele lungo le due navate, e via. Spesso manco si arriva a vedere la cappella Trivulzio, dove svetta il Martirio di san Teodoro di Camillo Procaccini, capolavoro dell’arte della Controriforma milanese.
In effetti, non si possono dar colpe al visitatore occasionale, che magari entra qui quasi per caso, perché niente lascia presagire la presenza di quest’opera, non un cartello a indicare al visitatore di andare a vederla. La cappella rimane in fondo alla navata destra, occorre attraversarla tutta e accorgersi che, alla fine, c’è ancora altro da vedere, anche se quella porta anonima sembra condurre in uno di quegli spazî in cui ci s’imbatte in tutte le chiese, quelli dove non si capisce mai bene cosa ci sia: un’auletta per le confessioni? Una cappella per pregare senza farsi disturbare dai turisti? La sacrestia? Un ripostiglio? Qui, semplicemente, c’è un’altra cappella. E ci si meraviglia d’averci trovato un’opera così potente, dai colori quasi violenti, racchiusa in una cornice di marmo nero, sulla parete di fondo di un’abside coronata da una volta a botte cassettonata.
L’opera di Procaccini è citata anche dalle fonti antiche: già Carlo Torre, nel suo libro Il ritratto di Milano, una sorta di guida avanti lettera a “tutte le antichità e modernità che vedevansi e che si vedono nella città di Milano”, pubblicata nel 1674, segnala l’opera nella cappella del principe Teodoro Trivulzio, intitolata a san Teodoro, “il cui martirio espresse vagamente in pittura nella tavola sull’altare Camillo Procaccini con un Cristo in gloria”. Oggi vediamo la cappella così come l’aveva riprogettata, nel 1595, l’architetto Giuseppe Meda, dopo che la famiglia Trivulzio aveva visto concludersi a suo favore una disputa pluridecennale attorno al giuspatronato della cappella, che prima era intitolata a san Vincenzo e apparteneva alla famiglia Besozzi. Teodoro Trivulzio, nel testamento redatto nel 1531, un anno prima di morire, lasciava la considerevole somma di centomila ducati per far erigere una cappella sul posto dove si trovava quella dei Besozzi. Non è difficile immaginare che i Besozzi non gradissero, tanto che ci vollero sessant’anni per arrivare a un accordo: era il 1594 quando la Soprastanzieria di Santo Stefano si accordò per concedere loro un’altra cappella e un risarcimento in denaro. I lavori partirono l’anno dopo, anche se il progetto iniziale di Meda non fu seguito alla lettera, e oggi la cappella peraltro rimane un po’ buia perché nel Settecento le fu costruita a fianco la sacrestia. È ragionevole ritenere che l’opera di Camillo Procaccini risalga più o meno allo stesso periodo: siamo dunque sul finire del Cinquecento.
Parmense, figlio di Ercole Procaccini il Vecchio e fratello maggiore di un altro grande artista del periodo, Giulio Cesare Procaccini, Camillo s’era formato a Bologna e lì aveva lavorato, facendosi subito notare dal cardinale Gabriele Paleotti, uno dei maggiori teorici della Controriforma, autore del celebre Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582, che prescriveva la necessità, per gli artisti, di dipingere immagini realistiche, comprensibili, che s’attenessero strettamente alle vicende narrate nei testi sacri. Poi, sul finire degli anni Ottanta, il trasferimento a Milano, per lavorare a Lainate su incarico del conte Pirro I Visconti Borromeo: da lì in avanti, Camillo si sarebbe stabilito definitivamente a Milano, aprendo una bottega dalla quale uscivano dipinti sacri che aderivano con dovizia alle linee dell’arte controriformata. E le immagini dei martiri dovevano essere un esempio di fede incrollabile, che non si piegava neppure dinnanzi alle minacce d’una morte atroce. Come quella che, secondo l’agiografia, avrebbe subito san Teodoro di Amasea.
Di professione soldato, durante le persecuzioni contro i cristiani sotto l’imperatore Diocleziano, Teodoro avrebbe rifiutato di sacrificare agli dèi, e per questo fu incarcerato: inizialmente si decise di lasciarlo morire di fame, e in seguito fu condannato a essere arso vivo, non prima però d’essere torturato con un gancio. Camillo Procaccini riassume nel dipinto il destino finale del santo: vestito da legionario romano, Teodoro, un giovane di bell’aspetto, alza serenamente lo sguardo, incontrando la visione di Cristo nel cielo, che lo conforta. Assieme a Cristo, alcuni angioletti già si preparano con corone e palme, i premi riservati ai santi che subiscono il martirio. Attorno, gli aguzzini, che si presentano con volti brutti e sgraziati, espediente per sottolineare la loro malvagità, stanno per cominciare a torturarlo, e uno di loro ha già in mano il gancio per scorticarlo. In basso, un bambino soffia su alcuni tizzoni: sono quelli su cui Teodoro verrà bruciato. Sulla destra ecco infine il giudice, attorniato da alcuni soldati, che alza la mano destra per far eseguire la condanna.
“La tela”, ha scritto Rosalba Tardito Amerio, “appartiene al periodo di maggior successo e di più intensa attività del pittore; vivace e varia nei volti e nelle espressioni, piacevole e misurata nei colori, questo ‘Martirio’ rappresenta un nobile e tipico esempio di pittura religiosa nel periodo della Controriforma”. Vi si ravvisa una delle caratteristiche tipiche dell’arte di Camillo Procaccini di questi anni: la costruzione delle scene su spazî ridotti, con figure grandi tutte disposte in primo piano, raggruppate ad affollare ogni pertugio libero. E poi, i colori sgargianti, le vesti aderenti, le proporzioni monumentali, che venivano da formule già abbondantemente sperimentate dai manieristi emiliani: solo, Procaccini emendava di tutti gli eccessi ciò che aveva visto nelle sue terre natie, e proponeva ai suoi numerosissimi clienti immagini chiare, rassicuranti, moderne perché esemplate sul gusto più aggiornato e in linea con quanto la Chiesa chiedeva all’arte ufficiale.
Fu con scene come il Martirio di san Teodoro che Camillo Procaccini si garantì quel successo che gli arrise per tutta la carriera. Le opere prodotte dopo il volgere del secolo avrebbero perso la freschezza e la novità di quelle che l’artista era stato in grado di dipingere all’incirca fino ai quarant’anni d’età, anche se continuavano a riscuotere consensi (Luigi Lanzi avrebbe scritto che a Milano si trovano le sue opere migliori, e quelle peggiori). Ma all’epoca del dipinto che oggi osserviamo nella cappella Trivulzio, nel luogo dov’è rimasto per più di quattro secoli da quando vi fu installato, Camillo era ancora un pittore relativamente giovane che aveva da poco messo a punto un linguaggio efficace per gli obiettivi che s’era posto. E a breve Camillo Procaccini sarebbe diventato dominatore delle scene. Tanto da guadagnarsi, come avrebbe scritto Lanzi, il soprannome di “Vasari e Zuccari della Lombardia”.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).