Nello spazio scientificamente e razionalmente definito della prospettiva rinascimentale palpita l’animo inquieto dell’uomo con tutte le sue contraddizioni, le sue debolezze, i suoi opposti. La lettura che Massimo Cacciari offre dell’Umanesimo quattrocentesco nella sua recente raccolta La mente inquieta prende in considerazione quel “timbro tragico” che vien fatto risalire al Secretum e a certe Epistulae di Petrarca: sono le fondamenta dell’Umanesimo albertiano che, scrive il filosofo, “costituisce il controcanto necessario, e nient’affatto semplicemente contraddittorio, alle correnti neoplatoniche”. E Leon Battista Alberti è colui che “dà la voce più potente a contraddizioni e conflitti che appartengono alla trama più profonda ed essenziale di tutta questa età”. La ricerca d’un linguaggio (che s’esprima per parole o per immagini non fa differenza) in grado di trasmettere tutta l’intricata complessità dell’uomo passa dunque, inevitabilmente, per l’attraversamento dell’inferno: “se ne rimuovi l’esistenza, se lo ignori, se non dipingi il pessimo e nel tuo quadro trova luogo soltanto l’immagine della dignitas”, scrive Cacciari, “non sarai né buon filologo né buon artista”.
Alberti, è noto, è anche il teorico dei “movimenti d’animo”, da restituire a chi osserva un’opera d’arte attraverso i movimenti del corpo: ne parla nel suo De Pictura. Fanno parte del lessico dell’artista, sono il mezzo col quale il pittore e lo scultore traducono in immagini tutti i rivolgimenti interiori delle figure che popolano le loro opere. L’idea albertiana è stata spesso accostata a certe sculture di Donatello, dalle quali potrebbe procedere: lo studioso tedesco Andreas Tönnesmann ha scritto che il postulato d’esprimere i movimenti dell’animo tramite quelli del corpo, facilitando all’osservatore la comprensione emotiva della scena, potrebbe esser stato stimolato proprio dall’osservazione delle opere del grande artista fiorentino. Per la carica con cui Donatello travolge la suavitas tardo-gotica e la misura ghibertiana, Cacciari ha in mente l’Abacuc oggi conservato al Museo del Duomo di Firenze, ma l’anticlassicismo e l’energico pathos del Donatello più umanamente tormentato emergono forse in maniera ancor più prorompente da un’opera che il visitatore del museo trova qualche sala prima, la drammatica Maddalena penitente, la scultura lignea che Donato de’ Bardi eseguì al suo rientro dal lungo decennio padovano, nel 1453, forse per il Battistero di Firenze, dove la scultura è sempre stata storicamente attestata. E dove rimase fino al 1966, anno dell’alluvione di Firenze: danneggiata, fu restaurata all’Opificio delle Pietre Dure e poi, dal 1972, esposta al Museo del Duomo.
La Maddalena di Donatello non è la giovane e bella peccatrice redenta del Vangelo: è l’asceta delle leggende medievali, ossuta e smunta, sofferente, provata dai tanti anni di penitenza solitaria. Mai s’era vista prima di Donatello un’immagine scultorea della Maddalena così drammatica e così realistica. Con tutta probabilità è lui, ha scritto Arthur Rosenauer, “il primo a raffigurare la Maddalena […] in tutta la sua decrepitezza”: la santa dell’artista fiorentino, scolpita su di un unico blocco di legno di gattice (materiale inconsueto per Donatello, difficile da modellare, spigoloso e ruvido, e pertanto adatto al soggetto), è una vecchia che ha perso quasi tutti i denti, una vecchia dal volto scavato, dal corpo scheletrico coperto da una lunga e folta cascata di capelli sporchi e disordinati, ma è anche la santa che, nonostante i patimenti, mentre s’appoggia malferma e sbilenca sulle gambe che ormai paiono quasi non riuscire più a sostenere il peso del corpo, non perde la fede e riesce ancora a unire le mani per rivolgere una preghiera al suo dio. Mani che si sfiorano senza toccarsi: ecco il fulcro del capolavoro di Donatello, l’elemento che offre al riguardante l’impressione di trovarsi di fronte a un istante nel pieno del suo svolgimento, il dettaglio che rivela la verità di quel sentimento, che lo rende vivo ed eterno. Il tormento interiore della Maddalena di Donatello è tutto in quest’ultima supplica all’Altissimo, espresso attraverso un lessico fondato sul dissidio tra il gesto delle mani, quel corpo macilento e quell’espressione gravida di tutti gli affanni che la santa ha dovuto subire durante la sua esistenza. Non c’è più una santa che pare indifferente alle privazioni del digiuno: c’è una donna che ha sofferto, ch’è visibilmente straziata, ma che rimane salda nella sua fede.
Donatello, Maddalena (1453-1455 circa; legno di gattice, altezza 185 cm; Firenze, Museo del Duomo) |
Donatello aveva studiato alacremente la statuaria antica, s’era creato una vasta cultura archeologica che gli aveva permesso, lungo la sua carriera, di dedicarsi anche a opere animate da forti tensioni espressionistiche. Sulla Maddalena penitente, poi, qualcuno sarà portato osservare in controluce i dubbi e le inquietudini d’un quasi settantenne che, prossimo alla fine della sua carriera e dei suoi giorni, probabilmente avvertiva una certa consentaneità col soggetto della sua scultura, o quanto meno un certo interesse per i turbamenti interiori d’una persona giunta agli estremi della propria vita terrena. Donatello è comunque, anzitutto, un artista che non finisce mai di mettere continuamente in discussione i limiti del suo linguaggio, e di cercare, per render l’idea con un’osservazione di André Chastel, quegli elementi “che valgano a intensificare la tensione della forma plastica fino ai limiti della ‘terribilità’”. Per Chastel, Donatello “amplia metodicamente la gamma delle passioni che possono trovar luogo nell’opera scolpita e il movimento è per lui l’elemento fondamentale”. Movimento del corpo che si fa movimento dell’animo, appunto. Anche, e soprattutto, quando l’animo è lacerato dai tormenti.
È un Donatello antigrazioso, al limite della violenza: “mai Donatello si era spinto così innanzi nel rappresentare il decadimento fisico”, scrive Rosenauer. Un brutale verismo che sicuramente sconvolse i compostissimi ghibertiani, ma che trovò anche consensi: al Museo della Collegiata di Empoli è conservata, ad esempio, una Maddalena penitente d’incerta attribuzione, assegnata di recente a Romualdo da Candeli da Rosanna Caterina Proto Pisani, scolpita pochi anni dopo l’opera di Donatello. Nella chiesa di Santa Trinita si trova un’altra Maddalena, di Desiderio da Settignano, memore della scultura lignea di Donatello. E poi la lodarono Francesco Bocchi, che nel 1591 la ritenne la più bella statua del Battistero, e Giorgio Vasari, che nelle Vite parlò d’una “santa Maria Maddalena di legno in penitenza, molto bella e molto ben fatta, essendo consumata dai digiuni e dall’astinenza, intanto che pare in tutte le parti una perfezzione di notomia, benissimo intesa per tutto”.
Nessuno avrebbe però mai raggiunto la potenza di Donatello, mai neppure toccata prima da altri. È la Maddalena più sconvolgente della storia dell’arte: Frederick Perkins, agl’inizî del Novecento, aveva scritto che questa scultura provoca financo un certo sentimento di repulsione. È sicuramente ciò che provano tanti studenti che, sfogliando i manuali di storia dell’arte del Rinascimento, se la trovano come una presenza quasi inspiegabile dopo pagine su pagine di bilanciate armonie e di perfetti equilibrî, di chiasmi e contrapposti, di modelli classici e riferimenti alla più nobile statuaria antica. Ed è ciò che prova chi se la trova davanti al Museo del Duomo, coi suoi occhi infossati e penetranti, con le sue mani scheletrite e supplici, con la pelle tesa sulle sue ossa come una pergamena, per evocare un’immagine di Rosenauer. Ecco: la Maddalena penitente di Donatello di sicuro mette in discussione tanta retorica sul Rinascimento. E soprattutto è testimone di come l’età dell’Umanesimo (“un’età di crisi”, secondo Cacciari, “in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un ordine e del compito di definirne un altro”), sia caratterizzata anche da un senso tragico dell’umana esistenza.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).