Confesso di aver fatto un mezzo colpo quando, sfogliando l’ultimo numero della rivista scientifica Artibus et historiae (80, 2019), mi sono imbattuto in un articolo di Keith Christiansen intitolato Thoughts Regarding Two Lost Portrait Covers by Lorenzo Lotto. Keith Christiansen, Chairman della Pittura Europea al Metropolitan di New York, è uno dei massimi specialisti di arte italiana di età rinascimentale e barocca al mondo. Su Lotto aveva già pubblicato un paio di saggi sorprendenti: sull’incredibile Venere con Cupido del suo Museo e su una diversamente sconcertante Caduta dei Titani di collezione privata, dell’ultimo periodo del maestro. Ora non presenta all’attenzione della comunità scientifica alcun originale, bensì solo due copie: ma che copie, e con che storia.
Partiamo dall’inizio. Alla metà del Seicento la collezione di pittura italiana più ricca d’Europa era quella dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, con 517 opere una più formidabile dell’altra. L’aveva iniziata quando era reggente delle Fiandre, anche avvalendosi della collaborazione del pittore David Teniers il giovane. Quando tornò a Vienna, nel 1656, era così fiero di tale raccolta da incaricare Teniers di rappresentarlo in enormi stanze stracolme di pitture, tutte perfettamente riconoscibili (di Antonello, Bellini, Giorgione, Tiziano, Raffaello …): egli utilizzava tali tele non solo per autocelebrarsi, ma anche per farne doni di natura diplomatica (fig. 1). Volle inoltre che Teniers curasse la pubblicazione di un corposo volume illustrante 243 dipinti italiani, incisi da dodici artisti nordici a partire dal 1656, sulla base di piccoli modelli su tavola predisposti dallo stesso Teniers. Tale volume, che si intitola Theatrum pictorium, fu stampato nel 1660 e poi ancora nel 1673 e nel 1700. Spesso se ne incontrano fogli sciolti, perché venne (e ancora viene) smembrato da mercanti spregiudicati per venderne le incisioni singolarmente. Ai numeri 30 e 31 del Theatrum pictorium si incontra uno strano pendant attribuito a Correggio, di cui si specificano le misure: 3 palmi di altezza, per 2 di larghezza, corrispondenti a 60,3 x 43,7 cm (figg. 2, 3). Fortunatamente ci sono giunti anche i due corrispondenti modelletti di Teniers, sui quali si incentra lo studio di Christiansen: quello relativo alla tavola 30 si conserva alla Johnson Collection di Filadelfia, l’altro al Metropolitan (figg. 4, 5). Ovviamente, essendo state copiate incidendole su lastre di rame, le due stampe presentano le immagini in maniera speculare, ma è curioso riscontrare che in alcune delle grandi Gallerie di Leopoldo realizzate da Teniers tali pitture a volte compaiano nel verso corretto (negli esemplari del Prado, del Museo Lazaro Galdiano di Madrid e del Kunsthistorisches Museum di Vienna), altre volte in quello delle stampe (in quelli già nella collezione di Lord Brownslow a Londra e nella Pinacoteca di Monaco). Anche in tali casi viene specificata l’attribuzione a Correggio, il cui nome è iscritto sulla cornice: lo si intravede, ad esempio, nel dettaglio della Galleria di Leopoldo al Prado che qui illustro (fig. 6).
1. David Teniers il giovane, L’arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria (Madrid, Museo del Prado) |
2. Theodor van Kessel, da David Teniers il giovane (da Lorenzo Lotto), Allegoria della lussuria, incisione dal Theatrum Pictorium (1660) tav. 30 |
3. Querin Boel, da David Teniers il giovane (da Lorenzo Lotto), Allegoria della lussuria, incisione dal Theatrum Pictorium (1660) tav. 31. |
4. David Teniers il giovane, da Lorenzo Lotto, Allegoria della lussuria (Philadelphia Museum of Art, Johnson Collection) |
5. David Teniers il giovane, da Lorenzo Lotto, Allegoria della frode (New York, Metropolitan Museum of Art, Lehman Collection) |
6. David Teniers il giovane, L’arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria, particolare (Madrid, Museo del Prado) |
Come ricorda Christiansen, una svolta per il corretto inquadramento di questi dipinti si ebbe con la pubblicazione da parte di Rosella Lauber (in un saggio apparso su Venezia Cinquecento nel 2008) dell’inventario della quadreria di uno dei più importanti mercanti lagunari dell’inizio del Seicento: quel Bartolomeo della Nave che aveva saccheggiato molti palazzi veneti dei capolavori che vi erano conservati. Essa venne acquistata nel 1637-38 a Venezia dall’inglese Basil Feilding per conto di James, III marchese di Hamilton e Duglas. Era accompagnata da una lista di opere dalla quale si apprende dell’esistenza di un nucleo di quattro dipinti lotteschi, che vengono elencati in sequenza: al n. 120 una Pietà (perduta, ma di cui restano il modelletto di Teniers, al Louvre, e la stampa relativa), al n. 121 un “Ritratto d’uomo bellissimo con una Zattina d’oro in mano” (il presunto Leonino Brembate oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna), al n. 122 “La Lascivia rappresentata in Venere, Marte et Amore 2 ½ largo 1 ½ del med[esi]mo” [Lotto] e al n. 123 “La Fraude rappresentata in Circe, con un huomo dormiente, et Amore della med[esi]ma grandezza, e dello stesso Lotto”. Poiché le misure corrispondono, va da sé che si tratta dei supposti Correggio, che prima ancora (e lo si desume da un inventario della collezione di Leopoldo stilato nel 1659) erano stati creduti di Jacopo Palma il Vecchio. Se molti capolavori messi assieme da Leopoldo sono oggi ancora visibili al Kunsthistorisches Museum, altri furono alienati: e fu la sorte che toccò anche a questo pendant. L’ultima informazione di cui disponiamo è che una delle due tele (non sappiamo quale) alla fine del XIX secolo si trovava nella raccolta Péteri a Budapest, dove era considerata della cerchia di Annibale Carracci.
Come evidenziato anche da Jeremy Wood in un saggio sulla raccolta di Bartolomeo della Nave apparso nel volume 80 della “Walpole Society” (2018), i due quadri compongono un continuum narrativo. Nella tavola ora a Filadelfia appare Venere in camera da letto, in attesa di Marte, che vi è condotto da Cupido, come si vede nella finestra aperta. Dopo essersi lavata e profumata, la dea si stava pettinando quando una colomba si è posata di fronte allo specchio, allungando il becco per tubare con il suo stesso riflesso: un unicum iconografico, che allude all’imminente connubio amoroso. Nell’altro quadro vediamo Marte addormentato a letto, con la donna clamorosamente invecchiata: dopo aver svolto alcune pratiche magiche, utilizzando il volume e gli oggetti posati a terra, ella ordina a Cupido di andare a colpire un nuovo possibile amante, visto lo sconfortante disinteresse da parte di Marte. Secondo Christiansen, che colloca l’esecuzione dei due originali in un arco cronologico molto ampio (tra il 1525 e il 1542), probabilmente si trattava delle coperture di un doppio ritratto di coppia, realizzato allo scopo di richiamare nei due coniugi la consapevolezza dell’inevitabile decadimento fisico (e del desiderio) che li attendeva col prosieguo degli anni.
Confesso di non aver mai visto nulla del genere nella pittura italiana del primo Cinquecento. Sapere che furono realizzati prima del 1556 della morte dell’artista è a dir poco spiazzante. Se fosse giunto fino a noi, e magari in buono stato, questo pendant avrebbe la stessa importanza storico-culturale dell’Allegoria dell’amore e della frode di Bronzino alla National Gallery di Londra.
Ma ciò che rende ancor più straordinarie e quasi incredibili le due scene, sono le ambientazioni e le ‘nature morte’ in esse rappresentate. Al di là del fatto che le descrizioni di interni sono rarissime nella pittura italiana del ‘500 (al contrario di quel che si registra nei Paesi Bassi e nelle Fiandre), e quindi che entrare in due camere da letto veneziane di questi anni è un’opportunità quasi unica, sono proprio gli oggetti descritti uno a uno dall’artista a sorprenderci (figg. 7, 8). Nella prima vediamo un grande bacile in ceramica bianco e blu, ispirato alla porcellana cinese, dove è stato buttato il drappo con cui la dea si è asciugata dopo le abluzioni; sotto sta il catino in cui si è lavata i piedi e intorno tante boccette di profumo con cui inebrierà l’impetuoso Marte che sta per irrompere nella camera. Nella seconda invece il primo piano mostra un diagramma segnato a terra, con alcuni cerchi magici, un braciere con la fiammella accesa, un osso con una corda annodata, un compasso, un coltello e un libro cabalistico aperto. Ora, noi sappiamo con certezza che fin dalla sua prima attività Lorenzo Lotto era stato in contatto con umanisti-alchimisti, il più famoso dei quali era il riminese Giovanni Aurelio Augurello, del quale a Treviso (verso il 1505-06) aveva realizzato un ritratto con copertura. Su tale dimensione della cultura del pittore ha scritto un volume densissimo, poco prima di morire, una delle più note specialiste del maestro, Francesca Cortesi Bosco (Viaggio nell’Ermetismo del Rinascimento. Lotto Dürer Giorgione, Il Poligrafo, 2016). Ma da lì a immaginare una cosa del genere …
7. David Teniers il giovane, da Lorenzo Lotto, Allegoria della lussuria, particolare (Philadelphia Museum of Art, Johnson Collection) |
8. David Teniers il giovane, da Lorenzo Lotto, Allegoria della frode, particolare (New York, Metropolitan Museum of Art, Lehman Collection) |
Ecco dunque che anche due copie possono imprimere una svolta nella conoscenza di un antico pittore che negli ultimi decenni ha conosciuto una fortuna sempre più ampia, non solo per le sue altissime qualità tecniche, ma anche per il grado di originalità creativa esibita. Ammetto di essere sempre stato piuttosto scettico leggendo analisi di tipo alchemico e magico relative alla sua produzione; ma a questo punto va da sé che egli queste pratiche le conosceva bene, aveva i testi tra le mani, sapeva che si usavano comunemente in determinate situazioni, come quelle per richiamare la persona amata…
Più nel dettaglio, il circolo disegnato per terra è un pentacolo, molto simile a quelli che si ritrovano nelle documentazioni conservate nei processi del Sant’Uffizio, come mi fa osservare Federico Barbierato, autore di uno studio fondamentale su tali tematiche per l’area lagunare (Nella stanza dei circoli. Clavicula Salomonis e libri di magia a Venezia nei secoli XVII e XVIII, Milano, Bonnard 2002) (figg. 9-10). Tra gli strumenti utilizzati per l’evocazione vi erano stiletti, punteruoli e arnesi di tal fatta: ciò spiega la presenza in primo piano nel quadro di un coltello. L’osso connota indubbiamente la scena come negromantica: di solito veniva usato un teschio (e lo si vede bene in alcuni dipinti veneziani successivi di Pietro della Vecchia e di Giuseppe Heintz il giovane: non a caso, l’autore a cui Pigler aveva attribuito il quadro del Metropolitan), ma il significato è il medesimo. Il piccolo braciere probabilmente conteneva cera rossa, abitualmente utilizzata per costruire piccole statue utilizzate con finalità che oggi definiremmo di tipo voodoo. Su un episodio di questo tipo Guido Ruggiero scrisse un saggio in un volume di Quaderni storici del 1987, in cui raccontò la storia di quella trovata nel maggio del 1588 nel duomo di Feltre, che simulava un uomo nudo, con “fissi molti aghi in tutte le parti di detta statua, massime negl’occhi, nelle tempie, nelle parti del core, et nel membro virile”: era stata confezionata da una certa Elena, su consiglio di una fattucchiera, per cercare di farsi sposare dall’amato che l’aveva lasciata. Come mi ricorda Silvia Gazzola, inoltre, il pentacolo si ritrova pure nel Negromante di Ariosto, dove il protagonista della commedia, ovviamente un impostore, viene chiamato per risolvere la (finta) impotenza di uno dei protagonisti. Per questo, nel quadro di New York, dopo aver fatto il suo sortilegio, la donna sprona Cupido a utilizzare arco e freccia, sapendo bene che tutto quello che doveva fare per conseguire un nuovo compagno prestante, era stato fatto.
9. Archivio di Stato di Venezia, busta 95, processo contro fra’ Francesco Balbi: pentacoli e caratteri magici da una Clavicula Salomonis della prima metà del Seicento |
10. Archivio di Stato di Venezia, busta 9, processo contro Francesco Viola: rappresentazioni di alcuni spiriti secondo una Clavicula Salomonis ad sciendum secreta secretorum della prima metà del Seicento |
Sono davvero tanti gli interrogativi che ci si può porre di fronte a queste due invenzioni: la data di esecuzione degli originali (non risultano citati nel Libro di spese diverse, che registra i lavori a partire dal 1540), la committenza (la stessa degli altri due quadri venduti da Bartolomeo della Nave?), l’effettiva funzione (non ci giurerei sul fatto che costituissero le coperture di due ritratti), il richiamo alla produzione letteraria (il tema dell’invecchiamento della bella donna è assai diffuso anche nella lirica coeva) ecc. Si entrerebbe così però nel campo delle congetture e degli approfondimenti specialistici, e non è certo questa la sede per farlo.
Vorrei però chiudere con un’ultima riflessione, relativa al destino dei due dipinti. Ma davvero sono andati perduti? Non è che sulla parete di qualche casa o bottega (ungherese o di chissà dove), stanno appesi due strani (e magari sporchi) dipinti attribuiti alla cerchia di Annibale Carracci che attendono da quasi quattro secoli di essere riconosciuti nella loro paternità?