Il Libro d'Ore di Alfonso Magnanimo, un capolavoro della Napoli rinascimentale


Conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, il Libro d’Ore di Alfonso Magnanimo è uno dei pochi codici della biblioteca del re che si trova ancora a Napoli, ed è uno dei capolavori della Napoli rinascimentale, il grado di dirci molto sul clima culturale della città all’epoca.

Si deve al re di Napoli Alfonso V d’Aragona, detto Alfonso il Magnanimo (Medina del Campo, 1396 - Napoli, 1458), il merito di aver avviato, nel suo denso programma di sostegno alle arti, alle lettere e alla cultura in generale, una biblioteca che fu tra le più ricche del Rinascimento. L’idea di costituire una biblioteca non nasceva soltanto dalla convinzione per cui era dovere di un sovrano mettere a disposizione del suo regno uno strumento che fosse in grado di diffondere cultura, ma anche da una sincera passione per i libri che il principe aragonese aveva coltivato fin da ragazzo quando, dal 1413, a Barcellona aveva avviato una piccola collezione di libri, costituita in un primo tempo da volumi di argomento sacro, poi arricchiti con classici greci e latini. Erano libri già in grado di testimoniare il gusto e la raffinatezza di Alfonso, trattandosi di codici miniati prodotti in territorio aragonese. Così, dopo la conquista del regno di Napoli, stabilita la propria sede a Castel Nuovo (ovvero il Maschio Angioino), Alfonso cominciò a preparare la realizzazione della biblioteca, allestita in una sala con vista sul mare come apprendiamo dalle cronache del tempo, e della quale avrebbero fatto parte anche preziosi codici commissionati ex novo dal re. Uno di questi è un Breviarium romanum noto come il “Libro d’Ore di Alfonso”, attualmente conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli: è il più antico e più pregiato dei manoscritti di Alfonso che ancora si trovano in città dopo la diaspora della sua biblioteca.

Il Breviarium Romanum è un libro liturgico contenente le ore canoniche (da cui anche il nome di “Libro d’Ore”) della Chiesa cattolica: si tratta, in sostanza, di un volume, generalmente scritto in latino, che scandisce la giornata del cristiano elencando le preghiere (gli “uffici divini”) da recitare nelle ore prestabilite. Il Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo fu redatto dall’umanista e copista ligure Jacopo Curlo, attivo a Napoli tra il 1445 e il 1459, fu illustrato da tre miniatori diversi che eseguirono le trenta diverse scene sacre che decorano il codice, e fu realizzato probabilmente tra il 1455 (data alla quale risalgono alcuni pagamenti per la fornitura delle pergamene) e il 1458.

Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Visitazione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 20r)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Visitazione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 20r)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Natività (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 28r)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Natività (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 28r)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Adorazione dei Magi (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 30v)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Adorazione dei Magi (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 30v)

Secondo la studiosa Antonella Putaturo Donati Murano, specialista di miniatura, il primo autore eseguì le scene della Passione di Cristo, e si dimostra artista di origini catalane (compaiono infatti pavimenti ad azulejos tipici della penisola iberica), con un occhio rivolto tuttavia alla miniatura franco-borgognona, da cui dipende la resa volumetrica delle figure. C’è poi un altro autore (inizialmente si pensava fossero due artisti distinti, poi Putaturo Donati Murano ha ritenuto che in realtà quelle due personalità che parevano diverse fossero riconducibili a un unico artista), che risente della cultura borgognona e provenzale che caratterizzava la bottega di Colantonio, il principale artista napoletano della prima metà del Quattrocento, e un ultimo artista probabilmente fiammingo, a cui è stato dato il nome di “Maestro di San Giorgio” in virtù di una delle miniature che gli vengono attribuite e che raffigurano il santo.

Il primo miniatore, probabilmente spagnolo e di formazione valenciana secondo l’ipotesi di Ferdinando Bologna, dovrebbe essere l’autore delle scene dell’ufficio della Passione, ovvero la Cattura di Cristo, il Cristo davanti a Caifa, il Cristo davanti a Erode, il Cristo davanti a Pilato, il Pilato che si lava le mani e la Crocifissione, e in più gli è stata attribuita anche l’Ultima cena per le strette somiglianze con le scene di Cristo davanti a Caifa e Cristo davanti a Erode (stessa impaginazione prospettica, Cristo con gli stessi connotati). Per i soggetti delle sue scene, questo primo miniatore del Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo è stato definito il “Maestro della Passione”. Sempre allo stesso maestro potrebbero essere ascritti i fantasiosi e raffinati fregi delle carte, realizzati a racemi popolati di figure e animali, questi ultimi caratterizzati da un rilevante grado di realismo, che lascia trapelare una certa conoscenza dell’arte fiamminga del tempo, abituata a rese molto dettagliate dei soggetti. Inoltre, gli studiosi hanno riscontrato tangenze con l’arte del pittore valenciano Jacomart Baço, tanto da far supporre che questo ignoto artista fosse un allievo dello spagnolo, giunto probabilmente in città al seguito del maestro: Baço fu infatti chiamato a Napoli nel 1442 proprio da Alfonso il Magnanimo (era uno dei suoi artisti preferiti), e la sua presenza ebbe un notevole impatto sulla scuola locale, orientando in particolare i gusti di Colantonio e della sua bottega.

Il secondo autore è quello che ha realizzato il maggior numero di scene: gliene vengono attribuite ben diciotto su trenta, ovvero la Visitazione, l’Adorazione dei Magi, la Resurrezione di Cristo, l’Ascensione, l’Assunzione della Vergine, la Preghiera nell’orto, la Pentecoste, la Trinità, la Santa Caterina d’Alessandria, l’Ufficio funebre, la Resurrezione dei santi, la Madonna col Bambino in trono, un’altra Visitazione, la Madonna col Bambino nel vireto, la Presentazione della Vergine al Tempio, la Vergine dei sette gaudi, i Simboli della passione e la Deposizione (quest’ultima peraltro risente della pala della Deposizione di Roger van der Wayden nel retablo di Miraflores che oggi è conservata alla Gemäldegalerie di Berlino). Si tratta di un artista che probabilmente si formò nella bottega di Colontanio e che palesa modi dipendenti dall’arte fiamminga e borgognona (in particolare sono state ravvisate somiglianze con l’arte di Barthélémy van Eyck soprattutto nel trattamento dei panneggi), ma anche una certa vicinanza a Jacomart Baço, in particolare in certe figure femminili. Singolare è poi il caso del terzo miniatore, che realizzò la scena del San Giorgio e la principessa, e al quale fu probabilmente chiesto da Alfonso il Magnanimo di riprodurre un dipinto di Jan van Eyck avente lo stesso soggetto e che figurava tra le opere preferite del sovrano. Lo stesso autore probabilmente realizzò anche il David in preghiera e la Natività.

Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Resurrezione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 33v)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Resurrezione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 33v)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Ascensione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 36v)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Ascensione (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 36v)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Assunzione della Vergine (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 43r)

Il Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, nonostante sia nato a Napoli e oggi si trovi nella città partenopea, non è sempre rimasto sulle rive del golfo. Nel 1495, re Alfonso II, dopo aver abdicato in favore del figlio Ferrandino, lasciò Napoli per la Sicilia e probabilmente portò con sé il prezioso manoscritto del nonno e lo consegnò poi al convento di Monteoliveto. Successivamente, come riscontriamo da un ex libris apposto sul retro del piatto anteriore del libro, finì nella collezione del principe di Torella, che aveva una ricca raccolta libraria smembrata nel 1896 dopo una vendita a Parigi. Ad acquistare il Libro d’Ore fu la famiglia Sterling, e il libro partì per l’Inghilterra: passò poi al collezionista londinese Heinrich Eisemann, appassionato di libri antichi. Per qualche tempo, del codice non si seppe più niente, tanto che negli anni Cinquanta era ritenuto disperso: riemerse poi nel 1955 sul mercato antiquario londinese, dove fu acquistato dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, che riuscì pertanto a riportare il libro là dove era stato realizzato.

Si tratta, in effetti, di uno dei prodotti più preziosi della Napoli di Alfonso il Magnanimo, oltre che uno dei vanti principali della sua ricca biblioteca, quella raccolta che nel 1495 Marin Sanudo definiva “la libraria dil Re” dove “era assà copa di libri, in carta bona, scritti a penna, et coverti di seda et d’oro, con li zoli d’argento indorati, benissimo aminiati, et in ogni facultà”, e che era frequentata dagli umanisti più illustri del tempo, come Lorenzo Valla, Bartolomeo Facio, Giovanni Pontano, Francesco Filelfo. Era la Napoli della “svolta rinascimentale”, come l’hanno definita Liana Castelfranchi e Francesca Tasso, la Napoli al centro delle rotte commerciali del Mediterraneo e che, proprio grazie a re Alfonso V, aveva stabilito un solido legame con le Fiandre, la Napoli che attirava, forse più e meglio di tutte le altre città del tempo, i migliori artisti stranieri: soggiornarono in città a stretto giro, oltre al già ricordato Jacomart Baço che fu a Napoli dal 1442 al 1445, anche il fiammingo Barthélémy van Eyck, che lavorò per Renato d’Angiò tra il 1439 e il 1442, il francese Jean Fouquet che fu qui forse verso il 1445.

Napoli, a quel tempo, era diventata, come ha scritto lo storico dell’arte Edoardo Villata, “centro nevralgico di rielaborazione della cultura figurativa nordica, perlopiù accolta attraverso la mediazione di Provenza e di Valenza, e di confronto con la tradizione rinascimentale centro italiana”. E va poi menzionata la presenza di Antonello da Messina, che arrivò a Napoli nel 1450 e svolse il suo alunnato presso Colantonio: fu proprio qui che il giovane siciliano ebbe con tutta probabilità l’occasione di fare la conoscenza dell’arte fiamminga. Anche perché, come ricordato, Alfonso V era un grande appassionato di arte fiamminga e nella sua collezione figuravano dipinti di Roger van der Weyden, Jan van Eyck, Petrus Christus e altri. A Napoli, in sostanza, il Rinascimento partiva declinato in una forma che forse non è azzardato definire “cosmopolita” e che fu tra i risultati più originali dell’arte italiana del tempo. E il Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo è uno dei più elevati testimoni di quella felice stagione delle arti a Napoli.

Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Maria Maddalena (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 95r)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Maria Maddalena (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 95r)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Ultima cena (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 135v)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Ultima cena (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 135v)
Libro d'Ore di Alfonso il Magnanimo, Madonna col Bambino (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 148r)
Libro d’Ore di Alfonso il Magnanimo, Madonna col Bambino (1455-1458; carta, 220 x 160 mm; Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. I B 55, c. 148r)

La Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III”

La Biblioteca Nazionale di Napoli è la terza biblioteca statale italiana, dopo le Nazionali Centrali di Roma e di Firenze, e le sue origini risalgono alla fine del Settecento, quando per volere di Ferdinando IV di Borbone si cominciarono a collocare nel Palazzo degli Studi (oggi sede del Museo Archeologico) le raccolte librarie fino a quel momento conservate prima nel Palazzo Reale e successivamente nel Palazzo di Capodimonte. Il trasferimento dei volumi era cominciato nel 1784 ma solo il 13 gennaio 1804 fu possibile aprire al pubblico la Real Biblioteca. Il patrimonio era costituito dal nucleo collezionistico dei Farnese a cui si erano aggiunti fondi conventuali e fondi privati. Durante l’occupazione francese, la biblioteca si arricchì ulteriormente con i fondi dei monasteri soppressi e con nuove acquisizioni, come la collezione bodoniana del marchese Rosaspina e gli incunaboli di Melchiorre Delfico. Dal 1816 la Real Biblioteca assume la denominazione di Borbonica, e assumerà il titolo di “Nazionale” dopo l’Unità d’Italia. Tra XIX e XX secolo la Biblioteca acquisì la raccolta musicale e teatrale donata dal conte Edoardo Lucchesi Palli, l’eccezionale corpus degli autografi di Giacomo Leopardi, attraverso il legato testamentario di Antonio Ranieri, amico napoletano del poeta di Recanati, l’Officina dei Papiri Ercolanesi, istituita da Carlo di Borbone al fine di custodire e svolgere i papiri provenienti dagli scavi di Ercolano del 1752-1754.

Nel frattempo, la sede del Palazzo degli Studi era divenuta inadeguata alle dimensioni ed alle necessità dell’istituto, così negli anni Venti, grazie alla determinazione di Benedetto Croce, fu trasferita nell’ala orientale di Palazzo Reale, per l’occasione donata da Vittorio Emanuele III ad Demanio dello Stato. In quella sede furono annesse alle raccolte della Nazionale quelle delle biblioteche storiche della città: la Brancacciana, la Provinciale, la San Giacomo, la Biblioteca del Museo di San Martino. Negli stessi anni, in seguito a una clausola del trattato di Saínt-Germain ed alla Convenzione artistica di Vienna, fecero ritorno a Napoli un gruppo di preziosissimi manoscritti sottratti, per volontà di Carlo VI, alle ricche biblioteche conventuali della città e trasferiti nel 1718 a Vienna. La Biblioteca fu chiusa nel 1942 per salvarla dai rischi della seconda guerra mondiale (la direttrice Guerriera Guerrieri aveva fatto trasferire il patrimonio in alcuni borghi dell’entroterra per metterlo al sicuro), e poté riaprire al pubblico nel 1945. L’ultimo capitolo arriva negli anni Novanta del Novecento, quando la Biblioteca, per far fronte a rinnovate esigenze di spazio, ha espanso la sua sede nei locali davanti alla Piazza del Plebiscito, che un tempo erano sede della presidenza del Consiglio Regionale della Campania. Oggi la Biblioteca Nazionale di Napoli è gestita dal Ministero della Cultura.

Il patrimonio dell’istituto include 1.799.934 volumi a stampa, 8.926 testate di periodici, 798 microfiches e 2703 cd-rom, 19.758 manoscritti in volume e 153.606 documenti sciolti appartenenti a carteggi e archivi privati, 500 pergamene, 4.563 incunaboli e circa 50.000 cinquecentine, 6.940 stampe e disegni, oltre 6.000 carte geografiche storiche e 21.600 fotografie in fondi fotografici storici, 1.838 papiri e 4.665 disegni di papiri. Tra gli oggetti più preziosi figurano quelli della celebre collezione farnesiana, che fu avviata da Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, ed accresciuta dai suoi nipoti ed eredi, e poi venne fatta trasferire a Napoli da Carlo di Borbone nel 1734 (tra i suoi volumi si ritrovino pregevoli edizioni a stampa e manoscritti preziosi solo per l’apparato decorativo, ma anche di grande interesse filologico: per esempio si ricorda il Festo e il Virgilio). Di grande interesse anche il codice di mano di San Tommaso d’Aquino, appartenuto al convento napoletano di San Domenico Maggiore ed i cui frammenti venivano donati al popolo come reliquie, le Antichità di Pirro Ligorio, i versi di Ariosto, la Gerusalemme conquistata di Tasso, gli scritti di Giovan Battista Vico e di Giacomo Leopardi, le testimonianze di Teodoro Monticelli, Domenico Cotugno, Franesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giuseppe Ungaretti. E ancora, di grandissima importanza sono il fondo degli autografi leopardiani, che raccoglie in maniera quasi esaustiva il corpus degli autografi di Giacomo Leopardi (oltre alla documentazione autografa della maggior parte dei Canti e delle Operette morali, il fondo conserva i manoscritti d’autore di opere come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), e le 4526 pagine dello Zibaldone (1817-1832), Infine, è conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli il fondo dei papiri ercolanesi, che raccoglie i papiri (svolti e non svolti) riportati alla luce a Ercolano, tra il 1752 e il 1754, nel corso dello scavo della villa nota come “Villa dei Papiri” oppure come “Villa dei Pisoni”.

Biblioteca Nazionale di Napoli
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