Pochi artisti seppero donare a un’opera un tocco d’innovazione e di libertà espressiva come Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 – Loreto, 1556/1557). Lo si nota chiaramente nell’Adorazione dei pastori conservata alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, in cui a catturare immediatamente lo sguardo dell’osservatore è quel gesto insolito e spontaneo che lega Gesù Bambino all’agnello sorretto da un pastore. Quella che Lotto raffigura sulla tela non è la consueta scena che vede tutti in adorazione del Bambin Gesù: qui il pittore infatti ha voluto mettere l’osservatore di fronte a una scena che mostra la nascita del Bambinello ma che allo stesso tempo anticipa il tema della Passione, utilizzando una serie di escamotage e di originali soluzioni compositive scaturiti dalla mente di un artista a dir poco anticonvenzionale, ma ancora oggi talvolta sottovalutato.
Siamo nel 1530, nel periodo maturo della sua produzione artistica e nel corso del suo secondo soggiorno veneziano, dopo il suo ritorno dalle Marche. Quest’Adorazione dei pastori è ambientata all’interno di una capanna. Sotto a un arco si scorge una finestra con l’anta aperta e il vetro diviso in quattro parti per richiamare la croce, mentre il varco aperto sulla sinistra rende visibile uno scorcio di cielo rischiarato da bagliori dorati e la tettoia esterna della capanna costruita con travi di legno. Nonostante le due aperture sul fondo, la luce che illumina quasi l’intera composizione sembra arrivare frontalmente e in maniera centrale le figure più illuminate risultano infatti quelle in primissimo piano, degradando sempre più fino alla penombra in cui sono avvolti il bue e l’asinello; il primo si confonde quasi con la parete della capanna, del secondo se ne vede la sagoma, con le sue lunghe orecchie, in controluce perché davanti all’uscio. La luce rischiara i volti e le vesti della Madonna e dei pastori, nonché il corpicino del Bambino disteso sul drappo bianco e su parte della veste e del manto della Vergine. Più in ombra sono i volti e le lunghe ali degli angeli e il volto di san Giuseppe. Tutti i personaggi sono assorti, in contemplazione di quel piccolo esserino che allunga le braccia all’indietro per accarezzare il dolce musetto dell’agnellino, con cui stabilisce subito un rapporto di empatia. Tutti tranne l’angelo al centro dell’arco, il quale sta guardando verso l’osservatore per renderlo partecipe della scena. Una scena silenziosa e ovattata in cui l’unico slancio è rappresentato dal gesto del Bambin Gesù, in contrapposizione a tutto il resto che è fermo.
Il Bambino è posto in una grande cesta di vimini di forma rettangolare piena di paglia, che accoglie la Madonna inginocchiata al cospetto di suo figlio. Ha le mani giunte in segno di preghiera, il volto chinato verso di lui ed è avvolta in panneggi molto ampi che le ricadono dal capo; in particolare il manto blu che prima le copre le spalle, poi le braccia e infine fa da base al panno bianco su cui è riposto Gesù. Dietro di lei san Giuseppe, di profilo, vigila sulla scena. In posizione simmetrica alla Madonna sono raffigurati i due pastori, concentrati nelle espressioni dei loro visi, e quello più in primo piano, come già affermato, sorregge l’agnello da sotto la pancia e con l’altra mano gli accarezza il dorso, porgendolo in dono al Bambino. Dietro ai pastori, stanno due angeli, dalle lunghe ali e dalle vesti azzurre e dorate di seta, che accompagnano i primi appoggiando le mani sulle loro spalle, in segno di protezione ma anche di incoraggiamento. Per dirlo con le parole di Roberto Longhi, la composizione ricorda le sue sacre conversazioni trasformate in “una riunione confidenziale che accomuna sullo stesso terreno e distribuisce la stessa indole ai personaggi divini e umani”.
Contrariamente a quanto appaia dalle casacche di panno marrone scuro e marrone chiaro, i due pastori appartengono a un elevato ceto sociale: sotto alle casacche infatti indossano camicie bianche con colletti e polsini arricciati, farsetti di velluto nero e braghe “frastagliate” e calze violette fermate al ginocchio da nastri azzurri. L’abbigliamento da nobili alla moda del Cinquecento è qui appositamente camuffato da umili casacche da pastore per rendere più umile la scena sacra. La somiglianza nei volti fa presupporre che i due pastori siano consanguinei o addirittura fratelli e sulla base di questo, oltre che ai tratti fisionomici da persone reali, si è ipotizzato che questi abbiano i volti dei committenti del dipinto: o dei fratelli Baglioni di Perugia o dei fratelli Gussoni di Venezia, comunque sia nobiluomini. Nel 1824 il commerciante e antiquario Giovanni Querci scrive al conte Paolo Tosio, con cui intratteneva stretti rapporti, per proporgli la vendita del dipinto in questione “fatto per i conti Baglioni di Perugia”: arrivò proprio così nella collezione di Paolo Tosio, a cui si deve la nascita della Pinacoteca Tosio Martinengo, che ebbe origine infatti dalle collezioni di dipinti, disegni, stampe e sculture e oggetti d’arte che il conte volle donare al Comune di Brescia nel 1832, “onde siano conservati perpetuamente in Brescia stessa a pubblico comodo”, come si legge nel suo testamento redatto in quell’anno, ma diventato esecutivo nel 1846 dopo la scomparsa della moglie Paolina. Se nel 1824 tuttavia si faceva riferimento ai conti Baglioni, solo due anni più tardi, nel 1826, si fa riferimento per la prima volta nella Nuova Guida di Paolo Brognoli, ai fratelli Gussoni di Venezia.
Tra gli intrecci del vimini della cesta è stata scoperta, in occasione del restauro del dipinto negli anni Duemila, la firma autografa e la data “L.Lotus 1530”: in quell’anno Lorenzo Lotto soggiornava a Venezia e questo ha indirizzato gli studiosi verso una committenza veneta; qui l’artista era famoso come ritrattista e la famiglia Gussoni (i probabili committenti) possedeva dipinti e proprietà di notevole rilevanza. La riconducibilità ai fratelli Gussoni di Venezia resta tuttora un’ipotesi, poiché non si ha ancora alcuna certezza in merito.
Ancora sconosciuta è anche l’antica provenienza del dipinto: dalle dimensioni e dall’intimità della scena si ritiene ad ogni modo che sia di destinazione privata, da cappella di palazzo. Sappiamo però che entrò nella collezione del conte Paolo Tosio grazie al suo acquisto avvenuto tra il 24 agosto 1824 e il 5 gennaio 1825 e che egli collocò l’opera sul camino della sua casa nella sala a mattino vicino a due ritratti di Giovan Battista Moroni e alla Vergine annunciata di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto.
Merita alcune riflessioni la figura della Madonna. Inginocchiata a terra dentro la cesta dove è posto anche il Bambino, la Vergine rispecchia l’iconografia della Madonna dell’Umiltà, che si diffuse dall’inisio del XIV secolo: non è infatti rappresentata in trono, bensì a terra in segno appunto di umiltà (dal latino humus, terra). Inoltre nell’anulare della mano destra indossa un anello: questo potrebbe essere un riferimento al Santo Anello, ovvero l’anello nuziale che secondo la tradizione san Giuseppe avrebbe donato a Maria per il loro matrimonio. Il monile oggetto di devozione (sul quale nel 2004 è stata compiuta un’analisi gemmologica che l’ha riconosciuto come calcedonio) è custodito in una cappella della Cattedrale di Perugia ed è protetto da ben due casseforti per la cui apertura sono necessarie quattordici chiavi.
La particolarità di questo dipinto è data tuttavia dalla presenza di elementi che rimandano al futuro sacrificio di Cristo: la serenità della nascita è ombreggiata dunque dal suo destino. Per prima cosa dall’agnellino che il pastore gli offre in dono e che il Bambin Gesù accarezza sul muso: è una chiara allusione al sacrificio pasquale (“Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” Gv 1, 29), compiuto da Cristo per salvare gli uomini. Allude invece a Gesù crocifisso e quindi alla Passione la croce creata dalla divisione in quattro parti del vetro della finestrella sotto all’arco, mentre la cesta di vimini ha un forma rettangolare a ricordare un sarcofago.
Questa dualismo di nascita e sacrificio è presente anche in un’altra opera di Lorenzo Lotto, conservata alla National Gallery of Art di Washington: la Natività firmata e datata “L.Lotus 1523”. Se in primo piano sono inginocchiati in adorazione del Bambino sia la Madonna che san Giuseppe (solitamente san Giuseppe è raffigurato in piedi e più in disparte rispetto alla Madonna che è sempre vicina al figlio) e tre angioletti in volo intonano la melodia di uno spartito che sorreggono tutti insieme, nella parte più in ombra è appeso un crocifisso, a rivelare all’osservatore il destino di quel Bambino che ora disteso in una cesta di vimini agita le braccia e i piedi in segno di vitalità. E anche il legno a terra su cui l’artista ha posto firma e data è da leggere sia come rimando al legno della croce sia al mestiere di falegname di san Giuseppe.
In entrambi i dipinti Lorenzo Lotto è capace di espedienti e di suggestioni che attestano la sua originalità e la sua costante ricerca di composizioni nuove, che attraggono tuttora lo sguardo di chi osserva una sua opera. In particolare, nell’Adorazione dei pastori della Pinacoteca Tosio Martinengo crea una scena intima e densa di simboli, popolata di vari personaggi liberi nelle loro pose. Un dipinto delicato dove l’umano e il divino convivono in segno dell’umiltà del Natale.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.