“Libiamo, libiamo ne’ lieti calici”: la dirompente forza delle danze bacchiche


Nei riti bacchici, l’elemento centrale era, in modo del tutto eclatante, la danza. Queste cerimonie che si davano in onore del dio Bacco, caratterizzate da lascivia e concitate danze animate da un istinto primordiale, hanno attraversato secoli di storia dell’arte.

“Correte, o Mènadi, correte, o Mènadi,[…] tra frigi canti, tra grida, mentre dal sacro flauto armonïoso vibran melodie sacre che guidano chi al monte si lancia. Ed agile come puledra pei campi libera, segue la Mènade, e a danza spinge l’agile pie’” (Euripide, Baccanti).

Le animate parole con cui il primo semicoro introduce nella nota tragedia euripidea la figura delle Menadi (più note, in “gergo romano”, come Baccanti) ben esplicano l’unicità delle seguaci di Dioniso. Dio del vino, dell’ebbrezza e del più naturale e selvaggio istinto animale, il figlio di Zeus e Semèle, noto nella religione romana con il nome di Bacco, rappresenta al meglio il divampante e frenetico germe della vita che, smisuratamente, tutto pervade.

È sempre Euripide che, nel corso della narrazione della propria tragedia, dando parola agli interpreti principali (Cadmo e il vecchio Tiresia su tutti), manifesta come l’attributo centrale nelle dinamiche dei riti bacchici sia, in modo assai eclatante, la danza. “Danzar, noi solo in Tebe, i balli bacchici?”, “Se noi siam soli saggi, e stolti gli altri”. Il concitato dialogo tra Cadmo, il primo, e Tiresia, il secondo, dà conto di come l’incomparabile vitalità delle “feste bacchiche”, oltre al sempre presente e iconico attributo del vino, ruotasse proprio intorno alla sfrenata animosità e ritmata gestualità dei corpi.

La leggenda, forse tra le più ricche e articolate dell’intera mitologia, vede Dioniso nascere a Tebe dalla segreta unione tra Zeus e Semèle la quale, istigata dalla gelosa Era, chiese di poter ammirare Zeus nella sua folgorante potenza. Tale indotta richiesta le costò la vita dal momento che, circondata da tuoni, lampi e fiamme generati da re dell’Olimpo, la figlia di Cadmo morì avvolta dal fuoco divino. Nonostante lo sventurato accadimento, Zeus salvò l’ancora prematuro pargolo dal grembo della donna, facendone terminare la gestazione nella sua coscia. Affidato in seguito a Ermes, Dioniso, accudito dalla Ninfe, crebbe sul monte Nisa, altura ricca di rigogliosi boschi e situata nell’antica Tracia: da qui l’epiteto “Zeus di Nisia”.

Raggiunta l’età adulta, Dioniso scoprì la pianta della vite, ne apprese la coltivazione fino a restare totalmente inebriato dai suoi divini frutti che prontamente fece conoscere anche alle sue nutrici. Ammaliate anch’esse dalla soave bontà dell’uva, Dioniso, incoronato d’edera, iniziò a peregrinare con esse per le terre della penisola balcanica seguito da un numeroso corteo di Ninfe e Satiri danzanti.

Lido (attribuito), Cratere con Dioniso tra satiri e menadi (550 a.C. circa; terracotta a figure nere, 56,4 x 69,3 cm; New York, Metropolitan Museum)
Lido (attribuito), Cratere con Dioniso tra satiri e menadi (550 a.C. circa; terracotta a figure nere, 56,4 x 69,3 cm; New York, Metropolitan Museum)
Senatus consultum de Bacchanalibus (186 a.C. circa; bronzo, 27,3 x 28,5 x 0,4 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Senatus consultum de Bacchanalibus (186 a.C. circa; bronzo, 27,3 x 28,5 x 0,4 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Dosso Dossi, L’arrivo di Bacco sull’isola di Naxos (1515 circa; olio su tela, 129 x 167 cm; Mumbai, Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya, già Prince of Wales Museum of Western India)
Dosso Dossi, L’arrivo di Bacco sull’isola di Naxos (1515 circa; olio su tela, 129 x 167 cm; Mumbai, Chhatrapati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya, già Prince of Wales Museum of Western India)

Nonostante parte della critica individui nell’antica Tracia l’origine dei riti dionisiaci, il culto della divinità trovò con certezza la sua origine nell’Ellade a partire dal VI secolo a.C. per poi progressivamente propagarsi in tutti i territori della Magna Grecia. La diffusione degli ancestrali riti lungo le coste della penisola italica è narrata dal Tito Livio nel suo celebre Ab Urbe condita. Lo storico, infatti, nel XXXIX libro specifica come il germe della sfrenata vitalità delle feste dionisiache venne introdotto a Roma per mano della sacerdotessa campana Anna Paculla. L’eccessiva lascivia e lussuria della ritualità (che iniziò a coinvolgere indistintamente donne e uomini), derivante da concitante danze animate da un naturale istinto primordiale, giunsero a radicarsi prepotentemente nell’Urbe dal II secolo a.C., creando non poco scompiglio e disappunto tra la popolazione locale.

La diffusione del culto di Dioniso (ormai conosciuto sotto il nome di Bacco), rito non autoctono e distante dai mores romani, indusse il Senato ad emanare, nel 186 a.C., un decreto denominato Senatus consultum de Bacchanilibus, attraverso il quale venne ufficialmente vietata lungo tutto il territorio romano la pratica dei Bacchanalia. Di notevole interesse appare sottolineare come, una copia di tale decreto, oggi conservata presso il Kunsthistorisches di Vienna, venne ritrovata nel 1640 a Tiriolo (Catanzaro), nel corso degli scavi per l’edificazione del palazzo del principe Giovanni Battista Cigala.

La crescente diffusione dei Baccanali coinvolse, inevitabilmente, anche le arti figurative che fin dal lontano VI secolo a.C. cercarono di riportare con estrema rispondenza al vero la “danzante” vitalità delle Menadi.

Numerosi e molteplici sono in età arcaica quei manufatti la cui decorazione rimanda alle feste dionisiache, come ben testimoniato dal Vaso Promonos, cratere attico oggi conservato presso il MANN, o dalla più tarda Casa delle Processione di Dioniso che, costruita in età antoniana a El Jem, nell’attuale Tunisia, presenta un raffinato mosaico raffigurante l’animato corteo dionisiaco.

Ma l’animosità bacchica, declinabile e indagabile sotto molteplici sfaccettature, risultò tema particolarmente adatto, e proposto, a partire dal XVI secolo, quando la riflessione sulla “linea”, lo studio della resa anatomica e il tentativo di indagare il dato reale, divennero caratteristiche decisamente idonee e corrispondenti ad una narrazione di tal genere. Un primo esempio che ben esplica la declinazione del tema lo si ritrova ne L’arrivo di Bacco all’isola di Naxos , opera attribuita Giovanni Luteri, più noto alla cronaca con il nome di Dosso Dossi.

Tiziano, Baccanale degli Andrii (1523-1526; olio su tela, 175 x 193 cm; Madrid, Museo del Prado)
Tiziano, Baccanale degli Andrii (1523-1526; olio su tela, 175 x 193 cm; Madrid, Museo del Prado)
Annibale Carracci, Trionfo di Bacco e Arianna (1600 circa; affresco, Roma, Palazzo Farnese)
Annibale Carracci, Trionfo di Bacco e Arianna (1600 circa; affresco, Roma, Palazzo Farnese)
Nicolas Poussin, Baccanale (1625-1626; olio su tela, 122 x 169 cm; Madrid, Museo del Prado)
Nicolas Poussin, Baccanale (1625-1626; olio su tela, 122 x 169 cm; Madrid, Museo del Prado)

Cresciuto in quello che oggi è il comune lombardo di San Giovanni Del Dosso, nome da cui Lauteri deriva il proprio soprannome, l’artista matura in quelle terre al confine tra il Marchesato di Mantova e il Ducato estense. Nonostante le notizie biografiche relative alla giovanile formazione di Lauteri non siano ancora oggi ben chiare, non può certo escludersi che il nostro sia cresciuto studiando Lorenzo Costa (artista dei Gonzaga dopo la dipartita di Mantegna) e che nominato pittore di corte presso gli Este (1514), nel corso del suo soggiorno veneziano e fiorentino non abbia osservato la pittura di Giorgione e Tiziano, oltre che l’onnipresente Raffaello.

L’arrivo di Bacco presenta infatti tutte le influenze pittoriche indicate e, con assoluta probabilità, può collocarsi all’interno di una prestigiosa committenza quale fu quella per Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, che per il suo Camerino dei Baccanali commissionò ad artisti del calibro di Giovanni Bellini (Il banchetto degli dei) e di Tiziano, opere incentrate proprio sul festoso tema bacchico. E sarà proprio Vecellio a “mettere in scena” una delle tele più celebri, iconiche ed influenti della sua produzione oltre che dell’intera storia dell’arte: il Baccanale degli Andrii.

La tela, infatti, costituisce l’ultimo elemento di una triade che, insieme al Bacco e Arianna della National di Londra e alla Festa degli amorini, oggi al Prado, stravolse l’intera scena artistica della penisola. Il baccanale tizianesco incarna meglio di qualsiasi altra opera la sfrenata vitalità dei rituali “dionisiaci”: alla sinistra della scena, un uomo dalle morbide forme beve con innegabile veemenza il vino direttamente dalla brocca; al centro, figure placidamente sdraiate, dialogano le une con le altre non curanti, come dimostra la fanciulla in primo piano, di cosa venga versato loro nei piatti; nel margine destro, una sensuale figura femminile, parzialmente coperta da un raffinatissimo panneggio bianco, appare in completa balia dei piaceri della vita.

Ma ciò che colpisce più di ogni altra cosa, risulta il gruppo di uomini con il capo cinto di alloro che, ammaliati dalla soave bellezza della giovane donna, si lanciano in un’energica danza testimoniata, ancor più, dai luccicanti e increspati panneggi che ben manifestano l’intrinseca e animata vitalità dei rituali, oltre che della scena. L’opera, a seguito della Devoluzione di Ferrara (1598), fu condotta (o meglio sottratta) a Roma dal cardinale Pietro Aldobrandini e tale arrivo, per l’innovativa unicità del linguaggio artistico coniato da Tiziano, è ritenuto dalla critica come uno dei passaggi fondamentali per lo sviluppo del linguaggio barocco a Roma.

L’Urbe, infatti, a cavallo tra Cinquecento e Seicento, grazie all’illuminata “modernizzazione” avviata da Sisto V (1585-1590), andava delineandosi come il nuovo centro artistico europeo, sostituendosi a quella Venezia che nel Cinquecento aveva ricoperto un ruolo di assoluta protagonista nello scenario europeo. In questo vivace clima culturale si inserisce, nel 1594, la venuta a Roma di Annibale Carracci che su commissione di Odoardo Farnese affresca una tra le opere più celebri della produzione dell’artista: Il Trionfo di Bacco e Arianna. La scena, animata da quell’esplicita volontà di abbandonare lo stantio linguaggio manierista a discapito di una più approfondita indagine del vero, scandisce la volta della galleria proponendo (sulla scia di un’orchestrazione spaziale richiamante i fregi classici) una narrazione ove viene ancor più esplicitata la danzante dinamica dei cortei bacchici.

Nel corso delle prime due decadi del XVII secolo Roma, per la centralità artistica, attesta anche la presenza di Nicolas Poussin. L’artista francese, attirato dal fervente clima culturale e, soprattutto, dalla possibilità di sfruttare le ricche committenze private locali, giunse nell’Urbe nel 1624 e qui, con più che notevole probabilità, dovette osservare i Baccanali tizianeschi. Non è di certo un caso che al 1625-1626 sia ascritta un’opera che, conservata oggi presso il Prado, si ispira al celebre operato di Vecellio: il Baccanale di Madrid, infatti, pur impostato sulla ripresa di quella matrice classica assai cara a Poussin e ben riscontrabile nell’orchestrazione spaziale della scena, riprende la naturale e boschiva quinta architettonica di sfondo adottata – con frequenza – proprio dal maestro veneziano. La narrazione, scandita da una ritmata gestualità dei personaggi, è animata da un continuo corteo danzante che, però, a differenza dell’opera di Tiziano, non presenta alcuna “frammentazione” o soluzione di continuità.

Francesco Zuccarelli, Baccanale (1740-1750; tela, 68,5 x 97,5 cm; Venezia, Galleria Accademia)
Francesco Zuccarelli, Baccanale (1740-1750; tela, 68,5 x 97,5 cm; Venezia, Galleria Accademia)
Sebastiano Ricci, Baccanale in onore di Pan (1716 circa; tela, 84 x 100 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)
Sebastiano Ricci, Baccanale in onore di Pan (1716 circa; tela, 84 x 100 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)

Il tema dei Bacchanalia continuò ad essere affrontato anche nel corso del Settecento, come testimoniato da un’eccezionale e raffinata tela di Sebastiano Ricci. Il Baccanale in onore di Pan, presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, manifesta a pieno la dettagliata vivacità del linguaggio pittorico dell’artista bellunese il cui modus pingendi ben si presta ad un tipo di narrazione ove ritmo, vitalità, giocosità e licenziosità risultano aspetti peculiari ed essenziali.

Il dipinto, caratterizzato da una dettagliatissima attenzione grafica – oltremodo ben evidente nella resa degli elementi paesaggistici – riserva un ruolo centrale alle frenetiche danze delle Baccanti che, non a caso, spiccano al centro della narrazione “assistite” nel ballo da un desideroso fauno. Tutto intorno, musici, putti giocanti, figure amorevolmente distese incarnano ancor più la festosità bacchica.

Il tema continuò ad essere affrontato ancora nel corso del XVIII secolo come testimoniato dalla piacevole tela di Francesco Zuccarelli sempre conservata alle Gallerie dell’Accademia. L’artista toscano, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento, inscena il suo Baccanale in un soave e idilliaco paesaggio bucolico, emblema di quell’“Ideale classico” ormai ricercato dagli artisti del tempo.

La narrazione, inserita in un contesto dove la descrizione degli elementi floreali e faunistici pur essendo apparenti elementi marginali contribuiscono e non poco ad una completa resa d’insieme, vede ancora come focus centrale il tema delle animate danze: il dipinto, pur abbandonando quell’aurea di ancestrale clima bacchico, palesato nel secolo precedente, mantiene attraverso una più compassata e “classica” descrizione quel brioso e danzante file rouge derivante dall’incontro delle affascinanti fanciulle con i fauni.

I Baccanalim dunque, a ritmo di musica e danza ci accompagnano fin dall’antichità e testimoniano come l’essere umano, quando libero da restrizioni e vincoli, possa considerarsi, grazie al suo innato istinto primordiale, un vero e proprio animale sociale.


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Giorgio Dellacasa

L'autore di questo articolo: Giorgio Dellacasa

Storico dell'Arte e divulgatore scientifico. Ho 25 anni, sono nato a Genova e qui ho compiuto tutto il mio percorso di studio universitario, conseguendo la Laurea triennale in Conservazione dei Beni Culturali e la Laurea magistrale in Storia dell'Arte e Valorizzazione del patrimonio storico artistico. Attualmente ho conseguito l'accesso alla Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici di Genova.



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