Il primo documento che attesta il rapporto tra il grande pittore Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 - Loreto, 1557) e la città di Jesi, centro dove si conservano ben cinque importanti capolavori lotteschi, è un contratto datato 27 ottobre 1511: in quella data, l’artista s’impegnava a eseguire, per la confraternita del Buon Gesù, una pala d’altare che era stata affidata nel 1508 a Luca Signorelli (Cortona, 1445/1450 - 1523) e ch’era destinata alla cappella della confraternita nella chiesa di San Floriano. All’epoca, Jesi era una delle città più importanti della Marca d’Ancona, una sorta di provincia dello Stato Pontificio: Lorenzo Lotto si era recato nella Marca per la prima volta nel giugno del 1506, soggiornando a Recanati. Si trattava di un territorio prospero, la cui economia era fondata da un lato sull’agricoltura e dall’altro sui fiorenti commerci internazionali (che avevano snodi fondamentali nel porto di Ancona e nelle fiere di Fermo e Recanati: quest’ultima, in particolare, era la più frequentata di tutto lo Stato Pontificio), che godeva di una certa autonomia da Roma (le città non di rado avevano proprî statuti), e i cui centri religiosi, in particolare il santuario di Loreto, rivestivano ulteriore importanza economica. Non sappiamo bene come Lorenzo Lotto fosse entrato in contatto con le Marche, lui che nel 1506 era attivo a Treviso: tuttavia, dal momento che Recanati era uno dei poli commerciali più significativi dell’Italia centrale e dal momento che molti veneziani commerciavano in zona, è probabile che il legame fosse maturato in questo contesto. È del tutto probabile che Lorenzo Lotto sia stato notevolmente allettato dal compenso che i domenicani recanatesi gli offrirono per il polittico da installare nella locale chiesa di San Domenico (oggi conservato ai Musei Civici di Villa Colloredo Mels): 700 fiorini, una somma molto elevata, specialmente se consideriamo che corrisponde a sette volte la paga che l’anno prima venne accordata a Luca Signorelli per la Deposizione di Matelica. Una cifra che attesta il benessere della città che si preparava a ospitare il pittore veneto.
Lotto inizialmente pensò di non fermarsi a lungo, dal momento che, tornato per qualche tempo a Treviso nell’autunno del 1506, si accordò col locatore della sua abitazione affinché tenesse libera la casa per quando sarebbe rientrato, una volta terminato il lavoro nelle Marche. Sappiamo però che le cose andarono diversamente e che Lorenzo Lotto ebbe con le Marche una relazione molto profonda, tanto da tornarvi per altri tre soggiorni, e l’ultimo fu quello definitivo, dal momento che l’artista si spense a Loreto nel 1557. Il secondo dei quattro soggiorni, cominciato nel 1509 e trascorso ancora a Recanati, fu quello in cui Lorenzo Lotto venne per la prima volta ingaggiato per un lavoro a Jesi: non sappiamo se in quell’occasione l’artista si fosse recato effettivamente in città o se avesse eseguito l’opera a Recanati, e poche sono anche le informazioni sulle circostanze che portarono la confraternita del Buon Gesù ad affidargli la Deposizione. Sappiamo che lui e Signorelli si conoscevano di persona (nel 1510 l’artista veneziano era stato a Roma, nel cantiere delle Stanze Vaticane: fu lì che conobbe il cortonese), ed è possibile sia stato lo stesso Signorelli a segnalare Lorenzo Lotto dopo aver rifiutato il lavoro, probabilmente perché non riuscì a farsi carico dell’opera che gli era stata assegnata (sebbene non lo sappiamo con certezza).
L’incarico toccò dunque a Lorenzo Lotto, che in pochi mesi portò a termine la sua pala centinata, alta quasi tre metri, e suddivisa in due registri nettamente separati: in alto il paesaggio collinare, con a destra il Golgota su cui svettano le tre croci (quella di Gesù con le scale appoggiate, le altre con ancora i due ladroni appesi), e a sinistra i declivi che digradano verso l’orizzonte. In basso, la scena della deposizione di Cristo, che viene calato nel sepolcro di marmo, posto in diagonale, per mezzo di un lenzuolo sorretto a fatica da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea (Nicodemo si aiuta tenendo un lembo tra i denti: le invenzioni di Lorenzo Lotto rivelano sempre dettagli bizzarri e inaspettati), mentre attorno è palpabile la disperazione della Madonna che alza le braccia al cielo, di san Giovanni dietro di lei che ripete il solito gesto, e della Maddalena al lato opposto del sepolcro, che per l’ultima volta accarezza la mano di Cristo. La composizione ha debiti evidenti nei confronti della Deposizione che Raffaello dipinse appena cinque anni prima per Atalanta Baglioni (oggi l’opera è alla Galleria Borghese): l’idea del corpo di Cristo sospeso sul lenzuolo, il braccio destro che scende verticale, la fatica di quanti lo reggono, il paesaggio con le croci in alto a destra, sono tutti elementi mutuati dal dipinto che l’urbinate eseguì per la nobile famiglia di Perugia. Tanto che, in un suo recente saggio, Alessandro Delpriori ha definito la Deposizione di Jesi come “un manifesto del raffaellismo più osservante, a partire dall’apertura del paesaggio alle spalle del gruppo sacro”, e con la “concitazione delle figure e il loro ritmo espressivo” che si configurano come elementi “pienamente raffaelleschi con inserti di ‘terribilità’ nelle muscolature, nei volti corrucciati che presuppongono la volta della Sistina”.
Lorenzo Lotto alla Pinacoteca Comunale di Jesi. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Lorenzo Lotto alla Pinacoteca Comunale di Jesi. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Lorenzo Lotto, Deposizione (1512; olio su tavola, 298 x 198 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Raffaello, Deposizione Borghese (1507; olio su tavola, 174,5 x 178,5; Roma, Galleria Borghese) |
Per l’opera, Lorenzo Lotto ottenne un compenso di 125 ducati, 25 in più di quelli che erano stati concordati inizialmente a Luca Signorelli (il cui contratto però includeva anche il vitto e l’alloggio a Jesi, mentre dal documento sottoscritto da Lorenzo Lotto manca questa condizione, e le spese erano pertanto a suo carico): l’artista onorò in tempi rapidi l’incarico, dal momento che il dipinto, già nel 1512, poté essere installato nella chiesa di San Floriano (oggi invece, come tutti i dipinti che Lotto eseguì per Jesi, è conservato nella Pinacoteca Comunale della città marchigiana, dove fu trasferito nel 1949, prima nei locali di Palazzo della Signoria e poi in quelli di Palazzo Pianetti). Si tratta di un dipinto di grande importanza nella carriera dell’artista veneto perché, assieme ad altre opere del periodo (come l’imponente Trasfigurazione di Recanati, del 1511 circa), segna il suo massimo avvicinamento a Raffaello, a pochi mesi dal ritorno da Roma, dove evidentemente Lotto rimase impressionato dalle opere dell’urbinate: lo storico dell’arte Pietro Zampetti, grande esegeta di Lorenzo Lotto, afferma che, con la Deposizione, il veneziano abbandona ogni retaggio quattrocentesco per abbracciare in tutto e per tutto il nuovo secolo. E poi, la forte resa emotiva del quadro (il pianto della Maddalena, gli sguardi di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, la disperazione della Vergine e di san Giovanni) hanno portato alcuni studiosi a stabilire relazioni con la maniera toscana di artisti come il Sodoma e Domenico Beccafumi, anch’essi attivi a Roma al tempo in cui Lorenzo Lotto visitò la capitale dello Stato della Chiesa.
Trascorse qualche anno prima che l’artista tornasse a lavorare per Jesi, ma i rapporti poi s’infittirono: l’11 dicembre del 1523 Lorenzo Lotto è testimoniato in città, dove avvenne la stipula del contratto con la confraternita di Santa Lucia per la realizzazione della pala d’altare del sodalizio, anch’essa destinata alla chiesa di San Floriano, dietro compenso di 220 ducati. Con tutta probabilità, a facilitare i contatti dell’artista con Jesi fu Balsarino Marchetti, un mercante bergamasco (Lotto, negli anni Venti, risiedeva infatti a Bergamo), che aveva interessi a Jesi, e nella città della Marca possedeva anche una casa: Marchetti ebbe anche ruolo di procuratore dell’artista nelle pratiche burocratiche collegate al nuovo lavoro per la chiesa di San Floriano, ed è interessante sottolineare come, peraltro, Lorenzo Lotto ebbe modo di conoscere il mercante, ipotizza la studiosa Francesca Coltrinari, alla fiera di Recanati, durante il suo primo soggiorno marchigiano. Il lavoro, tuttavia, andò per le lunghe (la Pala di Santa Lucia sarebbe stata consegnata ai confratelli solo nel 1532, come attesta la data che il pittore appose sull’opera, quando era stata pattuita la consegna per il 1525), e nel frattempo l’artista attese ad altri lavori. Uno di questi è il trittico (o forse il polittico) da cui provengono le due tavole con l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata che costituiscono due vertici della produzione lottesca. L’arcangelo Gabriele è colto in volo, con la veste d’un cangiante azzurro tenue, a maniche corte, e legata in vita con una sola cintura giallo pallido, che svolazza in tutte le direzioni: la creatura divina incede con la gamba sinistra, la destra è piegata, e il busto è in torsione, col risultato che il volto è girato di profilo (i capelli castani, lumeggiati di biondo, sono anch’essi mossi dal vento). Col braccio sinistro tirato indietro sorregge un giglio, trattenendolo delicatamente con pollice e indice, mentre il destro è piegato e rivolto verso Maria per salutarla. Lei è come distolta di soprassalto dalla lettura: possiamo immaginarla mentre viene interrotta all’improvviso e balza all’indietro con uno scatto, togliendo la gamba sinistra dall’inginocchiatoio e rimanendo in bilico, in equilibrio precario sulla destra, mentre porta indietro le braccia mostrando i palmi in segno di stupore, e rivelando un’espressione che manifesta al contempo timore e sorpresa. Il pesante mantello blu cade e lascia scoperta tutta la veste rossa piegata all’altezza del seno, e il velo bianco che lascia intravedere una capigliatura castana, pettinata con una scriminatura al centro.
A proposito di queste due tavole, collocate dalla critica al 1526 circa, il grande storico dell’arte Bernard Berenson ha scritto che qui “l’umanità di Lotto diventa più profonda e più raffinata”: questo perché la vitalità che promana da questo intenso dipinto, che cattura un momento e che denota una grande partecipazione dell’artista, una partecipazione che forse è anche emotiva (elemento, questo, che del resto è in linea con ampia parte della produzione di Lorenzo Lotto), dimostra che l’artista ha meditato sul testo del Vangelo di Luca cercando di rendere il racconto in modo empatico, e producendo in questo modo una delle immagini dell’Annunciazione più vivide, più originali (la novità dell’angelo sospeso in volo e colto un istante prima di toccare terra è una delle tante invenzioni dell’artista) e più riconoscibili di tutto il Cinquecento. Con questi pannelli, sottolineava la grande storica dell’arte Anna Banti, “vediamo inaugurata una formula di compromesso che diventa evasione: felice evasione dai corollarî di una conoscenza ormai acquisita e meditata sulla possibilità di interpretare gli aspetti per incidenza di raggio luminoso e soltanto per quella”. Quanto allo stato attuale delle due tavole, come detto si tratta di quanto ci rimane di un precedente polittico: la scoperta di un disegno negli anni Sessanta ha portato gli studiosi a ipotizzare che le tavole dell’Annunciazione siano quello che rimane della Pala di San Giovanni, ovvero un’opera che, si ipotizza, Lorenzo Lotto realizzò negli anni Venti. Con tutta probabilità, le due tavole sono gli scomparti laterali di una macchina che vedeva al centro una Visione di san Giovanni a Patmos, andata perduta in seguito alle requisizioni napoleoniche (fino a prima, infatti, le fonti attestano che la Pala di San Giovanni si poteva vedere, integra, nella chiesa di San Floriano). Non sappiamo che fine abbia fatto lo scomparto centrale: le tavole con l’angelo e la Vergine, invece, furono rinvenute nel 1832 nel convento di San Floriano, e poi nel Novecento trasferite prima nella Biblioteca Comunale di Jesi (dove Berenson le vide nel 1955) e poi nella Pinacoteca. A commissionare l’opera fu, probabilmente, la famiglia Ghislieri di Jesi: alcuni suoi membri ebbero rapporti con Lotto nell’ambito delle commissioni della Deposizione e della Pala di Santa Lucia.
Lorenzo Lotto, Angelo annunciante e Vergine annunciata (1526 circa; olio su tavola, 82 x 42 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Allo stesso periodo dell’Annunciazione risale la Madonna delle rose, così chiamata per via del dettaglio dei petali di rosa sparsi sul terreno (un probabile richiamo ai riti in onore della Madonna durante i quali era effettivamente usanza spargere petali di rosa), che osserviamo ai piedi del trono su cui siede la Vergine col Bambino: è una sacra conversazione, e vediamo i due protagonisti affiancati dai santi Giuseppe e Girolamo, mentre la cimasa raffigura san Francesco, colto nell’atto di ricevere le stimmate, e santa Chiara. Questo straordinario dipinto colpisce l’osservatore perché è uno dei più equilibrati della produzione di Lorenzo Lotto: le figure assumono proporzioni monumentali, occupano le loro posizioni secondo una disposizione pressoché geometrica, che non è interrotta neppure dal dettaglio del Bambino che smanaccia in direzione del padre putativo il quale, con un gesto d’affetto, rivolge i palmi verso di lui quasi per riceverlo dalla moglie (la diagonale è bilanciata, sul lato opposto, dal braccio sinistro della Vergine che, con due dita, sfiora il libro di san Girolamo, intabarrato nella sua ampia veste cardinalizia, che par quasi di qualche taglia più grande, e chino verso la Vergine, dopo essersi tolto il copricapo e averlo appoggiato con nonchalance alla base del trono (il cordino è rimasto sul piano d’appoggio del plinto). L’equilibrio è reso anche a livello cromatico, dal momento che l’intera composizione si fonda sui colori primarî (il giallo di san Giuseppe, il blu della Vergine e il rosso di san Girolamo). Il tutto coperto da una grande tenda verde che, a mo’ di sipario, si solleva da un lato e lascia intravedere, alle spalle di san Giuseppe, un roseto che, come i petali in primo piano, allude alla Madonna (la rosa, simbolo di amore e verginità, è attributo mariano per eccellenza e richiama la rosa mistica delle antiche litanie).
Da notare la varietà di rosa scelta da Lorenzo Lotto, ovvero la centifolia bianca con punte di rosso, a simboleggiare dunque da un lato la purezza della Vergine e dall’altro le gocce del sangue versato da Gesù sulla croce. La Madonna delle rose è infatti un’opera pregna di rimandi simbolici che s’evincono anche dalla studiata gestualità, come ha fatto notare Marina Massa nel catalogo della mostra Lorenzo Lotto. Il richiamo delle Marche, tenutasi a Macerata nel 2018: “a una partecipazione emotiva e coinvolgente sembra alludere, in un circuito virtuoso di affetti, la disposizione a esedra delle figure e la luce che dal roseto scivola sulla sagoma compatta di san Giuseppe, per addensarsi sulle pieghe dell’abito della Vergine e riflettersi su san Girolamo, di cui sottolinea l’espressione malinconica, carica di nefasti presagi. Gli stessi che sono racchiusi nel libro delle Sacre Scritture che stringe fra le mani e che, con gesto fermo, la Madonna impone resti chiuso, rivolgendosi invece al Bambino che, ancora ignaro, esprime in pieno tutta la sua vivace e infantile vitalità”.
Ulteriori richiami simbolici sono quelli che legano le due porzioni della pala, quella “diurna” del registro inferiore, e quella “notturna” e densa di misticismo della lunetta con san Francesco e santa Chiara: il senso del sacrificio di Gesù si rispecchia dunque in san Francesco che rivive la crocifissione ricevendo le stimmate e in santa Chiara che tiene tra le mani un ostensorio con l’ostia consacrata. I due santi della lunetta ci lasciano intuire l’ambiente entro cui l’opera nacque: la Madonna delle Rose era destinata alla chiesa di San Francesco al Monte di Jesi (e per questo è nota anche come Pala di San Francesco al Monte), e Lorenzo Lotto la eseguì su commissione dell’Ordine dei frati minori osservanti, che all’epoca stavano rinnovando la loro chiesa jesina costruita nel Quattrocento e che, sulla base di documenti che ci sono giunti, supponiamo dovessero essere i committenti diretti del dipinto. La pala lasciò l’edificio di culto nel 1866, dal momento che in quell’anno San Francesco al Monte fu chiusa al culto e le sue opere destinate a rimpinguare il primo nucleo della nascente Pinacoteca Civica. L’opera è firmata e datata (“LAURENTIUS LOTUS MDXXVI”), il che ci lascia supporre che l’artista dovette ricevere l’incarico durante la sua seconda visita a Jesi negli anni Venti, occorsa nell’aprile del 1525 al fine di riscuotere una parte dei pagamenti per la Pala di Santa Lucia.
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Lorenzo Lotto, Madonna delle Rose (1526; olio su tavola, 155 x 160 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) e Lorenzo Lotto, San Francesco che riceve le stimmate e santa Chiara (1526; olio su tavola, 155 x 160 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Lorenzo Lotto, Madonna delle Rose, dettaglio |
A seguito di queste prove, il rapporto tra Lorenzo Lotto e Jesi è nuovamente documentato negli anni Trenta, all’epoca del completamento della Pala di Santa Lucia. Come anticipato, il contratto di allogagione è dell’11 dicembre del 1523, giorno in cui il pittore si trovava in città per firmare il contratto alla presenza del notaio Orsino Orsini: il documento stabiliva la consegna per il 1525 (l’opera sarebbe stata inviata a Jesi via mare, partendo da Venezia: nei 220 ducati pattuiti erano incluse anche le spese per il trasporto, di cui si sarebbe fatto carico l’artista). Le cose però andarono per le lunghe, probabilmente perché la confraternita non era in grado di saldare il conto all’artista (tanto che, nel 1528, si pensò di affidare la realizzazione del dipinto a un altro pittore, il fanese Giuliano Presutti), e nel 1530 la situazione era ancora in stallo: si risolse tutto l’anno successivo, quando uno dei membri del sodalizio, Apollonio Buonafede, propose di vendere una casa di proprietà della confraternita (del valore di 130 fiorini) per ottenere la cifra con cui pagare Lorenzo Lotto. Lo stratagemma consentì così il pagamento dell’opera, terminata nel 1532, come testimonia la firma del pittore.
La pala dedicata alla santa protettrice della confraternita (un imponente dipinto alto due metri e mezzo, dopo la Deposizione il più grande di quelli dipinti per Jesi) raffigura una scena con Santa Lucia davanti al giudice, ma per inquadrarla nel contesto della storia della martire è necessario far cominciare la lettura dalla prima scena della predella, dove vediamo santa Lucia che visita il santuario dedicato a sant’Agata: la futura santa, vissuta al tempo delle persecuzioni contro i cristiani sotto l’imperatore Diocleziano, vi si era recata assieme alla madre Eutichia, che soffriva di emorragie, al fine di chiedere l’intercessione della martire catanese per guarire l’anziana. In cambio, Lucia si sarebbe votata a Dio, dopo aver donato il suo patrimonio ai poveri (la vediamo intenta in quest’attività nella parte destra della prima scena). Eutichia guarì, e Lucia cominciò così il suo percorso per aiutare i bisognosi, causando però le ire del suo fidanzato, che vedeva svanire l’agognata dote della ragazza, e decise pertanto di denunciarla come cristiana. Lucia andò dunque a processo, e il giudice Pascasio (lo conosciamo nella parte destra della seconda tavola della predella) la interrogò, accusandola di adorare il Dio cristiano. La lettura si sposta così alla grande tavola, attraverso il bizzarro espediente della tenda che interrompe la seconda tavola della predella e ci suggerisce di guardare in alto: qui, Pascasio emette la sua sentenza, e gli sgherri afferrano Lucia per condurla al supplizio. Il tormento comincia nella seconda scena della predella: i buoi tentano di condurla al supplizio, ma secondo la leggenda Dio rese il corpo di Lucia così pesante che gli animali non riuscirono a spostarla di un millimetro. La terza scena della predella è una prosecuzione della seconda: sullo sfondo di una città, si susseguono coppie di buoi che non riescono a muovere la giovanissima santa (secondo la tradizione aveva appena ventun anni al tempo del martirio). Agli inizî del Novecento, un anonimo artista, per concludere la narrazione aggiunse un’integrazione alla predella, raffigurante il martirio di santa Lucia sul rogo: oggi è esposta nella stessa sala, ovviamente staccata dal resto dell’opera di Lorenzo Lotto.
La scena si svolge sotto un porticato, identificato come una delle logge del Palazzo della Signoria di Jesi: il giudice, seduto su un alto trono scorciato in diagonale, che ci rimanda alla Pala Pesaro di Tiziano, emette il suo verdetto, e la figura di santa Lucia, ferma e risoluta nella sua fede, gli fa da contraltare visivo e morale. La sua fermezza è ben esemplificata dalla sua posa, dal gesto dell’indice rivolto verso l’alto, dalla noncuranza che dimostra mentre la folla la circonda commenta la scena, e probabilmente la giudica esattamente come sta facendo Pascasio, e gli aguzzini cercano di trascinarla via. Tutta la costruzione della composizione è mirata a convergere proprio verso la santa, come suggeriscono le diagonali: quella dell’ala di folla, quella della bacchetta di Pascasio, e da ultimo il tenero dettaglio del bambino che cerca di raggiungere la santa ma viene trattenuto dalla fantesca. Uno schema che recupera idee già affrontate nelle tarsie lignee che l’artista realizzò per il coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo (opera coeva): il taglio prospettico, lo sfondo con elementi di città contemporanee, le ali di folla che assistono alla scena coi personaggi anch’essi in abiti del Cinquecento. E il tutto è volto a esaltare, come detto, la risolutezza della santa: Massimo Firpo, in un suo libro del 2001 dedicato proprio al “mondo di Lorenzo Lotto”, scriveva che “sono appunto la proclamazione dell’incrollabilità della fede e il suo valore salvifico a porsi al centro della pala”, suggerendo che l’artista, nell’aver dipinto il personaggio alle spalle di santa Lucia che guarda l’osservatore con lo stesso, identico volto del san Paolo del Polittico di Ponteranica (opera dipinta nel 1522), abbia voluto forse alludere “alla centralità del dibattito ”sulle lettere paoline e sul ruolo della fede ai fini della salvezza che invadeva allora le chiese e le piazze delle città italiane“. Il valore teologico di questo dipinto è stato ben sottolineato anche dalla studiosa Marta Paraventi, che lo definisce ”emblema della capacità di Lotto di addentrarsi nei testi agiografici per investigarli e restituirli in termini iconografici", e in questo senso l’artista, con la Pala di Santa Lucia, “è libero di creare un nuovo schema narrativo dove santa Lucia diventa, sulla scia delle idee erasmiane, modello reale di vita per il vero cristiano”.
Lorenzo Lotto, Pala di Santa Lucia (1532; olio su tavola, 243 x 237 cm, la predella olio su tavola di 32 x 69 cm ciascuna; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Tiziano Vecellio, Pala Pesaro (1519-1526; olio su tela, 478 x 268 cm; Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari) |
Lorenzo Lotto, Pala di Santa Lucia, dettaglio |
Lorenzo Lotto tornò un’ultima volta a Jesi nel 1535, giunto in città “ad far la capella de li signori del palazo”: il 1° luglio di quell’anno, infatti, il Consiglio di Credenza del Comune di Jesi lo incaricò di dipingere una pala per la cappella dei priori del Palazzo della Signoria, che però non fu mai realizzata dal momento che il lavoro, per motivi che non conosciamo, venne poi affidato a Pompeo Morganti. Ad ogni modo, il fatto che Lorenzo Lotto fosse stato incaricato di dipingere la pala per la cappella del più importante palazzo cittadino dimostra bene quanto alta fosse la stima che Jesi nutriva nei suoi confronti, tanto che l’artista ebbe modo di procurarsi un altro lavoro in città, e ancora per la chiesa di San Francesco al Monte, sempre su incarico dei Minori osservanti. Si tratta di una Visitazione, databile al 1538-1539, e sovrastata da una cimasa con un’Annunciazione, che dovrebbe essere un lavoro più antico, collocabile attorno al 1532, o almeno così pensa gran parte della critica sulla base di una data che compare sulla panca tra l’angelo e la Vergine, la cui ultima cifra è però illeggibile: la Visitazione, invece, dovrebbe essere più tarda, intanto per ragioni stilistiche, e poi perché, almeno secondo i più recenti studî di Francesca Coltrinari, l’opera potrebbe essere legata a un documento del 18 aprile del 1539, con cui l’artista, ad Ancona, nominava un suo allievo maceratese, Ottavio di Giulio, come procuratore per riscuotere un pagamento che gli era dovuto da un minore osservante di San Francesco al Monte, fra’ Giacomo da Jesi. Dal momento che anticamente l’opera si trovava nella chiesa jesina, è ipotizzabile che l’opera per cui Lotto attendeva il pagamento fosse proprio la Visitazione.
La scena dell’incontro tra Maria edd Elisabetta, con Zaccaria dietro sulla porta e le due sorelle Maria di Cleofa e Maria Salomè a fianco che conversano tra loro, è ambientata in un interno che, come spesso accade nelle scene di Lorenzo Lotto, è caratterizzato da molti elementi desunti dalla quotidianità: le ceste, i vasi, la frutta, la precisa raffigurazione dell’interno di una casa del Cinquecento, la mensola che è una sorta di topos dell’arte lottesca, dal momento che la ritroviamo anche in diverse opere precedenti. Non si tratta però di elementi sistemati in maniera casuale, dal momento che sono stati letti come rimandi simbolici: l’anfora è simbolo della verginità di Maria (per via della forma), la mela allude al peccato originale, la zucca è simbolo di resurrezione (ricorda il cibo di cui Giona si nutrì per tre giorni dentro la balena), la pergamena poggiata a fianco è simbolo del Vecchio Testamento, la risma di fogli vicina alla zucca è simbolo del Nuovo Testamento, mentre le viole sparse sul pavimento sono simbolo della modestia di Maria. L’incontro delle due sante richiama molto da vicino la stessa scena che Lorenzo Lotto inserisce in uno dei tondi dei misteri sacri inseriti nella Madonna del Rosario di Cingoli, datata 1539, con la differenza che in quel caso la scena era ambientata sulla soglia della casa, e qui siamo invece dentro l’abitazione. E poi le principali divergenze sono nella scelta e nella disposizione dei personaggi: se a Cingoli il pittore s’era mantenuto su di uno schema più classico, con la Madonna accompagnata da san Giuseppe, qui l’artista segue un’altra tradizione (comunque attestata anche in precedenza) e il marito di Maria è sostituito dalle due donne che alludono al sacrificio di Gesù, dal momento che, secondo il racconto evangelico, Maria di Cleofa e Maria Salomè furono, assieme alla Maddalena, le prime testimoni della resurrezione.
Lorenzo Lotto, Visitazione (1538-1539; olio su tela, 154 x 152 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Lorenzo Lotto, Annunciazione (1532; olio su tela, 103 x 132 cm; Jesi, Pinacoteca Comunale, Palazzo Pianetti) |
Lorenzo Lotto, Madonna del Rosario, dettaglio (1539; olio su tela, 384 x 264 cm; Cingoli, San Domenico) |
La Visitazione uscì dalla chiesa di San Francesco al Monte nel 1866, così come tutte le altre opere appartenenti alla chiesa, chiusa al culto quell’anno, e fu dapprima sistemata nella chiesa di San Floriano, dopodiché, nel 1949, fu destinata al Palazzo della Signoria. Nel 1971 fu trasferita nella sede della locale soprintendenza a causa delle sue condizioni precarie, tanto che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta subì alcuni interventi di restauro, per poi essere trasferita nella Pinacoteca Comunale, dove si trova tuttora assieme a tutte le altre opere che Lorenzo Lotto dipinse per Jesi. Città che, dopo Loreto, è quella che nelle Marche conserva il più alto numero di opere dell’artista veneziano.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo