di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 28/12/2020
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte antica - Seicento - Barocco - Emilia Romagna - Reggio Emilia
Il 1619 i fedeli entravano per la prima volta nel tempio della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia: uno straordinario edificio di culto, summa del grande Seicento emiliano, ricco di capolavori.
È il 4 maggio del 1596: il duca di Ferrara, Alfonso II d’Este, riceve una missiva da Reggio Emilia, una relazione del consiglio degli Anziani a proposito di una guarigione miracolosa avvenuta in città pochi giorni prima, il 29 aprile. “Serenissimo Prencipe Signor et patrone mio colendissimo, Ci è parso convenire al debito della devotione nostra verso l’Altezza Vostra Serenissima”, scrivono gli Anziani, “significandole, come facciamo con la presente, come per miracolo dell’onnipotente Iddio, et della gloriosissima Madre, ad un giovaneto di quindici anni, il più vile, ma il più noto che fosse nella Città, mutolo dalla sua natività, dinanzi alla Santissima Imagine della Beata Vergine posta sul cantone del convento de servi ove stava per divotione, et voto de suoi, fu restituita la lengua et in un subito il parlare, et la cognitione de nomi di tutte le cose”. Il giovane miracolato di quindici anni è un orfano che si chiama Marchino, viene da Castelnovo ne’ Monti, è sordomuto dalla nascita, e pregando davanti all’immagine della Madonna al Cantone dei Servi aveva acquistato vista e udito.
La storia dell’affresco miracoloso comincia nel 1517, quando la comunità dei Servi di Maria di Reggio Emilia aveva costruito una chiesa, dedicata alla Natività di Gesù, lungo il corso della Ghiara, una delle strade più importanti della città, chiamata così perché qui, fino ai primi decenni del Duecento, si trovava il letto del torrente Crostolo (il toponimo “Ghiara” richiama la “ghiaia” che si trovava lungo il corso d’acqua), che nel 1226 viene deviato, e col tempo lungo l’antico letto sorge una strada che ne segue il corso. I serviti si erano stabiliti in città nel 1313, e già nel Medioevo costruiscono qui un piccolo tempio, poi ampliato, come detto, nel 1517. Nello stesso anno i frati collocano un’immagine della Madonna sul muro di cinta dell’orto del convento, in un incrocio noto come il “Cantone dei Servi”: l’opera diviene presto oggetto di devozione popolare, ma comincia anche a deteriorarsi: così, nel 1569, un cittadino reggiano, tale Ludovico Pratissoli, in accordo con la comunità dei Servi, decide di commissionare a uno dei più grandi pittori emiliani del tempo, Lelio Orsi (Novellara, 1511 – 1587), il rifacimento dell’immagine. Il bozzetto non è una copia fedele, è una nuova immagine che viene però approvata dai serviti, che commissionano a un pittore locale, Giovanni Bianchi detto il Bertone, la sua traduzione in affresco. È un’immagine molto semplice, adatta alla venerazione: raffigura la Madonna che si rivolge a Gesù con le mani giunte, in segno di adorazione. Nella cornice, una scritta in latino recita “Quem genuit adoravit” (“Adorò colui che generò”). La traduzione del Bertone propone una versione più feriale e più pacata e distesa rispetto al bozzetto di Orsi, indubbiamente di qualità di gran lunga superiore, ma ai fedeli poco interessa: la popolarità dell’immagine è tale che si rende necessaria la costruzione di una cappella nell’orto dei frati per poter accogliere gli ex voto lasciati dai fedeli di passaggio. Ed è davanti a questa immagine che si compie il miracolo del 1596.
È un prodigio la cui notizia risuona per tutta Reggio Emilia, giunge a Ferrara e arriva sino alla corte pontificia: il vescovo, Claudio Rangone, convoca infatti una commissione di teologi, medici e giuristi per esaminare l’accaduto e, in estate, invia a sua volta una relazione a papa Clemente VIII, che il 22 luglio approva il miracolo autorizzando il culto della Madonna della Ghiara. L’ufficialità fa diventare Reggio Emilia meta di pellegrinaggi, e successivamente si decide per la costruzione di un nuovo, grande tempio dedicato alla Madonna della Ghiara. Il progetto viene affidato a un architetto ferrarese, Alessandro Balbo (Ferrara, 1530 circa – 1604), che immagina per l’edificio una pianta a croce greca con un braccio (quello occidentale) di dimensioni maggiori, dato che il progetto include un prolungamento del presbidetio e del coro, che porta a sessanta metri le dimensioni del lato lungo (la larghezza raggiunge invece i quarantacinque metri). La prima pietra dell’edificio viene posata il 6 giugno del 1597: sono presenti alla cerimonia il duca Alfoso II d’Este, la duchessa Margherita Gonzaga, il vescovo Claudio Rangone. I lavori vengono portati a termine nel 1619: una partecipatissima processione organizzata in data 12 maggio, splendida e con tanto di carri allegorici trainati da buoi, celebra l’avvenuta consacrazione e il trasferimento dell’immagine miracolosa della Madonna sull’altare del braccio settentrionale, dove tuttora fa mostra di sé.
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Lelio Orsi, Madonna della Ghiara (1569; penna, inchiostro, acquerello bruno, lumeggiatura a biacca su carta tinta applicato su tela e incollato su tavola, 235 x 220 mm; Reggio Emilia, Museo della Madonna della Ghiara)
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L’immagine considerata miracolosa, opera del Bertone
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La basilica della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia. Ph. Credit Finestre sull’Arte
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La basilica della Madonna della Ghiara con i portici dei chiostri. Ph. Credit
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La basilica della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia. Ph. Credit Paolo Picciati
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L’interno della cupola
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I reggiani avevano davanti a loro un grande e imponente edificio, su cui svettava la cupola progettata da Cosimo Paglioni e Francesco Pacchioni (a quest’ultimo, nominato continuatore di Balbo, si deve l’innalzamento della struttura, alquanto tribolato: nel 1605 l’architetto fu anche costretto a demolire la cupola e rifarla per problemi di carattere strutturale): una facciata elegante e sobria in laterizio, tripartita, con un alto timpano sorretto da quattro paraste e due volute su cui svettano i candidi pinnacoli, tipici del linguaggio di uno dei più grandi architetti emiliani del tempo, Jacopo Barozzi detto il Vignola, con cui Balbo s’era formato (tutta la facciata, del resto, presenta caratteri stilistici marcatamente vignoleschi).
Alla data dell’inaugurazione il tempio della Ghiara è però ancora in buona parte spoglio, e i lavori all’interno sono ancora in pieno svolgimento: le uniche decorazioni che vi si possono ammirare sono gli affreschi della cupola, quelli del presbiterio e quelli dell’altare della Madonna della Ghiara. Si tratta però di opere di grande rilievo: per dipingere la cupola viene chiamato Lionello Spada (Bologna, 1576 – Parma, 1622), che vi lavora dal 1614 al 1616 sulle quadrature realizzate dal bresciano Tommaso Sandrini (Brescia, 1580 – 1635), e sempre Lionello Spada si occupa degli affreschi sulla volta del braccio settentrionale, mentre quelli del presbiterio vengono eseguiti nel 1618 da un altro grande pittore emiliano, Alessandro Tiarini (Bologna, 1577 – 1668). Anche se i cicli decorativi non sono ancora pronti (richiederanno trent’anni per giungere a termine), la Fabbriceria della Beata Vergine della Ghiara ha ben presenti i temi del programma iconografico: un’esaltazione di Maria come sposa, madre e Vergine, come regina del cielo e mediatrice tra gli uomini e Dio, annunciata dai profeti, descritta nei racconti degli evangelisti e poi predicata dai santi e dai dottori della Chiesa. I lavori comunque vanno avanti e, tra il 1625 e il 1629, ancora Tiarini completa la decorazione della volta del coro e quella del catino absidale, dove ammiriamo una sontuosa e magnifica scena dell’Assunzione della Vergine. La sciagura della peste del 1630, che colpisce seriamente anche Reggio Emilia, interrompe per dieci anni i lavori, quando mancano ancora gli affreschi del braccio d’ingresso e quelli del braccio orientale: le decorazioni del braccio d’ingresso sono completate da Luca Ferrari (Reggio Emilia, 1605 – Padova, 1654), allievo di Tiarini, tra il 1644 e il 1646, e poiché la Fabbriceria è soddisfatta del risultato, a Ferrari vengono commissionati nel 1646 anche i rimanenti affreschi della volta di levante, completati nel 1648.
La lettura iconografica può partire dalle cupolette che s’innalzano sopra le cappelle laterali, e che vengono affrescate nello stesso torno d’anni: è un racconto della storia del mondo attraverso le figure che hanno annunciato la venuta della Vergine (sibille e profeti), che hanno raccontato la sua vita (gli evangelisti) e che l’hanno predicata (i dottori della chiesa). La prima cupoletta a esser completata è, nel 1619, quella delle sibille, che spetta a Tiarini: il suo lavoro viene apprezzato al punto da valergli la commissione della scena dell’Assunzione nel catino absidale. Le sibille sono dipinte in scorcio, appaiono possenti e aggraziate allo stesso tempo (semplicemente “bellissime” secondo Carlo Cesare Malvasia che così le descrive nella sua Felsina pittrice), al punto da pensare che Tiarini conservi qualche ricordo michelangiolesco arrivatogli con tutta probabilità per tramite del Parmigianino e rielaborato in chiave scenografica (si veda come le sibille si sporgano e paiano quasi convergere verso l’osservatore, al pari degli angeli che le sovrastano). La cupoletta dei profeti è invece affrescata nel 1630 da Camillo Gavassetti (Modena, 1596 – Parma, 1630), che nella Basilica della Ghiara ha lasciato l’ultimo lavoro della sua carriera, mentre gli evangelisti sono dipinti nel 1642 da Pietro Desani (Bologna, 1595 – Reggio Emilia, 1647): quest’ultima è ritenuta la cupoletta di minor qualità, inferiore anche rispetto ad altre opere di Desani (si pensa che l’artista abbia lavorato con più fretta del necessario). I dottori della Chiesa, che occupano i pennacchi della cupoletta della cappella Gobbi, sono invece uno dei capolavori della maturità di Carlo Bononi (Ferrara, 1580 circa – 1632), che li esegue con l’inusitata tecnica dell’olio su intonaco pochi anni dopo il suo ipotetico viaggio a Roma (non noto dai documenti ma ipotizzato sulla base dei forti cambiamenti del suo stile assunti verso la fine degli anni Dieci), lasciando a Reggio Emilia una delle prime evidenze di caravaggismo in città: i dottori della Chiesa, appunto, i cui profili così crudi e realistici, sottolineati dall’intensa sensibilità luministica del ferrarese, fanno pensare all’arte romana del tempo (si osservi per esempio l’imperiosa figura di san Girolamo).
Una delle caratteristiche più singolari degli apparati decorativi della Basilica della Ghiara consiste nel fatto che le storie raffigurate nelle volte non sono dedicate alla vita di Maria, ma sono racconti di episodi del Vecchio Testamento che narrano imprese di eroine in grado d’incarnare tutte le virtù che caratterizzeranno poi la Madonna: dunque, una sorta di grande Bibbia al femminile che preannuncia la venuta della madre di Cristo raccontando le sue virtù e diventando allegoria del suo ruolo salvifico, dal momento che si tratta per la più parte di eroine che salvano il loro popolo. Tra gli episodi che i fedeli possono vedere entrando per la prima volta nella basilica nel 1619 figura la Giuditta che decapita Oloferne, opera di Lionello Spada che occupa l’ottagono del braccio che culmina con l’altare della Madonna della Ghiara: uno straordinario notturno anch’esso di sapore caravaggesco, truculento per via del particolare della scimitarra insaguinata e del sangue che schizza dal collo decapitato di Oloferne, ma di grandissima efficacia anche in virtù dell’ardito scorcio prospettico diagonale. Uno scorcio che ritroviamo anche nella scena di Ester e Assuero, che vediamo a fianco dell’ottagono centrale: di forte impatto è la raffigurazione illusionistica della scalinata che sembra quasi fuoriuscire dal dipinto e farsi incontro al riguardante. Sulla volta del presbiterio, Tiarini raffigura invece, anch’egli in tempo per la processione inaugurale, la scena con Anna che affida il figlio Samuele fanciullo al sacerdote, affiancata da quelle con Abisag che serve il vecchio re Davide e con Debora che convoca Barac, ordinandogli di convocare un esercito di diecimila soldati per liberare il popolo ebraico dai cananei. Sono i riquadri con cui Tiarini si mette in mostra riuscendo a ottenere l’incarico delle scene mancanti, con le quali a sua volta sa superarsi, soprattutto con il San Michele che sconfigge il diavolo (da notare la rappresentazione illusionistica di Lucifero, scagliato verso il basso: sembra che stia volando verso di noi, realisticamente, grazie al sapientissimo bilanciamento delle luci e delle ombre e al posizionamento della figura in relazione alle quadrature). Il grande affresco del catino absidale, un’Assunzione della Vergine, soggetto tradizionale rivisitato in chiave neocorreggesca, ha invece attirato giudizi alterni, proprio per la sua aderenza al modello parmense, con i personaggi che si dispongono su fasce concentriche che culminano nell’incontro tra Cristo e Maria e cominciano con le figure degli apostoli, disposti lungo il cornicione del catino e colti nelle loro reazioni di forte ed evidente stupore e sgomento di fronte al miracolo cui stanno assistendo. Le luminose e vivaci pitture di Ferrari riportano i fedeli alla cupola: nella lanterna, si assiste all’apoteosi della Vergine dipinta nel 1619 da Lionello Spada, affiancata da figure di personaggi dell’antico testamento che compaiono negli spazi della calotta e dai santi dell’ordine dei Servi e dai santi protettori di Reggio Emilia affrescati lungo il tamburo.
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La cupoletta delle Sibille di Alessandro Tiarini (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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La cupoletta dei profeti di Camillo Gavassetti (1630). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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La cupoletta degli evangelisti di Pietro Desani (1642). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Dettaglio del san Girolamo di Carlo Bononi. Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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La cupoletta dei dottori della Chiesa di Carlo Bononi (1622). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Lionello Spada, Giuditta e Oloferne (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Lionello Spada, Ester e Assuero (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Alessandro Tiarini, Anna affida il figlio Samuele fanciullo al sacerdote (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Alessandro Tiarini, Abigail e David (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Alessandro Tiarini, San Michele (1624). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Il catino absidale affrescato da Alessandro Tiarini (1624). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Il catino absidale affrescato da Alessandro Tiarini (1624). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Il catino absidale affrescato da Alessandro Tiarini (1624). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Luca Ferrari, Adamo ed Eva (1644). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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La cupola affrescata da Lionello Spada (1619). Ph. Credit Fabbriceria Laica del Tempio della B. V. della Ghiara
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Le decorazioni che adornano le pareti non sono le uniche opere rilevanti della Basilica della Ghiara: ben presto anche gli altari cominciano a riempirsi di pale dipinte dai più grandi maestri emiliani dell’epoca. I fedeli, entrando nel tempio il giorno dell’inaugurazione, potevano ammirare, nella cappella Gabbi, il Martirio dei santi Giorgio e Caterina d’Alessandria, opera devota e teatrale di Ludovico Carracci (Bologna, 1555 – 1619) consegnata nel 1618, e, nella prima cappella di sinistra, ovvero la cappella Brami (o cappella del Monte di Pietà, dal nome dei successivi proprietari), la Visione di san Francesco di Lionello Spada, opera finanziata (così come tutta la decorazione della cappella) dalla contessa reggiana Camilla Ruggeri Brami: il dipinto viene rubato però nel 1783 (sarà recuperato in seguito: oggi si trova alla Galleria Estense di Modena), ed è sostituito con un dipinto del comasco Giuseppe Romani, a sua volta cambiato, nel 1854, con una Madonna col Bambino e i santi Francesco d’Assisi, Lucia, Apollonia e Agata di Alfonso Chierici (Reggio Emilia, 1816 – Roma, 1873), opera di chiaro sapore neoraffaellesco.
Il dipinto più noto è però la Crocifissione del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri; Cento, 1591 – Bologna, 1666), opera destinata all’altare del Comune di Reggio Emilia, disegnato dall’architetto parmense Giovanni Battista Magnani. Il Comune inizialmente si rivolge a Guido Reni, che pone però condizioni ritenute inaccettabili dalla comunità reggiana, e si opta quindi per il grande centese, giovane ma già celebre, che consegna la sua opera nel 1624. È una Crocifissione che meraviglia e sbigottisce i contemporanei: il Guercino la ambienta in un paesaggio cupo, ed è la luce guizzante che fa emergere le forme dei protagonisti (è ancora vivo il ricordo del recente soggiorno romano), disposti attorno al Cristo crocifisso, in una composizione di carattere solenne non dimentica della lezione di Guido Reni, e che s’avvale della scenografica presenza di san Prospero, patrono di Reggio Emilia, che implora la protezione per la città. Per lo storico dell’arte Denis Mahon, il più grande studioso del Guercino, è una delle opere che segnano l’avvio di una nuova fase della carriera dell’artista, caratterizzata da un’apertura alla pittura romana del tempo (segnatamente quella di Caravaggio), che arricchisce il suo già notevole bagaglio culturale, dando luogo a opere dove il naturale è bilanciato con l’esigenza d’idealizzazione e di semplificazione ben descritta dallo stesso Mahon. Ed è un’opera che ha un notevole impatto in città, tanto che il Comune decide di premiare il Guercino donandogli una collana d’oro e una medaglia d’oro recante l’immagine della Madonna della Ghiara.
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Alfonso Chierici, Madonna col Bambino e i santi Francesco d’Assisi, Lucia, Apollonia e Agata (1854)
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Ludovico Carracci, Martirio dei santi Giorgio e Caterina d’Alessandria (1618)
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Guercino, Crocifissione (1624)
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Per varietà, unitarietà (oggi vediamo la basilica della Ghiara, tolte poche eccezioni e poche aggiunte successive, come la vedevano i fedeli che vi entravano nel XVII secolo), stato di conservazione, la basilica della Ghiara di Reggio Emilia è uno dei grandi templi dell’arte del Seicento in Emilia, nonché uno dei cantieri più importanti del suo tempo, dato che la sua realizzazione e la sua decorazione videro il concorso di alcuni dei più illustri artisti emiliani del tempo: all’appello, in pratica, mancò soltanto Guido Reni. E pensare che la basilica era andata vicina due volte ad avere un suo dipinto: alcuni documenti rinvenuti di recente nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia hanno rivelato che, negli anni Trenta, il Monte di Pietà tentò l’acquisto di un’opera di Guido Reni da destinare alla cappella di cui deteneva il giuspatronato, in sostituzione della Visione di san Francesco di Lionello Spada. La trattativa andò in porto e Guido Reni si mise al lavoro, ma l’esecuzione del dipinto andò molto per le lunghe, e alla data della scomparsa del maestro bolognese, nel 1642, il dipinto era ancora poco più che un abbozzo e il Monte di Pietà decise di non ritirarlo. Fu invece acquistato dal conte Marco Antonio Hercolani per la propria collezione privata, molto appassionato dei dipinti non finiti di Guido Reni: oggi si trova invece nella Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Non esiste più il muro da cui è cominciata tutta la storia: l’immagine miracolosa, come s’è visto, oggi si mostra sull’altare del braccio settentrionale, mentre il disegno di Lelio Orsi è conservato nell’attiguo Museo del Santuario della Beata Vergine della Ghiara, aperto nel 1982 in alcuni locali del convento dei serviti: al suo interno, oggetti liturgici ed offerte compongono il Tesoro della Basilica e raccontano la storia di un culto che dura da cinque secoli. Una storia che ovviamente non è ancora terminata: è stato inaugurato il 4 settembre del 2019 il nuovo impianto d’illuminazione dell’interno del tempio, evento con cui s’è celebrato il quarto centenario della traslazione dell’immagine della Madonna della Ghiara. Un apparato illuminotecnico a Led, progettato da Giancarlo Grassi, Daniele Canuti e Gian Paolo Roscio, che rinnova quello del 1997, che è stato realizzato grazie al contributo di Iren spa, e che si è posto l’obiettivo di far risaltare proprio gli affreschi, consente un più serrato controllo sul colore, sulla regolazione e sulle variazioni d’intensità della luce, studiata per esaltare gli effetti scenografici della decorazione ad affresco, per ridurre l’abbagliamento e le interferenze visive, per valorizzare le architetture, che in accordo con l’estetica secentesca non possono esser considerate un elemento a sé stante rispetto alle pitture. Un nuovo capitolo di una storia lunga più di quattrocento anni.
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