“Il mio lavoro si interseca con l’archeologia, con l’etnologia o la storia, anche se il discorso che creo non è né lineare né una storia narrativa, ma è costituito solo da futuri interrotti. È un’idea di un insieme di deviazioni temporali”. Sono parole di Mariana Castillo Deball (Città del Messico, 1975), che in tali termini definiva sinteticamente, in un’intervista del 2014, la sua arte. L’esplorazione della storia, e in particolare il rapporto che noi abbiamo con la storia (e di conseguenza, la nostra interpretazione del passato e la nostra interazione con quanto avvenuto), rappresenta una costante della sua produzione. Al fine di ricavare un’idea particolarmente icastica di tale interesse, occorre guardare a uno dei suoi ultimi lavori, Hypothesis of a tree, esposto per la prima volta alla Biennale di San Paolo del 2016 e riproposto al pubblico italiano, seppur in forma ridotta, all’edizione 2017 di Artissima, presso lo stand della galleria Pinksummer di Genova.
L’artista, attratta dal lavoro dei biologi, si è domandata quale possa essere il legame che unisce la paleontologia e le pratiche dei filogenetisti, i ricercatori che studiano l’origine e l’evoluzione degli organismi. In altri termini: qual è il rapporto tra i fossili, tangibili impronte d’esseri viventi, residui di organismi che vissero decine, centinaia o milioni di anni fa, e la natura astratta degli studî genetici? E ancora: quale la relazione tra l’uomo e le diverse specie? Mariana Castillo Deball si è pertanto messa al lavoro assieme a un’amica biologa, Gabriela Aguileta, per realizzare un’opera che cercasse di fornire una risposta a tali quesiti. L’idea era quella di costruire un albero filogenetico, ovvero uno schema della discendenza delle diverse specie viventi, che fosse tridimensionale, onde consentire al pubblico d’addentrarsi tra i suoi rami, quasi da fargli toccare con mano la storia dell’evoluzione. Per realizzare la sua impresa, Mariana Castillo Deball ha compiuto sopralluoghi presso musei di storia naturale, come quello di Solnhofen, nella Germania meridionale (l’artista vive e lavora a Berlino), collocato nelle immediate vicinanze d’un sito di ritrovamenti fossili del giurassico, o presso gli stessi siti paleontologici, come la formazione Crato in Brasile, una Lagerstätte, ovvero un campo d’accumulo di fossili, tra le più importanti al mondo per la sua estensione e la varietà di specie ritrovate nei suoi strati.
L’artista ha poi studiato i fossili con l’aiuto di diversi paleontologi, e ha cominciato a eseguirne delle riproduzioni con la tecnica del ricalco, imprimendo la superficie dei reperti con l’utilizzo d’inchiostro su carta giapponese. I disegni ottenuti sono stati poi riportati su grossi fogli di carta e sistemati, a mo’ di stendardi, sopra una grande struttura in canna di bambù, che riproduceva lo schema d’un albero filogenetico: visto dall’alto, assumeva le forme d’una grande spirale. E la struttura stessa è una primo intevento circa il rapporto tra fossili e filogenetica: l’artista suppone che l’evoluzione non si fermi con l’uomo, ma prosegua nel corso dei millenni, e la spirale ha il compito di suggerire all’osservatore quest’idea di continuazione che potenzialmente dura all’infinito. L’altezza dei diversi rami dell’albero è invece connessa all’età d’una specie: più basso risulta il ramo, più antico è il corrispondente stadio dell’evoluzione. Uno degli aspetti più curiosi dell’installazione consiste nel fatto che l’uomo è simboleggiato dai disegni di elementi urbani della città di San Paolo. Nel catalogo della Biennale di San Paolo, il critico Fábio Zuker scriveva che "giustapponendo costruzioni umane e fossili di animali e piante, memorie di paesaggi naturali e urbani, e radunandoli sulla stessa storyline, l’artista mette le idee di tempo e spazio in prospettiva, proponendo una nuova narrativa sulla storia dell’estinzione, della sopravvivenza e della trasformazione". In altri termini: noi non rappresentiamo che una piccola porzione della natura, ma è altresì vero che il nostro raziocinio ci consente di elaborare strutture per classificare la natura stessa. Quasi una sorta di richiamo alla nostra responsabilità.
Mariana Castillo Deball, Hypothesis of a tree (2016; bambù, ricalchi in inchiostro nero su carta giapponese, dimensioni variabili). Ph Credit Leo Eloy / Estúdio Garagem/ Fundação Bienal de São Paul. Courtesy Biennale di San Paolo |
Mariana Castillo Deball, Hypothesis of a tree (2016; bambù, ricalchi in inchiostro nero su carta giapponese). Ph Credit Leo Eloy / Estúdio Garagem/ Fundação Bienal de São Paul. Courtesy Biennale di San Paolo |
Merle Greene, Ricalco di un sarcofago di Palenque (1963; ricalco a inchiostro nero su carta di riso, 44,5 x 64,1 cm; San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco) |
La tecnica del ricalco con cui Mariana Castillo Deball ha eseguito il suo lavoro è connessa alla storia del suo paese, il Messico. Tra i pionieri del ricalco come strumento di studio si annovera l’archeologa Merle Greene (Miles City, 1913 - San Francisco, 2011), che adoperò tale tecnica per eseguire rilievi nei siti Maya dell’America Centrale: durante la sua pluridecennale carriera di studiosa di antichità Maya, Merle Greene produsse migliaia di rilievi, di fondamentale importanza documentaria, anche in ragione del fatto che diversi monumenti si sono poi deteriorati per via dell’azione del tempo e degli agenti atmosferici, o a causa dei saccheggi dei contrabbandieri di reperti antichi. Mariana Castillo Deball ha sempre subito il fascino della figura di Merle Greene, e non ne ha mai fatto mistero. La studiosa statunitense può esser considerata ispiratrice diretta d’un progetto allestito presso il San Francisco Art Institute nel 2016, intitolato Feathered Changes, Serpent Disappearances: un lavoro in cui l’attenzione dell’artista s’è spostata sugli oggetti, analizzati nella loro veste di strumenti per comprendere la storia. Una parte del lavoro consisteva nell’esposizione di oggetti rinvenuti (e spesso abbandonati) negli archivi del museo che ospitava la rassegna: frammenti di reperti dimenticati, documenti, calchi. Alla base, l’idea che la storia stessa dell’archeologia introduca un ulteriore livello che s’aggiunge a quello della storia tout court, quella che dovrebbe esser narrata dai reperti archeologici.
Il problema è che neppure i reperti sono di per sé sufficienti a ricostruire in modo chiaro, incontrovertibile e completo la storia. L’interpretazione della storia non può dunque che essere soggettiva, e parte di tale interpretazione necessariamente poggia sul caso, sulla possibilità. La possibilità, secondo Mariana Castillo Deball, potrebbe però essere anche un modo per interpretare la storia. In Feathered Changes, Serpent Disappearances l’archeologia si fondeva con la teoria musicale di John Cage (Los Angeles, 1912 - New York, 1992), compositore che introdusse tecniche aleatorie nella stesura delle sue opere in modo da aggirare la propria volontà e da ridurre al minimo le possibilità d’interpretazione soggettiva della musica stessa: il titolo del progetto faceva peraltro riferimento a una composizione di Cage, intitolata Changes and Disappearances, e al serpente piumato (“feathered serpent” in inglese) delle religioni mesoamericane. Mariana Castillo Deball s’era scopertamente ispirata alle tecniche aleatorie di John Cage per esporre al San Francisco Art Institute gli oggetti ritrovati negli archivi assieme a ricalchi di monumenti Maya, riproduzioni, ceramiche, mappe e oggetti varî, per suggerire all’osservatore l’idea che la possibilità aiuta a confrontare gli opposti, favorisce il dialogo e riduce le possibilità di “trattare la memoria in modo schizofrenico”. Ne risultava una sorta di grande “collage” archeologico che fungeva quasi da invito a riconsiderare il modo in cui ci confrontiamo col nostro passato, e viceversa ad abbracciare una visione della storia meno rigida, meno schematica, più aperta.
Mariana Castillo Deball, Feathered Changes, Serpent Disappearances (2016; installazione, dimensioni varie). Ph. Credit San Francisco Art Institute |
Mariana Castillo Deball, Feathered Changes, Serpent Disappearances, dettaglio. Ph. Credit San Francisco Art Institute |
Alle antiche culture mesoamericane, e quindi alle radici storiche di Mariana Castillo Deball, rimandava un importante lavoro del 2013, Tamoanchan, termine che indica l’albero cosmico delle culture del Centro America: si trattava della ricostruzione del murale di Tepantitla, un’opera che rappresenta un albero ai piedi del quale siede una figura antropomorfa, variamente identificata. “Le due metà dell’albero”, ha spiegato l’artista stessa, “hanno elementi opposti. Su una metà ci sono conchiglie, lumache, pesci, tutti elementi dell’acqua e del freddo. L’altra metà presenta fiori, minerali e elementi caldi. Tra i rami freddi possiamo vedere insetti che salgono, farfalle che volano verso la parte superiore. Sui rami caldi ci sono ragni che tessono la loro tela e uno di loro sta chiaramente scendendo appeso a un filo al centro dell’immagine. Il ragno scende; ma è importante non solo perché sta andando giù. Pasztory ci fornisce un’altra intelligente associazione: il ragno è collegato alla polvere e alla siccità. Le forze che ascendono e discendono nell’albero sono collegate con il ciclo agricolo. Troviamo ancora in questa immagine, sia nella figura che nell’albero, la lotta delle forze opposte”. L’albero, infatti, si colloca a metà tra il cielo e la terra, e si presenta con due tronchi attorcigliati, di diversi colori e popolati da diversi animali e piante. Alcuni studiosi hanno voluto vedere, in questo dualismo, l’opposizione tra maschio e femmina: tuttavia, malgrado tale elemento sia stato abbondantemente chiarito da numerosi studi, il significato complessivo della figurazione è ancora oggetto d’interpretazioni. Torna dunque l’interesse di Mariana Castillo Deball per la diversità delle visioni del mondo e della storia, che nascono laddove un “oggetto sopravvive oltre se stesso”: “mi concentro su questo problema e vedo come gente diversa si è avvicinata a questo oggetto dai loro differenti punti di vista. Forse è un esercizio di concentrazione. Penso che sia anche ritrovarmi in ciò che penso sia giusto, o reale o corretto. Adotto la posizione dell’oggetto e seguo il suo percorso”.
Per rendere evidente questo calarsi nell’interpretazione dell’oggetto, Tamoanchan era stato concepito come un’immagine da mostrare sul pavimento dello spazio espositivo: una sorta di mappa che il visitatore poteva percorrere, allusione al fatto che l’opera di Tepantitla può essere interpretata come una sorta di mappa celeste delle forze regolatrici dell’universo. Non si trattava della prima volta in cui Mariana Castillo Deball utilizzava il pavimento d’una galleria o d’un museo come “supporto” per le proprie realizzazioni. A Berlino nel 2014 e l’anno successivo al Musée Régional d’Art Contemporain di Sérignan, in Francia, l’artista messicana ha esposto un lavoro intitolato Nuremberg Map of Tenochtitlán, che riproduce la cinquecentesca mappa di Tenochtitlán, l’antica capitale dell’impero azteco distrutta nel 1521 dai conquistadores. La mappa, inviata in Spagna da Hernán Cortés nello stesso anno, rappresentava la prima immagine della città che gli europei ebbero modo di conoscere: sarebbe stata poi pubblicata tre anni dopo a Norimberga. Una mappa che evidenziava due diverse visioni di Tenochtitlán: quella dei locali, che l’avevano rappresentata coi loro simboli e coi riferimenti alla loro storia, e quella degli europei, che la vedevano come una città ricca e fiorente, da conquistare. Un altro invito a conservare la memoria: quella di una civiltà sopraffatta dall’arrivo dei conquistatori.
Sempre nell’ambito della mostra di Sérignan, Mariana Castillo Deball aveva proposto un altro dei suoi lavori più importanti: ¿Quién medirá el espacio, quién me dirá el momento? (“Chi misurerà lo spazio, chi mi dirà il momento?”). Il progetto intendeva esplorare il concetto della sopravvivenza, altro tema ricorrente nella produzione dell’artista: ¿Quién medirá el espacio, quién me dirá el momento?, il cui titolo è tratto da una lirica di uno dei maggiori poeti messicani, Xavier Villaurrutia, è una serie di totem realizzati con moderne ceramiche Atzompa, in forme e soggetti che richiamano la secolare ceramica tradizionale, tipica della cittadina situata nei pressi di Oaxaca, nel Messico meridionale. Il risultato è un repertorio che forma un vocabolario variegato di temi e di simboli, in cui presente e passato si fondono, dove il confine tra la storia della ceramica e quella del ceramista diventa labile (in una prospettiva che richiama la microstoria di Carlo Ginzburg), e che offre la possibilità d’indagare il rapporto con l’archeologia (della quale l’opera intende diffondere una visione mutevole e non soggetta a rimaner ferma su ordini acquisiti) e col patrimonio storico, i modi in cui il passato sopravvive e le forme in cui si ripresenta, oltre alle storie che il passato è in grado di raccontare e alle spiegazioni che è in grado di fornire. Un repertorio che, partendo da un singolo motivo, si espande su più livelli. È un po’ come avveniva nel gioco del Cadavre exquis dei surrealisti, immagine evocata dalla stessa Mariana Castillo Deball: si comincia da una base, s’aggiungono ulteriori elementi, anche molto diversi tra loro, e s’attivano meccanismi che consentono di solcare spazî profondi attraverso letture inedite. “L’esercizio principale”, ha affermato l’artista, “è stato quello di sviluppare una storia che si è dipanata attraverso i secoli, e una storia che invece è avvenuta in un giorno. Il risultato è stato da una parte la storia dell’origine dell’universo in cento anni, e dall’altra l’origine dell’universo in un giorno. Ma le due storie sono pressoché identiche. E poi c’è la storia del viaggio del ceramista, dal momento in cui si sveglia all’alba per preparare l’argilla fino al momento in cui finisce di lavorare la creta, la cuoce, e quindi vende i suoi oggetti in modo da acquistare il grano da mangiare. Ogni personaggio diventa ceramica, e li abbiamo disposti in colonne che arrivano al soffitto, così che i visitatori possano circondare le storie e leggerle dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso”.
Mariana Castillo Deball, Tamoanchan (2016; incisione su legno, dimensioni variabili; fotografia dell’esposizione alla galleria Pinksummer di Genova). Ph. Credit Galleria Pinksummer, Genova |
Il murale di Tepantitla in una riproduzione conservata al Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Ph. Credit Thomas Aleto |
Mariana Castillo Deball, Nuremberg map of Tenochtitlán (2013; incisione su legno, dimensioni variabili; fotografia dell’esposizione al Musée Régional d’Art Contemporain di Sérignan). Ph. Jean-Christophe Lett |
Pubblico su Nuremberg map of Tenochtitlán. Ph. Jean-Christophe Lett |
Mariana Castillo Deball, ¿Quién medirá el espacio, quién me dirá el momento? (2015; quattro colonne in ceramica; fotografia dell’esposizione al Musée Régional d’Art Contemporain di Sérignan). Ph. Jean-Christophe Lett |
Merito di Mariana Castillo Deball è quello di metterci di fronte alle nostre conoscenze per rovesciare punti di vista che sembravano consolidati. La filogenetica diventa materia per riflettere non tanto sul passato quanto sul futuro dell’evoluzione, la mappa della capitale dell’impero azteco ci pone dinnanzi alle responsabilità della nostra cultura fornendo un ulteriore elemento di discussione per la realtà del presente, la storia d’un oggetto entra a far parte della storia universale. Tradizioni, acquisizioni date per scontate e costrizioni ideologiche cadono davanti alla potenza delle sue opere. Malgrado tali opere siano in larga parte composte da oggetti minuti, spesso caduti nell’oblio, apparentemente insignificanti.
Del resto, Mariana Castillo Deball è, per usare un’efficace definizione del critico Peter Yeung, una “biografa degli oggetti”. La sua arte “scava attraverso la storia di una cosa, la esamina meticolosamente, analizza e verifica le sue origini, i suoi cambi di significato, quasi come una sorta di archeologa sociale trasformatasi in artista”. E per lei l’arte contemporanea è un mezzo utile per analizzare la complessità storica degli oggetti, è essa stessa uno strumento per studiare, porsi dubbî, ragionare su ciò ch’è stato, è una pratica che attinge da diverse discipline, è un mezzo di discussione che dialoga con la storia: e conoscere la storia, ponendosi in una posizione critica nei confronti della memoria e del passato, è requisito fondamentale per vivere nel presente. Questo sembrano dirci le sue opere.
Mariana Castillo Deball è nata a Città del Messico nel 1975, ma vive e lavora a Berlino. Ha studiato all’Universidad Nacional Autónoma de México nella capitale messicana e ha completato gli studi in Olanda, nel 2003, alla Jan van Eyck Academie di Maastricht. Nel 2004 ha vinto il Prix de Rome dell’Olanda e nel 2009 ha vinto il premio Ars Viva del Kulturkreis der deutschen Wirtschaft, importante riconoscimento assegnato ogni anno al miglior giovane artista che vive e lavora in Germania, in passato vinto anche da artisti come Marina Abramovic, Georg Baselitz e Wolfgang Tillmans. Ha esposto a Manifesta 7 nel 2008, alla Biennale di Venezia nel 2011, a Documenta nel 2013, alla Biennale di Berlino nel 2014 e alla Biennale di Liverpool e a quella di San Paolo nel 2016. Sue mostre si sono tenute presso la Kunsthalle di San Gallo (2009), il Museum of Latin American Art di Long Beach (2010), la Chisenhale Gallery di Londra (2013), l’Hamburger Banhof di Berlino (2014), la Chisenhale Gallery di Londra. In Italia, sue opere si trovano nelle collezioni del Castello di Rivoli.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).