Quei tagli che ci fanno avventurare nel reale. Sulle Attese di Lucio Fontana


Lucio Fontana ha compiuto una rivoluzione superando la tela: prima bucandola, poi tagliandola. Ecco perché quel gesto è così importante.

C’è un elemento di Lucio Fontana in grado di metter tutti d’accordo, un elemento della sua arte che forse anche i suoi sempre più sparuti detrattori potrebbero esser pronti a riconoscergli: la grande lucidità teorica che ha sempre motivato ogni singolo momento della sua produzione. Ed è questa estrema lucidità teorica che lo ha portato, ha scritto Renato Barilli, “a superare la soglia della superficie e ad avventurarsi nello spazio reale”. Fontana non ha mai fatto mistero di voler superare la superficie, almeno fin dal Manifiesto blanco: “Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma”, scriveva nel testo programmatico firmato nel 1946 a Buenos Aires e sottoscritto assieme a un gruppo d’artisti argentini. “Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia, e della musica. È necessaria un’arte più strettamente in accordo con le esigenze del nuovo spirito”. Questo è il presupposto che, nel giro d’una decina d’anni, avrebbe portato Fontana a squarciare la tela coi buchi e coi tagli che gli hanno garantito un posto di prim’ordine nella storia dell’arte e che lo hanno reso celebre anche presso il pubblico non avvezzo a entrar nelle gallerie e nei musei.

Prima di quei tagli c’è però un percorso lungo tutto una vita, e ch’è la prosecuzione d’una precisa direttrice storica. Superare la superficie: una nuova visione che Fontana vedeva cominciare nell’arte barocca, con quelle figure che parevano abbandonare la cornice loro riservata per dilatarsi e proseguire nello spazio. E che vedeva proseguire con Boccioni, che quello spazio l’aveva conquistato a suon di movimento, forme-forze, potenza espansiva dei corpi. Giunti a questo punto, tuttavia, le arti tradizionali non erano più in grado di far forma a questa visione: “abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta ed affrontiamo lo sviluppo di un’arte basata nell’unità di tempo e dello spazio”, leggiamo nel Manifesto tecnico dello spazialismo. Per Fontana, arte è somma di elementi: lo spazio, il tempo, la luce, il colore, il suono. Come risolvere il problema di trovare una dimensione che possa esser somma di tutti questi elementi e al contempo superamento della pittura e della scultura? Fontana, sviluppando le sue ricerche in scultura (si pensi alle sue meravigliose ceramiche, caratterizzate dall’energia di quel “plasticismo dinamico e rutilante d’espansione spaziale e ambientale”, come lo descrisse Enrico Crispolti: un plasticismo erede diretto del dinamismo barocco), comincia a cercar soluzioni alla fine degli anni Quaranta, dapprima con gli Ambienti spaziali, e poi con i Concetti spaziali, l’espressione con cui designava le sue perforazioni della tela. In altri termini, Fontana, dal 1949, inizia a bucare le tele, cominciando un viaggio che l’avrebbe poi portato alle Attese. Ovvero, ai tagli.

Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964; cementite su tela, 190,3 x 115,5 cm; Torino, Galleria d’Arte Moderna). © Fondazione Lucio Fontana
Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964; cementite su tela, 190,3 x 115,5 cm; Torino, Galleria d’Arte Moderna). © Fondazione Lucio Fontana

Il buco sulla tela potrebbe esser visto come un gesto violento: è però motivato dalla necessità di trovare una forma espressiva adatta a un mondo ch’è radicalmente cambiato rispetto a com’era prima della seconda guerra mondiale. C’è, intanto, la maturata consapevolezza che l’arte sia eterna ma non immortale, come Fontana andava sostenendo dal primo manifesto dello spazialismo: è eterna perché destinata a rimanere tale in quanto gesto e in quanto frutto dello spirito creativo dell’essere umano, ma è mortale perché la materia fisica di cui è composta andrà a degradarsi e poi a dissolversi col trascorrere del tempo. Bucando la tela, Fontana compie un gesto, sancisce il primato della creatività sulla materia, e s’assicura l’eternità: anche quando la sua opera terminerà la sua esistenza fisica, il gesto del bucare la tela non potrà esser cancellato. Per certi versi, Fontana anticipa l’arte concettuale: le sue opere traggono forza anche dal solo fatto che se ne discuta.

E ci sono poi ragioni molto più contingenti. Sussiste in Fontana l’idea che l’arte abbia esaurito la sua funzione sociale: bucando la tela, è come se l’artista volesse dirci che il supporto non è più utilizzabile, ha cessato d’esistere, non può più assolvere il suo compito. Fine dell’arte, dunque? Forse: è la fine dell’arte per come la s’era conosciuta da secoli, se non da millenni. Quel che è certo, è che Fontana vuole spingerci a guardarci attorno, a immergerci nella realtà che ci circonda. Superare la superficie, avventurarsi nello spazio reale. La tela non può più essere adoperata per dipingere la realtà, e allora sta a noi osservare la realtà. È una presa di posizione forte, coerente con l’enunciato del Manifiesto blanco. L’arte della tradizione, secondo Fontana, non è più adatta a sostenere l’esigenze dell’uomo nuovo, “formatosi nella necessità dell’azione, a contatto con la meccanica, che gli impone un dinamismo costante”. Da qui deriva la necessità di abbandonare la tela per trovare una forma d’arte che vada oltre la rappresentazione e che apra alla realtà, alla vita, all’imprevisto. Portare l’arte nella vita: lo aveva fatto Duchamp, lo stava facendo Yves Klein, amico di Fontana, lo faceva Fontana stesso.

Ai tagli, Fontana sarebbe giunto una decina d’anni dopo i buchi. Se andiamo a legger le sue interviste, troveremo dei passaggi in cui l’artista afferma che buchi e tagli sono la stessa cosa. E troveremo financo dei passaggi in cui Fontana ammetterà d’aver prodotto una gran moltitudine di tagli perché richiesti da un mercato in crescita: erano in tanti a volere le sue Attese. E apponendo sul retro quelle famose frasi che registravano ricordi e stati d’animo, come “Voglio bene a Teresita” sul taglio 60 T 9 per dichiarare l’amore nei confronti della moglie, o “Possibile che gli uomini politici non comprendano” sul 67 T 102, oppure “Oggi, domani e dopodomani sempre fessi” sul 66 T 81, forse Fontana aveva voluto escogitare un modo per difendersi dai falsarî. Ma in realtà buchi e tagli non sono identici: le Attese, fin dal titolo che l’artista scelse per i tagli, evocano una dimensione metafisica, filosofica. “Con il taglio”, ebbe a dire l’artista in un’intervista a Giorgio Bocca, “ho inventato una formula che non credo di poter perfezionare. Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito”.

I tagli nascono negli anni in cui l’uomo parte alla conquista dello spazio. E nella sua corsa verso lo spazio, scopre che le dimensioni tradizionali non gli bastano più, perché s’accorge di vivere nell’infinito. Il taglio di Fontana è un varco su quell’infinito. In una fondamentale conversazione con Carla Lonzi, che la grande storica dell’arte avrebbe incluso nel suo famosissimo Autoritratto, si trovano forse le parole più celebri che Fontana adoperò per definire i suoi tagli: “la scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita, una x che per me è la base di tutta l’arte contemporanea”. E di fronte a questo varco si possono sperimentare le più svariate sensazioni: l’artista provava una grande “distensione dello spirito”, sentiva d’essersi liberato dalla schiavitù della materia e di vivere al contempo nel presente e nel futuro. I tagli di Fontana non lasciano indifferenti: davanti a quegli squarci si proveranno calma, serenità, soddisfazione, ansia, confusione, rifiuto, sdegno. Come era per il barocco del Seicento, il fine ultimo di Fontana, ha scritto Paola Valenti, è quello di “incentivare la partecipazione immaginativa e sensoriale dello spettatore ad una spettacolare correlazione-osmosi, nella dinamica dello spazio, di natura e sopra-natura, di illimite visivo e di tensione emotivo-spirituale”. Come nell’arte barocca, lo spettatore, aggiunge Guido Ballo, “non ha possibilità di sfuggire alla partecipazione psichica”.

I tagli di Fontana sono tutto questo. La vetta e al contempo l’epilogo d’un percorso pluridecennale. Gli eredi del barocco. Una riflessione sull’essere umano, sulle sue conquiste, ma anche sulla sua precarietà. Un invito a non fermarsi alla tela, ma a guardare nella realtà, o anche oltre la realtà. Un gesto ch’è nello stesso tempo distruttivo e costruttivo. E a chi non si convince e continua a rimaner scettico dinnanzi alla portata della rivoluzione di Fontana, non c’è altra risposta che quella, fulminante, dell’artista stesso: chi vuol capire, capisca. “Sennò, continua a dire che l’è un büs, e ciao”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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