L’Opera del Duomo di Orvieto, dopo una serie di tentativi che si scalano nell’arco di mezzo secolo, trova finalmente in Luca Signorelli l’artista adatto a rivestire di pitture murali la cappella Nova o di San Brizio. La porzione della volta, affrescata da Beato Angelico nel 1449 e lasciata dallo stesso incompiuta, sarà così inclusa nella moderna figurazione del pittore cortonese. Corre l’anno 1499 e la decorazione della Cappella può riprendere il suo corso fino al completamento avvenuto nel 1504. Lo stacco tecnico e stilistico tra le due fasi è indubbiamente forte. Lo si apprezza o con l’uso di un buon binocolo o da un esame ravvicinato delle superfici dipinte. Io che ebbi la fortuna di salire sui ponteggi quando il restauro degli anni Novanta era ancora in corso, ebbi modo di apprezzare il modo di procedere dell’Angelico, fedele alla tradizione della bottega rinascimentale e basato sulla puntuale trasposizione dei cartoni, da quello di Signorelli, molto più sciolto e sostanzialmente svincolato dal rispetto delle regole di bottega. È incredibile come l’artista riesca a progettare di getto, semplicemente facendo ricorso a una punta metallica con cui incide la superficie dell’intonaco fresco. Questo modo di procedere rende le sue figurazioni fresche e vibranti, piene di imprevedibili effetti.
Non sappiamo quale fosse il programma iconografico-iconologico al quale Beato Angelico avrebbe dovuto rispondere dando veste colorata al pensiero e al dettato di qualche dotto teologo. A tale proposito possiamo chiederci se Luca Signorelli abbia seguito il programma messo a punto alla metà del Quattrocento o abbia tradotto in pittura un nuovo progetto. Non è facile rispondere. Certo è che il trascorrere di mezzo secolo può aver sostanzialmente mutato il primitivo piano figurato. D’altra parte nel contratto che l’Opera del Duomo stipula con l’artista viene detto esplicitamente che costui dovrà attenersi, per quanto riguarda i soggetti, al “disegno” elaborato dallo stesso e approvato dai soprastanti all’Opera del Duomo (“che sia obligato decto maestro Luca a pegnere le tre facciate de decta capella […] et storiarle secundo el disegno dato per lo maestro”). Nella cosiddetta “tegola” orvietana, databile attorno al 1504, in realtà una mattonella di terracotta dipinta su due lati (nel primo si trovano i ritratti di Luca Signorelli e di Niccolò di Angelo, il camerarius dell’ Opera del Duomo che assunse tale incarico il 1 marzo 1500, nell’altro corre un’elegante iscrizione umanistica che ricorda i meriti dei due personaggi) viene detto a chiare lettere che l’impianto delle storie è stato realizzato “perspicue” (lucidamente) tenendo a mente le sequenze narrative del Giudizio Finale (“iudicii finalis ordine”). Del resto, la tematica delle decorazioni murali era stata stabilita fin dal 25 novembre 1499, quando “magister Lucas de Cortona” era stato chiamato ad interpretare il pensiero dei “venerabiles magistros sacre pagine” senza allontanarsi dalla “materia iudicii”. Ma chi sono i “venarabiles magistros” ai quali si riferisce il documento? Le ipotesi formulate sono state molteplici: alcuni hanno tirato in ballo lo stesso Niccolò di Angelo che, d’intesa con i venerabili “magistri”, fornì all’artista, definito nell’iscrizione della “tegola”, esimio, comparabile ad Apelle per meriti, il progetto iconografico. D’altra parte Niccolò di Angelo fu un influente personaggio della storia orvietana, notaio, conservatore della pace, più volte oratore a Roma per conto del Comune, ma soprattutto camerlengo dell’Opera del Duomo nell’anno in cui il Signorelli ricevette l’incarico di completare la decorazione della cappella. Naturalmente non si escludono altre ipotesi come quella che vede nello “spectabilis vir” Giovanni Lodovico Benincasa, colui che, in veste di ascoltato superstes della Fabbrica del Duomo, nella riunione del 25 novembre 1499, prendendo solennemente la parola, invitò i convenuti a deliberare la prosecuzione dell’impresa decorativa. Del resto, Niccolò di Angelo e Giovanni Lodovico Benincasa, nel 1501, furono insieme oratores a Roma per conto della comunità orvietana.
Recentemente si è fatta strada la proposta di vedere nell’arcidiacono Antonio Albèri, di origini orvietane, il responsabile delle scelte iconografiche tradotte in pittura dall’artista cortonese. Costui, autorevole esponente della curia romana, fu legatissimo al cardinale Francesco Todeschini Piccolomini; tanto che, sull’esempio di quest’ultimo, fece costruire una libreria annessa al Duomo di Orvieto, destinata a ospitare i suoi preziosi libri. È interessante notare che la decorazione della libreria venne eseguita da un seguace di Luca Signorelli, forse su disegno dello stesso Signorelli. Laura Andreani e Alessandra Cannistrà, parlando del canonico Albèri, hanno scritto: “Il programma iconografico del ciclo decorativo signorelliano è stato oggetto di approfondite interpretazioni, facendo emergere negli studî una complessità di livelli iconologici sottesi alle immagini dovuta al contributo di personalità diverse chiamate in causa per arricchire, raffinare e articolare organicamente, in seno alla più serrata ortodossia, una materia nuova e scottante per i riferimenti alle criticità contemporanee. Nonostante l’indifferenza in proposito dei documenti, tra i nomi di frequente ipotizzati per la consulenza scientifica dei dipinti vi è quello di Antonio Albèri (circa 1423 - 1505), orvietano canonico del duomo e arcidiacono, che per le proprie vicende professionali divise la sua esistenza tra Perugia, Siena, Roma e Orvieto, sempre coltivando i suoi interessi culturali e accumulando, con vocazione umanistica, un consistente numero di libri”. Laureato in utroque, Albèri strinse amicizia con l’umanista Giovanni Antonio Campano e con molti altri intellettuali gravitanti intorno ai Piccolomini. Forse fu proprio lui, avendone tutte le caratteristiche, a suggerire il programma iconografico scaturito da dotte letture comprendenti, oltre ai testi vetero e neotestamentarî, Virgilio, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, sant’Agostino. Impraticabile, per ragioni di cronologia, appare la proposta di vedere nel poema di Giovanni Sulpizio da Veroli, intitolato Iudicium Dei supremi de vivis et mortuis e pubblicato nel 1506, la traccia a cui dovette ispirarsi Luca Signorelli che iniziò a decorare la cappella nel 1499 sulla base di un “libretto” precedentemente concordato. Molto più facile è vedere nell’opera di Giovanni Sulpizio una derivazione dalla summa teologico-dottrinale messa in atto da Signorelli.
Attribuita a Luca Signorelli, Tegola di Orvieto (1504 circa; affresco su lastra in laterizio, 32 x 40 cm; Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo) |
Veduta della Cappella di San Brizio |
Luca Signorelli, Il Finimondo (1499- 1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, La predica dell’Anticristo (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, La Resurrezione dei corpi (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, Empedocle (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
La lettura degli affreschi signorelliani inizia con la lunetta raffigurante la Predica dell’Anticristo. Sopra un podio l’Anticristo, che ha un volto vagamente somigliante a quello di Cristo, ascolta le parole del Demonio traendone ispirazione per la sua predica. Diversi sono i nuclei narrativi che si dipanano entro un arioso contesto paesistico. Un gruppo di personaggi vanitosamente assemblati intorno all’Anticristo e attenti più a esibire le loro sgargianti divise che a concentrarsi sull’ imminente allocutio, occupa il primo piano. Il piano leggermente più arretrato è riservato a un gruppo di frati, appartenenti a vari ordini, che discettano sulle sacre scritture. Uno di loro sta indicando la caduta dell’Anticristo colpito dalla spada dell’angelo vendicatore. È la giusta punizione riservata al falso profeta e ai suoi seguaci che diffondono in ogni luogo morte e distruzione: sullo sfondo un uomo, trascinato da sgherri feroci, viene condotto al supplizio; un altro, alla presenza dell’Anticristo, sta per essere decapitato; anche il proscenio è occupato da episodî di cruda sopraffazione. In mezzo a tanta cieca violenza, colpisce la figura dell’ebreo che si accinge a saldare il suo debito con una bella peccatrice. Il racconto, che si svolge all’interno di uno spazio non ordinato da leggi prospettiche, appare, come in Pintoricchio, frammentato e dispersivo, organizzato su più fuochi visivi.
Ma cosa nasconde questa rappresentazione, che prelude alla fine del mondo e alla nascita di una nuova realtà dove i deboli troveranno il riscatto e i giusti la beatitudine eterna? È ormai opinione diffusa che la grandiosa figurazione orvietana faccia riferimento a un momento storico di evidente difficoltà della Chiesa, quello coincidente con il papato di Alessandro VI Borgia e con le drammatiche vicende che sul finire del Quattrocento portarono alla condanna e all’uccisione di Girolamo Savonarola. Al di là delle ipotesi formulate, non sempre sostenute da adeguate ricostruzioni di contesto, sembra ancora attuale quanto ha scritto nel 1964 Pietro Scarpellini, insuperabile interprete dell’universo pittorico signorelliano: “ed il programma iconografico venne messo a punto in una situazione torbida e drammatica. Sembra difatti molto probabile che gli ispiratori (teologi od umanisti, orvietani o romani di Curia) l’avessero stabilito sotto l’incalzare delle vicende più recenti. Siamo appunto nell’anno 1500, anno di spasmodiche aspettative e profezie millenaristiche, le quali non mancavano di trovare conferma nella paurosa realtà quotidiana; e tra i fatti più recenti, uno non cessava di commuovere e turbare gli spiriti, la tragica, ammonitrice fine di Gerolamo Savonarola. Ora è ben verosimile che per gli orvietani papisti (e per un pittore come il Signorelli amicissimo dei Medici) il frate potesse incarnare l’Anticristo dell’Apocalisse. André Chastel, che sostiene questa tesi, porta un argomento di gran peso quando cita l’Apologia di Marsilio Ficino (scritta nel 1499) ove il Savonarola viene appunto accusato d’essere il falso profeta. Questi argomenti dunque sono già sufficienti a spiegare la presenza di due soggetti, come la Predica e fatti dell’Anticristo ed il Finimondo, tanto poco comuni in Italia”.
Ora, tornando al poema figurato di Signorelli, la storia dell’Anticristo anticipa e prefigura la fine del mondo, abilmente rappresentata dall’artista nello spazio esiguo che si trova attorno all’arcone di accesso alla Cappella. Qui, continua Scarpellini, “Luca vuol farci paura; e non tanto col gruppo a destra dell’arcone ove il soldataccio a gambe divaricate, la donna invasata, il vecchio sapiente fanno sfoggio delle solite pose declamatorie, quanto nell’episodio di sinistra nel quale i protagonisti vorrebbero addirittura pioverci sulla testa. Un torrente di torsi, di teste, di braccia, di gambe che entra in cappella, una fiumana urlante che vuol travolgerci nel suo stesso folle terrore”. Da una specie di oblò, che si apre fra le esuberanti decorazioni a grottesca dello zoccolo, si sporge, per assistere all’evento da lui stesso annunciato, il filosofo presocratico Empedocle convinto sostenitore del fatto che sotto l’azione dell’Odio, che riesce a separare dallo Sfero perfetto e beante le quattro radici primordiali, cioè l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria dando origine al cosmo e alle creature viventi, deve seguire il ciclo dell’Amore.
Il concetto, sviluppato e perfezionato dal mondo cristiano, vede come tappa fondamentale del percorso di salvazione il Giudizio Universale, cui segue la Resurrezione dei corpi e la Separazione dei reprobi dagli eletti. In questo discorso si inserisce perfettamente il mondo immaginato nella Commedia dantesca e tenuto a mente in alcuni fondamentali passaggi del ciclo orvietano; un ciclo di grande modernità con il quale il “cortonese Luca de ingegno et spirto pelegrino”, così definito con acuta intelligenza da Giovanni Santi, padre di Raffaello, «aperse alla maggior parte degli artefici la via all’ultima perfezione dell’arte»; quest’ultima frase, posta da Giorgio Vasari a conclusione della biografia di Signorelli, vuole alludere all’importanza che gli affreschi di Orvieto rappresentarono per il mondo dell’arte contemporanea e precipuamente per Michelangelo, il cui Giudizio Universale fu concepito, in analogia con quello orvietano, per dare una solenne, monumentale risposta al travaglio attraversato dalla Chiesa ortodossa negli anni trenta del Cinquecento.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 5 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.
Luca Signorelli, gli affreschi della Cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto Gli affreschi che Luca Signorelli (Cortona, 1445/1450 - 1523) dipinse nel Duomo di Orvieto, all’interno della cappella Nova (o cappella di San Brizio) sono uno dei vertici dell’arte Rinascimentale: opera forte che ancora oggi lascia questioni aperte sul suo significato. 1296;1715;1309L’Opera del Duomo di Orvieto, dopo una serie di tentativi che si scalano nell’arco di mezzo secolo, trova finalmente in Luca Signorelli l’artista adatto a rivestire di pitture murali la cappella Nova o di San Brizio. La porzione della volta, affrescata da Beato Angelico nel 1449 e lasciata dallo stesso incompiuta, sarà così inclusa nella moderna figurazione del pittore cortonese. Corre l’anno 1499 e la decorazione della Cappella può riprendere il suo corso fino al completamento avvenuto nel 1504. Lo stacco tecnico e stilistico tra le due fasi è indubbiamente forte. Lo si apprezza o con l’uso di un buon binocolo o da un esame ravvicinato delle superfici dipinte. Io che ebbi la fortuna di salire sui ponteggi quando il restauro degli anni Novanta era ancora in corso, ebbi modo di apprezzare il modo di procedere dell’Angelico, fedele alla tradizione della bottega rinascimentale e basato sulla puntuale trasposizione dei cartoni, da quello di Signorelli, molto più sciolto e sostanzialmente svincolato dal rispetto delle regole di bottega. È incredibile come l’artista riesca a progettare di getto, semplicemente facendo ricorso a una punta metallica con cui incide la superficie dell’intonaco fresco. Questo modo di procedere rende le sue figurazioni fresche e vibranti, piene di imprevedibili effetti.
Non sappiamo quale fosse il programma iconografico-iconologico al quale Beato Angelico avrebbe dovuto rispondere dando veste colorata al pensiero e al dettato di qualche dotto teologo. A tale proposito possiamo chiederci se Luca Signorelli abbia seguito il programma messo a punto alla metà del Quattrocento o abbia tradotto in pittura un nuovo progetto. Non è facile rispondere. Certo è che il trascorrere di mezzo secolo può aver sostanzialmente mutato il primitivo piano figurato. D’altra parte nel contratto che l’Opera del Duomo stipula con l’artista viene detto esplicitamente che costui dovrà attenersi, per quanto riguarda i soggetti, al “disegno” elaborato dallo stesso e approvato dai soprastanti all’Opera del Duomo (“che sia obligato decto maestro Luca a pegnere le tre facciate de decta capella […] et storiarle secundo el disegno dato per lo maestro”). Nella cosiddetta “tegola” orvietana, databile attorno al 1504, in realtà una mattonella di terracotta dipinta su due lati (nel primo si trovano i ritratti di Luca Signorelli e di Niccolò di Angelo, il camerarius dell’ Opera del Duomo che assunse tale incarico il 1 marzo 1500, nell’altro corre un’elegante iscrizione umanistica che ricorda i meriti dei due personaggi) viene detto a chiare lettere che l’impianto delle storie è stato realizzato “perspicue” (lucidamente) tenendo a mente le sequenze narrative del Giudizio Finale (“iudicii finalis ordine”). Del resto, la tematica delle decorazioni murali era stata stabilita fin dal 25 novembre 1499, quando “magister Lucas de Cortona” era stato chiamato ad interpretare il pensiero dei “venerabiles magistros sacre pagine” senza allontanarsi dalla “materia iudicii”. Ma chi sono i “venarabiles magistros” ai quali si riferisce il documento? Le ipotesi formulate sono state molteplici: alcuni hanno tirato in ballo lo stesso Niccolò di Angelo che, d’intesa con i venerabili “magistri”, fornì all’artista, definito nell’iscrizione della “tegola”, esimio, comparabile ad Apelle per meriti, il progetto iconografico. D’altra parte Niccolò di Angelo fu un influente personaggio della storia orvietana, notaio, conservatore della pace, più volte oratore a Roma per conto del Comune, ma soprattutto camerlengo dell’Opera del Duomo nell’anno in cui il Signorelli ricevette l’incarico di completare la decorazione della cappella. Naturalmente non si escludono altre ipotesi come quella che vede nello “spectabilis vir” Giovanni Lodovico Benincasa, colui che, in veste di ascoltato superstes della Fabbrica del Duomo, nella riunione del 25 novembre 1499, prendendo solennemente la parola, invitò i convenuti a deliberare la prosecuzione dell’impresa decorativa. Del resto, Niccolò di Angelo e Giovanni Lodovico Benincasa, nel 1501, furono insieme oratores a Roma per conto della comunità orvietana.
Recentemente si è fatta strada la proposta di vedere nell’arcidiacono Antonio Albèri, di origini orvietane, il responsabile delle scelte iconografiche tradotte in pittura dall’artista cortonese. Costui, autorevole esponente della curia romana, fu legatissimo al cardinale Francesco Todeschini Piccolomini; tanto che, sull’esempio di quest’ultimo, fece costruire una libreria annessa al Duomo di Orvieto, destinata a ospitare i suoi preziosi libri. È interessante notare che la decorazione della libreria venne eseguita da un seguace di Luca Signorelli, forse su disegno dello stesso Signorelli. Laura Andreani e Alessandra Cannistrà, parlando del canonico Albèri, hanno scritto: “Il programma iconografico del ciclo decorativo signorelliano è stato oggetto di approfondite interpretazioni, facendo emergere negli studî una complessità di livelli iconologici sottesi alle immagini dovuta al contributo di personalità diverse chiamate in causa per arricchire, raffinare e articolare organicamente, in seno alla più serrata ortodossia, una materia nuova e scottante per i riferimenti alle criticità contemporanee. Nonostante l’indifferenza in proposito dei documenti, tra i nomi di frequente ipotizzati per la consulenza scientifica dei dipinti vi è quello di Antonio Albèri (circa 1423 - 1505), orvietano canonico del duomo e arcidiacono, che per le proprie vicende professionali divise la sua esistenza tra Perugia, Siena, Roma e Orvieto, sempre coltivando i suoi interessi culturali e accumulando, con vocazione umanistica, un consistente numero di libri”. Laureato in utroque, Albèri strinse amicizia con l’umanista Giovanni Antonio Campano e con molti altri intellettuali gravitanti intorno ai Piccolomini. Forse fu proprio lui, avendone tutte le caratteristiche, a suggerire il programma iconografico scaturito da dotte letture comprendenti, oltre ai testi vetero e neotestamentarî, Virgilio, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, sant’Agostino. Impraticabile, per ragioni di cronologia, appare la proposta di vedere nel poema di Giovanni Sulpizio da Veroli, intitolato Iudicium Dei supremi de vivis et mortuis e pubblicato nel 1506, la traccia a cui dovette ispirarsi Luca Signorelli che iniziò a decorare la cappella nel 1499 sulla base di un “libretto” precedentemente concordato. Molto più facile è vedere nell’opera di Giovanni Sulpizio una derivazione dalla summa teologico-dottrinale messa in atto da Signorelli.
Attribuita a Luca Signorelli, Tegola di Orvieto (1504 circa; affresco su lastra in laterizio, 32 x 40 cm; Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo) |
Veduta della Cappella di San Brizio |
Luca Signorelli, Il Finimondo (1499- 1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, La predica dell’Anticristo (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, La Resurrezione dei corpi (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
Luca Signorelli, Empedocle (1499-1504; affresco; Orvieto, Duomo, Cappella Nova) |
La lettura degli affreschi signorelliani inizia con la lunetta raffigurante la Predica dell’Anticristo. Sopra un podio l’Anticristo, che ha un volto vagamente somigliante a quello di Cristo, ascolta le parole del Demonio traendone ispirazione per la sua predica. Diversi sono i nuclei narrativi che si dipanano entro un arioso contesto paesistico. Un gruppo di personaggi vanitosamente assemblati intorno all’Anticristo e attenti più a esibire le loro sgargianti divise che a concentrarsi sull’ imminente allocutio, occupa il primo piano. Il piano leggermente più arretrato è riservato a un gruppo di frati, appartenenti a vari ordini, che discettano sulle sacre scritture. Uno di loro sta indicando la caduta dell’Anticristo colpito dalla spada dell’angelo vendicatore. È la giusta punizione riservata al falso profeta e ai suoi seguaci che diffondono in ogni luogo morte e distruzione: sullo sfondo un uomo, trascinato da sgherri feroci, viene condotto al supplizio; un altro, alla presenza dell’Anticristo, sta per essere decapitato; anche il proscenio è occupato da episodî di cruda sopraffazione. In mezzo a tanta cieca violenza, colpisce la figura dell’ebreo che si accinge a saldare il suo debito con una bella peccatrice. Il racconto, che si svolge all’interno di uno spazio non ordinato da leggi prospettiche, appare, come in Pintoricchio, frammentato e dispersivo, organizzato su più fuochi visivi.
Ma cosa nasconde questa rappresentazione, che prelude alla fine del mondo e alla nascita di una nuova realtà dove i deboli troveranno il riscatto e i giusti la beatitudine eterna? È ormai opinione diffusa che la grandiosa figurazione orvietana faccia riferimento a un momento storico di evidente difficoltà della Chiesa, quello coincidente con il papato di Alessandro VI Borgia e con le drammatiche vicende che sul finire del Quattrocento portarono alla condanna e all’uccisione di Girolamo Savonarola. Al di là delle ipotesi formulate, non sempre sostenute da adeguate ricostruzioni di contesto, sembra ancora attuale quanto ha scritto nel 1964 Pietro Scarpellini, insuperabile interprete dell’universo pittorico signorelliano: “ed il programma iconografico venne messo a punto in una situazione torbida e drammatica. Sembra difatti molto probabile che gli ispiratori (teologi od umanisti, orvietani o romani di Curia) l’avessero stabilito sotto l’incalzare delle vicende più recenti. Siamo appunto nell’anno 1500, anno di spasmodiche aspettative e profezie millenaristiche, le quali non mancavano di trovare conferma nella paurosa realtà quotidiana; e tra i fatti più recenti, uno non cessava di commuovere e turbare gli spiriti, la tragica, ammonitrice fine di Gerolamo Savonarola. Ora è ben verosimile che per gli orvietani papisti (e per un pittore come il Signorelli amicissimo dei Medici) il frate potesse incarnare l’Anticristo dell’Apocalisse. André Chastel, che sostiene questa tesi, porta un argomento di gran peso quando cita l’Apologia di Marsilio Ficino (scritta nel 1499) ove il Savonarola viene appunto accusato d’essere il falso profeta. Questi argomenti dunque sono già sufficienti a spiegare la presenza di due soggetti, come la Predica e fatti dell’Anticristo ed il Finimondo, tanto poco comuni in Italia”.
Ora, tornando al poema figurato di Signorelli, la storia dell’Anticristo anticipa e prefigura la fine del mondo, abilmente rappresentata dall’artista nello spazio esiguo che si trova attorno all’arcone di accesso alla Cappella. Qui, continua Scarpellini, “Luca vuol farci paura; e non tanto col gruppo a destra dell’arcone ove il soldataccio a gambe divaricate, la donna invasata, il vecchio sapiente fanno sfoggio delle solite pose declamatorie, quanto nell’episodio di sinistra nel quale i protagonisti vorrebbero addirittura pioverci sulla testa. Un torrente di torsi, di teste, di braccia, di gambe che entra in cappella, una fiumana urlante che vuol travolgerci nel suo stesso folle terrore”. Da una specie di oblò, che si apre fra le esuberanti decorazioni a grottesca dello zoccolo, si sporge, per assistere all’evento da lui stesso annunciato, il filosofo presocratico Empedocle convinto sostenitore del fatto che sotto l’azione dell’Odio, che riesce a separare dallo Sfero perfetto e beante le quattro radici primordiali, cioè l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria dando origine al cosmo e alle creature viventi, deve seguire il ciclo dell’Amore.
Il concetto, sviluppato e perfezionato dal mondo cristiano, vede come tappa fondamentale del percorso di salvazione il Giudizio Universale, cui segue la Resurrezione dei corpi e la Separazione dei reprobi dagli eletti. In questo discorso si inserisce perfettamente il mondo immaginato nella Commedia dantesca e tenuto a mente in alcuni fondamentali passaggi del ciclo orvietano; un ciclo di grande modernità con il quale il “cortonese Luca de ingegno et spirto pelegrino”, così definito con acuta intelligenza da Giovanni Santi, padre di Raffaello, «aperse alla maggior parte degli artefici la via all’ultima perfezione dell’arte»; quest’ultima frase, posta da Giorgio Vasari a conclusione della biografia di Signorelli, vuole alludere all’importanza che gli affreschi di Orvieto rappresentarono per il mondo dell’arte contemporanea e precipuamente per Michelangelo, il cui Giudizio Universale fu concepito, in analogia con quello orvietano, per dare una solenne, monumentale risposta al travaglio attraversato dalla Chiesa ortodossa negli anni trenta del Cinquecento.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 5 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.