Per Giovanni Morelli, Ludovico Mazzolino era “der Glühwurm unter den Malern”, come lo definì nei suoi Kunstkritische Studien über italienische Malerei: la “lucciola dei pittori”. Il perché è presto detto: per i suoi colori “meravigliosamente brillanti”, che lo resero uno dei pittori più ricercati dal collezionismo romano del Seicento, periodo in cui buona parte dei suoi dipinti, dopo la Devoluzione di Ferrara, città di cui il Mazzolino era originario, si riversò nella capitale dello Stato pontificio. Lui stesso, quand’era in vita, lavorò soprattutto per committenti privati, producendosi in dipinti di piccolo formato destinati all’intima devozione della sua clientela. Tra i suoi committenti, giusto per citare un nome, figurava anche Lucrezia Borgia.
Mazzolino era un ferrarese che s’era dissetato alla fonte dei Cosmè Tura, degli Ercole de’ Roberti, dei Lorenzo Costa, fino ad arrivare a una cifra stilistica peculiarissima, con spiccati caratteri d’originalità, che lo rende ben riconoscibile: non fu un innovatore, certo, ma di sicuro fu un artista dotato di mirabili capacità narrative, luminoso, sorprendente e incline alle intonazioni inattese e bizzarre, come tutti i grandi ferraresi. In breve: “un talento inquieto ed eccentrico”, come lo definì Silla Zamboni nella prima monografia a lui dedicata.
S’è detto che Mazzolino lavorò soprattutto per la clientela particolare, e in effetti è famoso anche perché pittore estremamente raro da vedere in grandi imprese pubbliche. E non è neppure evenienza così frequente vederlo rappresentato in un museo: sono circa un centinaio le sue opere conosciute, e per vederle dal vivo tocca quasi sempre visitare un grande istituto. Gli Uffizi, la Galleria Borghese, la Pinacoteca Nazionale di Bologna, all’estero la National Gallery di Londra, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Oppure si possono vagliare alcuni musei di dimensioni più ridotte che si sono originati da raccolte private: uno di questi è il Museo Lia della Spezia, dove si trova uno dei quadri più interessanti dell’intera produzione del Mazzolino. È una Sacra Famiglia con san Giovannino e santa Elisabetta che s’offre agli occhi del riguardante con uno schema piuttosto tipico dell’arte di questo ferrarese poco noto al grande pubblico: una quinta architettonica (con tanto di rilievo classico, in questo caso) a far da cornice, le figure in primo piano, una composizione che si sviluppa molto in profondità nonostante le architetture, il segno che rimanda all’esperienze nordiche di Dürer, e qualche inserto strano, se non strambo.
La verve narrativa di Mazzolino è evidentissima: tutti i maschi, ovvero i bambini e san Giuseppe, sembrano essere allo stesso tempo attratti e preoccupati dall’irruzione sulla scena della scimmia che si dirige verso il Bambino. San Giuseppe, in particolare: sguardo corrucciato, atteggiamento già sulla difensiva. I bimbi invece sono più curiosi, anche se la posa di san Giovannino tradisce un certo infantile timore nei confronti dell’animale, motivato dal fatto che la bestiola è attratta dai frutti che lui tiene stretti nella tunichetta. Le donne, invece, paiono non curarsi della presenza del primate. La Vergine ha lo sguardo perso davanti a sé, e sua cugina si rivolge verso di lei con le mani giunte, per riverire il neonato.
Il Mazzolino, che si firma sul pavimento in legno del portico, subito sotto le bordature dorate della veste di santa Elisabetta, è pittore di somme raffinatezze, e ha pochi eguali in questo senso. Delle pose e degli atteggiamenti s’è già detto, e solo un pittore estremamente fantasioso può essere in grado di render così vivace una scena devozionale. Ma Ludovico Mazzolino va oltre, e la finezza del suo tocco investe ogni particolare. Le aureole dei personaggi sono tremolanti aloni di luce costruiti con piccoli segni lasciati con la punta del più fine dei suoi pennelli: era il modo tutto suo che aveva per dipingere i nimbi dei santi. L’arco classico è decorato con grottesche dorate, e gli stessi capitelli sono ravvivati da dorature che fanno brillare anche le architetture. Dietro, oltre il fornice dell’arco, nello spazio di pochi centimetri il pittore ha costruito un paesaggio dotato d’una gran forza magnetica: monti che si perdono in lontananza, una torre d’avvistamento sul fiume, la vegetazione che s’impossessa delle rive, il cielo all’imbrunire.
C’è, poi, la battaglia che decora il rilievo poggiato sulle mensole dell’arco. È, come la scimmia, una presenza che si riscontra in altri dipinti di Ludovico Mazzolino: alla National Gallery di Londra, per esempio, un’altra sua Sacra Famiglia è dipinta sotto un ben più ingombrante bassorilievo antico, con la stessa battaglia di cavalieri ch’è inserita nella tavola spezzina e che, suggeriva Carl Robert nel suo studio Die antiken Sarkophagreliefs del 1890, potrebbe esser tratta da un sarcofago un tempo nella chiesa dei santi Cosma e Damiano a Roma (ne sopravvive un frammento a Palazzo Salviati). Il significato simbolico della battaglia sembrerebbe piuttosto chiaro: allude agli sconvolgimenti dell’era pagana definitivamente superati dalla nascita di Cristo e dal suo sacrificio, cui allude la presenza di san Giovannino. Un san Giovannino che qui è sprovvisto del suo tipico agnello, simbolo del sacrificio di Gesù: potrebbe esser stato sostituito dai frutti rossi, che il piccolo sta cercando di difendere dall’eventuale assalto della scimmia. I frutti rossi alludono al peccato originale, di cui Cristo è redentore: hanno dunque la stessa funzione allegorica dell’agnello “qui tollit peccata mundi”. La scimmia, cui in antico erano associati il diavolo e il male, potrebbe essere la più evidente incarnazione della tentazione. Per Zamboni però l’animale, desunto dal repertorio di Ercole de’ Roberti e nello specifico dagli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, sarebbe “svuotato di ogni simbolismo”, un “capriccioso inserto nei dipinti sacri”.
Non conosciamo le vicende di questa tavoletta prima dell’Ottocento. Nel 1888, Wilhlem Bode la segnala nella Gemäldegalerie di Oldenburg, dopodiché, negli anni Trenta, Berenson la registra in una collezione privata di Amsterdam. Di nuovo immessa sul mercato, fu infine acquistata dal grande collezionista Amedeo Lia, e quindi oggi esposta al pubblico nel museo che s’è originato dalla donazione della raccolta al Comune della Spezia. All’epoca in cui Lia acquistò sul mercato quest’opera di Mazzolino (oggi un dipinto simile ha quotazioni che stanno tra i due e i trecentomila euro), il pittore ferrarese era particolarmente ambito dagli amanti dell’arte antica. È dunque grazie al fine gusto dell’ingegnere collezionista se oggi questa rara e deliziosa tavola si può ammirare in un museo pubblico.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).