“A me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo. Molti dei miei progetti li ho trasmessi al telefono”. Se è vero che “il buon design dura cento anni”, il letto Nathalie di Vico Magistretti, in produzione dal 1978, può senza dubbio già considerarsi un esempio di buon design. Le parole in apertura sono proprio di Magistretti, architetto e designer milanese di nascita, considerato uno dei padri del design italiano.
Nato a Milano nel 1920, figlio e nipote di architetti, Vico Magistretti inizia la sua attività lavorativa proprio nello studio di famiglia, in una Milano in crescente fermento e in continua espansione nell’immediato Dopoguerra. In questo periodo entra in contatto con quegli esponenti del Movimento Moderno – o meglio, del razionalismo italiano – presenti a Milano, come Ignazio Gardella, Franco Albini e altri, personaggi fondamentali per la sua formazione, in cui ritrova il suo stesso entusiasmo nei confronti dell’architettura. Se l’avvio della sua carriera lo vede protagonista, in collaborazione con altri architetti, della progettazione di 14 interventi per l’INA-Casa, di edifici di pregio a Milano quali la Torre del Parco e il palazzo per uffici in corso Europa e di numerosi interni domestici, è però in una Milano di inizio anni Sessanta, circondata da una fitta rete di artigianato di grande qualità che si stava pian piano trasformando in produzione industriale, che avviene il suo incontro con il design.
Da sempre interessato al tema della casa e ai problemi dell’abitare, poiché “il posto dove si abita deve essere vivo, ricco di testimonianze del presente e del passato delle persone, deve raccontare la loro storia”, Magistretti inizierà a collaborare assiduamente con produttori come Artemide, Cassina, Gavina, realizzando oggetti che arrivano fino al contemporaneo, rimanendo dei “classici” del design italiano. Un design che si estende agli aspetti dell’abitare tout court e che lo stesso Magistretti considera un unicum, anzi, quasi un miracolo. Egli sostiene infatti che “la nascita dell’Italian Design deve moltissimo al colloquio stretto tra la produzione e chi progetta: è nato dai produttori che volevano cambiare, crescere, evolvere. E – anche per questo – dura dal 1960”. Il design di cui si fa portavoce è caratterizzato da un fattore, quello della comunicazione strettissima tra il produttore e designer, che non si è ripetuto altrove e trova in Italia dei felici sviluppi.
Sono quindi il dialogo e la collaborazione i veri segreti che si nascondono dietro agli oggetti progettati da Magistretti. Oggetti che sono sempre animati da un concetto, da un nucleo fondamentale, da un’idea che deve essere semplice e trasmissibile già a parole, senza l’ausilio necessario del disegno. In questa semplicità egli individua l’anima della sua progettazione, in una dinamica di processo che, come egli racconta, vede legate insieme il designer e il produttore già nella definizione del concept, che verrà poi sviluppato in una seconda fase. Resta famosa la sua definizione di “progetti al telefono”, ovvero idee nate dalla conversazione diretta con chi poi si sarebbe occupato della produzione, come nel caso della lampada Chimera per Artemide.
Le idee progettuali di Magistretti sono inoltre contraddistinte dalla ricerca di soluzioni tecniche innovative e di un modo di progettare vasto, che vada oltre le determinazioni delle singole soluzioni tecnologiche. Il prodotto di design deve quindi essere un oggetto semplice che abbia grande potenzialità di utilizzo e che possa concettualmente dire qualcosa, suggerendo un nuovo uso del materiale o dell’oggetto stesso e rappresentando un design “concettuale” piuttosto che un mero “disegno formalistico”. Un design che, è bene ricordarlo, non si sviluppa tanto nella solitudine dello studio, quanto al di fuori, attraverso l’incontro tra progettista e l’industria produttrice, depositaria a sua volta delle competenze tecniche, della conoscenza dei materiali e della loro evoluzione. È questo incontro che permette di creare cultura, che per il Maestro significa “poter distinguere ciò che è importantissimo da ciò che è meno importante”.
È proprio da un “suggerimento” del designer che nel 1978 prende vita il letto Nathalie, prodotto da dalla neonata azienda Flou. Esso si configura come il primo prototipo di “letto tessile”, definizione che secondo lo stesso progettista riassume compiutamente il suo senso: “Talvolta la semplice parola o il concetto espresso in parole generano la forma. Letto tessile: una forma quasi non disegnata ma già determinata dall’uso del materiale suggerito; molto adatto all’‘idea’ di letto, l’uso dell’attributo ‘tessile’ nasce dall’estensione del concetto di Piumone; il nuovo modo di coprire il letto, il nuovo modo di rifarlo e di renderlo più confortevole ed accogliente”.
Rossano Messina, entusiasta co-proprietario di Flou, ne coglie immediatamente le potenzialità. In un periodo in cui le scelte dei consumatori erano orientate verso prodotti che fossero pratici, funzionali, ma anche in linea con il proprio gusto e la propria personalità, Nathalie incarnava tutto questo. Esso propone infatti un’immagine unitaria, in cui i “componenti soffici”, ovvero cuscino, copricuscino sulla testata, piumone, materasso, rivestimento della struttura, costituiscono un unico sistema, e dove il piumone “con le sue morbide pieghe ed ombre sale a formare la testata”. Una testata che non serve solo come supporto, ma anche a contenere e nascondere, di giorno, i cuscini. È lo stesso Magistretti a sostenere che “il segreto del successo di Nathalie sta in un’innovazione basilare, in seguito molto copiata: l’utilizzo in forma rigida del piumone, che fino ad allora era stato sempre sfruttato soltanto come coperta mentre con Nathalie diventa una morbida testata alla quale appoggiarsi”.
In maniera quasi naturale si sviluppa poi l’idea di cambiargli rivestimento (in quanto completamente sfoderabile) e di studiare dei coordinati biancheria che, sbloccando la tradizionale rigidità della camera da letto, offrissero maggior libertà nella scelta, permettendo al prodotto di rimanere uguale nella forma, ma al tempo stesso di “cambiarsi spesso d’abito”.
Nathalie vive quindi in funzione dell’apporto fondamentale del tessuto, che però a Magistretti interessa quanto tale, per raggiungere dei risultati essenziali di comfort, praticità ed aspetto generale. Egli quasi ignora le problematiche connesse all’aspetto “decorativo”, tanto da sostenere: “nelle stoffe guardo poco il colore, cerco invece le strutture, le trame, l’aspetto tecnico funzionale…”. È però senza dubbio anche la possibilità di poter giocare con i colori e con le fantasie che contribuisce al successo di Nathalie. È importante considerare che tale successo sia anche frutto di un secondo aspetto: la ricerca di un nuovo modo di dormire.
Nathalie diventa infatti il simbolo di un’attenzione all’aspetto più profondo del riposo: il letto non solo come oggetto di arredamento, ma anche strumento di benessere. Flou si fa quindi portavoce di una nuova filosofia, quella del dormire bene. Negli anni infatti il “letto tessile” si è evoluto in un vero e proprio sistema con la possibilità di scegliere tra quattro basi (rigida, con contenitore, in alluminio) e tre piani di riposo diversi (a doghe regolabili, ortopedico con movimento manuale o elettrico), adattandosi a diverse esigenze, e confermando la capacità dell’azienda di innovare il prodotto seguendo le esigenze del mercato. Ciò riecheggia nelle parole di Renato Messina: “quando abbiamo capito che il televisore passava dal salotto alla camera da letto, abbiamo reso reclinabile il nostro Nathalie”.
Dopo quasi cinquant’anni Nathalie continua ad essere un oggetto destinato al consumo ma “sottratto alle logiche del consumismo”, poiché continua a rappresentare qualcosa in cui riconoscersi, ad essere un oggetto che diventa parte integrante della casa e della sua quotidianità, in quell’ottica di durabilità, qualità e semplicità propria del “buon design”. In esso forma e funzione procedono in modo parallelo, l’individualità e la creatività del progettista dialogano con le tecniche e i materiali dell’industria, allo scopo di entrare non solo sul mercato, ma anche nella vita delle persone, suggerendo loro un nuovo modo di usare la realtà che è, secondo Magistretti, il vero compito del Design.