È molto curioso pensare che una delle opere capitali della storia dell’arte italiana, ovvero l’Ammostatore di Lorenzo Bartolini (Savignano di Prato, 1777 - Firenze, 1850), fosse passata sostanzialmente inosservata, come ricordava lo studioso Stefano Grandesso in un suo scritto sugli sviluppi del neoclassicismo. O almeno, passò inosservata nella sua prima redazione: lo scultore pratese aveva infatti iniziato a modellare il suo giovane pigiatore d’uva nel 1816 (ancora conserviamo il gesso, alla Galleria dell’Accademia di Firenze), e lo avrebbe tradotto in marmo di lì a poco. L’opera finì poi nella raccolta di un nobile francese, il conte James-Alexandre de Pourtalès-Gorgier, che la acquistò direttamente dall’artista nel 1818. Fu data a lungo per dispersa, dacché nel 1865, a seguito dell’asta dei beni del conte, prese destinazione ignota, ma in molti hanno voluto ragionevolmente individuare, nell’Ammostatore che nel 1926 entrò nelle collezioni dell’Ermitage di San Pietroburgo dove tuttora si trova, l’originale che si riteneva perduto: forse, finì in Russia proprio dopo l’asta. Non è un mistero il fatto che la famiglia Jusupov, tra le più in vista della Russia d’allora, nutrisse una grande ammirazione per l’arte di Bartolini, ed è pertanto lecito attendersi che fossero loro gli acquirenti che si assicurarono l’opera all’asta: lo studioso Sergej Androsov scrive, nel catalogo della mostra Dopo Canova. Percorsi della scultura a Firenze e Roma (Carrara, Palazzo Cucchiari, dall’8 luglio al 22 ottobre 2017), esposizione in cui l’Ammostatore figura tra i massimi protagonisti, che la principessa Zinaida Jusupova e suo figlio Nikolai Jusupov, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta dell’Ottocento, presero ad acquistare varie sculture in Italia e in Francia. Tra queste figurava la Fiducia in Dio, che Zinaida Jusupova commissionò direttamente a Bartolini: l’artista non fece in tempo a completarla e fu terminata nel 1858 da Pasquale Romanelli (Firenze, 1812 - 1887). È probabile che nel novero di queste opere ci fosse anche l’Ammostatore: il capolavoro di Bartolini, infatti, risulta conservato nel palazzo di famiglia fino al 1926: allora, come anticipato, finì all’Ermitage, in seguito allo smantellamento di Palazzo Jusupov.
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore (1816-1818 circa; marmo, 128 x 43 x 41 cm; San Pietroburgo, Ermitage) |
Lorenzo Bartolini, modello per L’Ammostatore (1816 circa; gesso, 128 x 43 x 41 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia) |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore alla mostra Dopo Canova (Carrara, Palazzo Cucchiari, 2017) |
Destò invece scalpore la seconda redazione della scultura, che Lorenzo Bartolini eseguì tra il 1842 e il 1844 per il conte Paolo Tosio Martinengo. Erano cambiate però molte cose rispetto al 1818: intanto, l’artista aveva acquisito una fama notevole, e ovviamente pubblico e critica dimostravano nei suoi confronti una maggior attenzione. Inoltre, negli anni Quaranta si era nel pieno del dibattito sul purismo: proprio nel 1842, il pittore Antonio Bianchini (Roma, 1803 - 1884) aveva redatto un opuscolo intitolato Del purismo nelle arti, che fu sottoscritto da Friedrich Overbeck (Lubecca, 1789 – Roma, 1869), Pietro Tenerani (Carrara, 1789 - Roma, 1869) e Tommaso Minardi (Faenza, 1787 – Roma, 1871). Lo scritto si configurava come il manifesto teorico di quello che, a tutti gli effetti, sarebbe passato alla storia come il movimento purista. Bianchini, che parlava espressamente di cosa significasse il termine “purismo” e di quali fossero le origini di questa “riforma” dell’arte, respingeva una ad una tutte le contestazioni che gli ambienti accademici muovevano ai puristi. All’accusa di “ricopiar la natura miseramente e continuamente con ogni difetto”, Bianchini rispondeva dicendo che i puristi “ricercano la severa, semplice, evidente dimostrazione delle cose rappresentate, cioè del subbietto della pittura”, e dal momento che l’uomo non può giungere alla perfezione, “stimano che si debba anteporre il minor difetto, il quale si è di aspirare al fine con mezzi poco dilettevoli in sé, ma efficaci”. A quanti accusavano i puristi “di volere che la pittura adulta ritorni a bamboleggiare con Cimabue”, Bianchini replicava asserendo che, ovviamente, non era loro intenzione apprendere dai primitivi il modo di disegnare, di colorare e di combinare i piani, bensì di guardare a questi ultimi per la loro resa degli affetti e per la loro capacità di esprimere il sentito più profondo dell’artista. Agli artifici dell’arte moderna, i puristi dunque rispondevano prediligendo “la rozza semplicità degli antichi”. E all’accusa di voler rifiutare l’arte dal Raffaello romano in poi, Bianchini opponeva la volontà di parlare all’animo, più che quella di stupire con l’osservatore mettendo in secondo piano il messaggio rispetto all’“esteriore bellezza de’ mezzi”: cosa che, a detta dei puristi, avrebbe caratterizzato le opere del Rinascimento maturo.
L’Ammostatore di Lorenzo Bartolini rappresentava, nel 1818, un caso isolato, in anticipo sui tempi e sui dibattiti: tanto più preziosa dunque ci appare l’opera se pensiamo a quanto fosse innovativa e originale, al punto che molti studiosi riconoscono in essa il momento in cui prese avvio il purismo. Definito “primo esempio di rinnovamento naturalistico sul ceppo neoclassico” nel catalogo della mostra del 1972, curata da Sandra Pinto, sulla cultura neoclassica nella Toscana granducale, scultura che vantava “precedenze cronologiche” nei confronti di altre esperienze puriste secondo Ettore Spalletti, e ancora “opera di svolta” secondo Stefano Grandesso, l’Ammostatore è la naturalistica immagine di un fanciullo che pigia l’uva in un bigoncio onde ricavarne mosto. Colto in posa di contrapposto, con la mano destra regge alcuni grappoli d’uva, mentre la sinistra s’appoggia al fianco con disinvoltura, creando una sorta di triangolo. La testa è animata da una leggera torsione che, per introdurre un moto d’ulteriore naturalezza, interrompe la fissità che sarebbe derivata da una posa rigidamente frontale: è un gesto che cattura appieno l’anima del soggetto e lo rende emotivamente vivo, particolare che da solo basterebbe a differenziare l’Ammostatore da gran parte della scultura neoclassica.
Ovviamente, il giovane di Bartolini si distingue dall’intera produzione neoclassica anche per i modelli di riferimento, tutti ricavati dal primo Rinascimento fiorentino, che lo scultore pratese dovette aver ben presente. Lungo è l’elenco di quanti hanno evidenziato una derivazione dell’Ammostatore dal David del Verrocchio (Firenze, 1435 ca. - Venezia, 1488), che ha gli arti superiori nella stessa posizione di quelli del vendemmiatore di Bartolini ed è animato dalla stessa torsione della testa, con i muscoli del collo in tensione. Altri hanno rilevato la vicinanza dell’Ammostatore a un altro modello, il David del 1430 di Donatello (Firenze, 1386 - 1466), mentre un ulteriore spunto può essere rinvenuto in un affresco che Benozzo Gozzoli (Scandicci, 1420 circa – Pistoia 1497) eseguì nel Camposanto monumentale di Pisa: in particolare, nella scena della Vendemmia ed ebbrezza di Noè vediamo un uomo che, al pari del giovinetto di Lorenzo Bartolini, è intento a pigiare l’uva in un bigoncio del tutto simile a quello che lo scultore ottocentesco immaginò per la sua opera. La precisa volontà di rifarsi a precedenti del primo Rinascimento costituiva un notevole momento di rottura nei confronti della scultura neoclassica: se quest’ultima andava alla ricerca del bello ideale, il purismo perseguiva invece il bello naturale, e gli artisti del primo Rinascimento venivano visti dai puristi come coloro che, nella loro ricerca, erano animati dalla volontà di rifarsi alla natura piuttosto che di inseguire un ideale di bellezza.
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A destra: Donatello, David con la testa di Golia (1430-1440 circa; bronzo, altezza 158 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello). A sinistra: Andrea del Verrocchio, David con la testa di Golia (1475 circa; bronzo, altezza 126 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello) |
Benozzo Gozzoli, Vendemmia ed ebbrezza di Noè (1468-1484; affresco; Pisa, Camposanto) |
Tutte queste caratteristiche non sfuggirono a quanti ebbero modo di vedere l’opera di Bartolini al momento della realizzazione della versione per il conte Tosio Martinengo. Tra questi figurava il letterato Pietro Giordani (Piacenza, 1774 – Parma, 1848), che già negli anni Venti, all’epoca in cui aveva avuto occasione di vedere la Carità educatrice di Lorenzo Bartolini e di esprimere il suo entusiasmo in una lettera inviata a Leopoldo Cicognara, aveva ben colto lo spirito del pratese, e lo aveva definito “scultore sempre ed unicamente intento al naturale”, che “si è assuefatto a vederlo e rappresentarlo cogli occhi e coll’animo che fecero cara al mondo la scuola di Donatello”. Il 1° agosto del 1844, Giordani scriveva a un amico, il conte veneziano d’origine greca Antonio Papadopoli, di aver visto il “piccol Bacco” di Bartolini a Milano, e lo delineava in questi termini: “è una vera delizia a chi lo contempla (e sono molti, e non si saziano); è uno stupore degli artisti: i quali ben sanno quanto difficile sia e raro il rappresentare con sì piena evidenza un vero, e tal vero sì finamente scelto e studiato; di un garzonetto di circa dodici anni, delicato e verecondo al possibile; tutto intento (e un pochetto affaticato) nell’opera dell’ammostare”. Era il volto il dettaglio che aveva maggiormente catturato l’attenzione di Giordani: “ben fatti gli occhi vividi, nella bocca bellissima un principio di sorriso, come di amabile personcina contenta. E chi pensa che il movimento del sorridere nelle persone sincere comincia da uno dei lati della bocca, non si maraviglia che la linea di questa bocca appaia non esattamente parallela colle altre due linee superiori della faccia”. E ancora: “tutti i contorni graziosi, soave la pelle, piacente la leggiadria del collo, delle braccia, delle mani: tutto una bellezza, e bellezza tutta propria di que’ teneri anni in una delicata formosità”. Giordani lodava poi lo studio delle anatomie del giovane, mirabile nella sua capacità di evitare di trascendere il vero, ma anche di non “sconciare il bello”, riportando anche di come molti che avevano visto l’opera la pensassero come lui e si fossero spinti ad affermare che “dai tempi di Fidia a questo anno cristiano 1844 pochissime sculture possono stare al paragone di questa per iscienza e buon giudicio di anatomia statuaria”. E soprattutto, il letterato emiliano coglieva il principio che aveva animato la ricerca di Bartolini e che lo scultore pratese continuava ad affermare con forza nel suo Ammostatore: “così con opera di purgatissimo disegno, di significazione vivissima, vincendo tutte le ordinarie e straordinarie difficoltà, il sommo artista conferma visibilmente il suo dogma, che solo nel vero è il bello, di bellezza universale e sempiterna: così condanna chiunque presume di aggiungere alla natura fantastiche bellezze”.
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio del busto |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio delle gambe |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, visto di lato |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio della schiena |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio del bigoncio |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio dell’uva |
Lorenzo Bartolini, L’Ammostatore, dettaglio dell’uva |
L’opera, che riscosse un notevole successo di critica e che fu acclamata come manifesto della poetica purista, si poneva come altissimo esempio di quel bello naturale che, secondo gli artisti che volevano svincolarsi dal neoclassicismo, avrebbe dovuto animare la ricerca artistica. Opera dunque fondamentale nel percorso di Lorenzo Bartolini, presente in diverse mostre che hanno inteso indagare non soltanto la sua arte (si pensi alla grande monografica Lorenzo Bartolini. Scultore del bello naturale tenutasi alla Galleria dell’Accademia di Firenze nel 2011), ma anche gli sviluppi dell’arte da Canova in avanti: non poteva dunque mancare dalla mostra carrarese Dopo Canova, una delle più efficaci nel delineare le strade prese dall’arte una volta avviatasi verso la conclusione l’esperienza neoclassica. Infine, si tratta d’una scultura delle più rare e felici prodotte dallo scalpello di Lorenzo Bartolini, tanto che lo scrittore Paolo Emiliani Giudici, in un articolo sulla rivista Il Crepuscolo, la definì “statua di squisita bellezza, dalla quale veramente incomincia la gloria del Bartolini”.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo