La Battaglia di Anghiari, il capolavoro di Leonardo da Vinci che non fu mai dipinto


Nel 1503, Leonardo da Vinci fu incaricato dalla Repubblica di Firenze di dipingere un grandioso affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio. Quell'opera non sarebbe mai stata realizzata.

Nell’ottobre del 1503, la Repubblica di Firenze commissionò a Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) la realizzazione di un grande affresco che avrebbe dovuto decorare una delle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, sul tema della battaglia di Anghiari. Sulla parete opposta, Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564) avrebbe invece dipinto un’altra scena di guerra, la battaglia di Cascina. Si trattava di un incarico di grande prestigio e di elevato valore simbolico: la Repubblica intendeva infatti celebrare gli eventi che avevano sancito il trionfo di Firenze sui suoi nemici, e intendeva farlo nell’ambiente più grande (54 metri di lunghezza per 23 di larghezza e 18 di altezza) e più prestigioso della sede del potere cittadino, il Salone dei Cinquecento, all’epoca il “Salone del Maggior Consiglio”, ovvero il locale dove si tenevano le sedute del Maggior Consiglio della Repubblica, istituzione composta da cinquecento cittadini fiorentini (una sorta di Parlamento) e fondata negli anni in cui il potere era de facto detenuto da Girolamo Savonarola, che commissionò anche la realizzazione dell’ambiente, costruito tra il 1495 e il 1496, in soli sette mesi, su progetto di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e Francesco di Domenico.

L’idea di far decorare la sala con gli episodi delle battaglie vinte in passato dai fiorentini era stata del gonfaloniere della Repubblica (ovvero la massima carica dello Stato), Pier Soderini, che chiamò pertanto l’affermato Leonardo e l’emergente Michelangelo, separati da ventitré anni d’età. Si trattava di un’operazione estremamente impegnativa, date le dimensioni dell’ambiente e la novità del soggetto, tanto che alla fine né Leonardo né Michelangelo riuscirono a portare a termine l’impresa: il primo perché fallì nel tentativo di sperimentare, come si vedrà, una particolare tecnica realizzativa, il secondo perché abbandonò il progetto prima di portarlo a termine, lasciando Firenze per trasferirsi a Roma.

La battaglia che toccò a Leonardo fu combattuta il 29 giugno del 1440 ad Anghiari, vicino ad Arezzo, tra l’esercito di Firenze, comandato da Micheletto Attendolo (Cotignola, 1370 circa – Pozzolo Formigaro, 1463), Pietro Giampaolo Orsini (? - Monte San Savino, 1443) e Ludovico Scarampo Mezzarota (Venezia, 1401 - Roma, 1465), e quello di Milano, guidato dall’umbro Niccolò Piccinino (Perugia, 1386 - Milano, 1444), capitano di ventura al soldo del duca di Milano, Filippo Maria Visconti. L’episodio si colloca nel quadro dell’espansionismo milanese nell’Italia centrale: cadute le mire milanesi su Brescia e Verona (il ducato non riuscì a conquistare la prima e perse la seconda per mano di Venezia), Visconti si risolse di attaccare la Toscana con lo scopo principale di indebolire i veneziani, alleati dei fiorentini. L’esercito di Piccinino partì nel mese di febbraio: dopo aver ottenuto il passaggio dai territori dei Malatesta nel cesenate, i milanesi puntarono sull’Appennino, arrivando nel Mugello il 10 aprile dopo aver saccheggiato e sottoposto a violenze diversi borghi lungo il cammino. Nel frattempo, i fiorentini, allarmati, avevano stretto un accordo con Venezia in vista di un possibile scontro, e poco dopo un aiuto arrivò anche dallo Stato Pontificio: i tre schieramenti (i fiorentini guidati da Orsini, i veneziani da Attendolo e i pontifici da Scarampo Mezzarota) all’inizio dell’estate erano dunque pronti per lo scontro con le forze milanesi, che avvenne all’alba del 29 giugno. Ad avvistare l’esercito di Piccinino fu Attendolo che venne a trovarsi alla testa dello schieramento, seguito dalle due ali, con a sinistra i fiorentini e a destra le forze inviate dal papa. Le forze fiorentine riuscirono a stringere i milanesi nei pressi del ponte che attraversava il torrente prima di Anghiari: la mossa tattica si rivelò vincente perché i milanesi, trovandosi in uno spazio angusto, non riuscirono ad avere la meglio sui fiorentini nonostante la violenza delle loro cariche, vennero accerchiati dai nemici e, a fine giornata, furono costretti a battere in ritirata. La vittoria fiorentina fu decisiva perché segnò la fine delle ambizioni milanesi sull’Italia centrale.

Il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Ph. Credit Targetti Sankey
Il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze. Ph. Credit Targetti Sankey

La battaglia di Anghiari, la raffigurazione di Leonardo da Vinci, il significato dell’opera

Il momento su cui si concentrò l’attenzione di Leonardo da Vinci è quello della lotta per lo stendardo, descritto nei dettagli dalle fonti: “Il Capitano nostro”, scrisse Neri di Gino Capponi nei suoi Commentari riferendosi a Pietro Giampaolo Orsini, “corse dall’altro lato con circa 400 cavalli, andò ad assaltare lo stendardo inimico, e presolo, e furono rotti”. Il giorno dopo la battaglia, i commissari di Firenze, Gino Capponi e Bernardo de’ Medici, scrissero un dispaccio in cui si legge che “gli stendardi abiamo qui e per lo aportatore ve li manderemo senon che vorremo si perdessero”. E poi ancora, la lotta è ben descritta anche dal notaio Giusto di Anghiari nel suo Diario: “Fu grandissima vittoria, e tolsaro loro gli stendardi. Fecisene gran festa e meritamente perché fu la salute di Toscana. Scampò Niccolò Piccino con circa 1500 cavalli in lo Borgo e la notte medesima si fuggì e passò l’Alpi con gran suo danno e vergogna”. Leonardo scelse di rappresentare la feroce battaglia tra i capi degli schieramenti a cavallo per entrare in possesso del vessillo dell’esercito milanese: non ci sono noti gli originali leonardiani, ma soltanto copie o derivazioni, la più famosa delle quali è sicuramente la Tavola Doria, recentemente attribuita, pur senza consenso unanime, a Francesco Morandini detto il Poppi (Poppi, 1544 - Firenze, 1597), uno dei maggiori artisti del secondo Cinquecento in Toscana. Meno noti, ma non meno importanti, sono due disegni forse tratti dal cartone originale (che purtroppo al momento non ci è noto): uno conservato nelle collezioni dei Reali dei Paesi Bassi all’Aia (forse è la versione più vicina all’originale di Leonardo) e uno custodito al Louvre, opera di un anonimo ma ritoccata nel Seicento da Pieter Paul Rubens.

Da queste derivazioni possiamo farci un’idea di come Leonardo avesse immaginato la scena: a sinistra, il condottiero Francesco Piccinino (Perugia, 1407 circa - Milano, 1449), figlio di Niccolò, che doveva essere raffigurato subito al suo fianco, entrambi colti in espressioni di brutalità e violenza, con le bocche spalancate in urla animalesche e gli occhi colti in espressioni inferocite. A fianco, il patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampo Mezzarota, e il nobile abruzzese Pietro Giampaolo Orsini, in atteggiamento più tranquillo e con indosso due elmi che incarnano valori simbolici: Mezzarota, in particolare, indossa un elmo decorato con un drago (che secondo lo storico dell’arte Frank Zöllner, insigne leonardista che si è occupato per molto tempo della Battaglia di Anghiari, è simbolo di valore militare e prudenza), mentre Orsini indossa un elmo corinzio come quello che portava la dea Atena. Al contrario, Francesco Piccinino doveva avere l’armatura decorata con corna caprine, allusione al demonio. In Niccolò Piccinino si è voluto invece vedere un ritratto di Marte, il dio della guerra, ma non per esaltarlo, bensì per mettere in rilievo i tratti negativi che nel Rinascimento erano associati a questa divinità (una poesia dell’umanista Lorenzo Spirito Gualtieri, del 1489, lo descrive così: “Sopra un cavallo un forte cavaliere / E tucte le sue arme erano di fuoco / Nel viso pieno d’una ira e di uno sdegno / Che faceva tremare tucto quello loco”): Marte, nella sua dimensione di dio vendicativo, malvagio e traditore, nella mentalità dell’epoca ben si prestava a essere il nume cui erano associati quei capitani di ventura altrettanto violenti e disposti a cambiare casacca con estrema facilità. La scena feroce doveva essere chiusa in basso da due soldati che combattevano a mani nude, esempi di quella rozza soldataglia che nel Rinascimento si univa alle schiere dei capitani di ventura spesso male armata, o disarmata, e motivata quasi esclusivamente dalla possibilità di mettere a segno saccheggi e violenze lungo le marce.

Un ruolo non di secondo piano era riservato ai cavalli, caratterizzati (lo vediamo dalle derivazioni) da espressioni atterrite: Leonardo, da animalista, probabilmente voleva esprimere il suo documentato dissenso nei confronti della guerra proprio attraverso le figure dei due animali (“Leonardo”, ha scritto Louis Godart, “ha reso mirabilmente lo stato d’animo degli animali impegnati nella lotta. Gli occhi dei due cavalli costretti dai loro cavalieri a scontrarsi e annientarsi a vicenda guardano spaventati i due uomini che si sbranano tra le loro gambe. Ho l’impressione che il maestro abbia voluto esprimere tutta l’avversione di questi animali per lo scontro nel quale la rabbia e la follia degli uomini li hanno trascinati”). L’opera non doveva infatti essere scevra di implicazioni politiche e allegoriche. Nel primo caso, la Battaglia di Anghiari doveva essere una celebrazione della forza e della virtù di Firenze, in grado di soggiogare un nemico bestiale poco interessato alla gloria (Leonardo aveva infatti intenzione di raffigurare Francesco Piccinino nell’atto di fuggire: il giovane umbro fu un capitano di ventura poco abile, noto anche per essere stato sconfitto con disonore dai veneziani a Mezzano nel 1446), e incline alla violenza. Lo si sarebbe notato anche per l’opposizione tra la ragione incarnata dalla dea Atena dell’elmo di Orsini, e la malvagità di Marte che avrebbe trovato la sua personificazione in Niccolò Piccinino. “I fiorentini”, ha scritto Godart riprendendo la tesi di Zöllner sul messaggio politico dell’opera, “si identificavano con l’Atena vittoriosa grazie a una condotta di guerra prudente. Questo ulteriore elemento tende a rafforzare l’antitesi tra due dei cavalieri [...]. Mentre Francesco Piccinino ha un elmo decorato con corna caprine che sottolineano il carattere bestiale e diabolico del personaggio, Pietro Giampaolo Orsini indossa un elmo la cui visiera ricorda la dea dell’intelligenza”. Del resto, ha scritto ancora Godart, Leonardo “sapeva di dover realizzare un’opera dal forte impatto politico. Si trattava di mostrare attraverso la raffigurazione della Battaglia di Anghiari il trionfo di una Firenze riflessiva, forte dei suoi diritti e delle sue istituzioni, su un esercito di mercenari brutali e spietati”.

Vale infine la pena notare come Leonardo abbia anche voluto ammantare l’opera d’una propria idea personale, il suo rifiuto e il suo odio nei confronti della guerra, da lui definita una “pazzia bestialissima” nel suo Trattato della pittura. E la Battaglia di Anghiari diventa pertanto, scrive Godart, “una denuncia implacabile della guerra”. Così del resto l’artista scriveva nel Corpus degli studi anatomici: “pensa esser cosa nefandissima il torre la vita all’omo [...], e non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, che veramente chi nolla stima nolla merita”. La guerra, secondo Leonardo, diventava un male necessario solo se necessaria per conquistare la libertà: “per mantenere il dono principal di natura, cioè libertà, trovo modo da offendere e difendere in stando assediati da li ambiziosi tiranni”, scrisse in una nota che troviamo nel manoscritto Ashburnham.

Francesco Morandini detto il Poppi (?), Tavola Doria (1563?; olio su tavola, 86 x 115 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Francesco Morandini detto il Poppi (?), Tavola Doria (1563?; olio su tavola, 86 x 115 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)


Dettagli della Tavola Doria: Francesco Piccinino e Niccolò Piccinino
Dettagli della Tavola Doria: Francesco Piccinino e Niccolò Piccinino


Dettagli della Tavola Doria: Ludovico Scarampo Mezzarota e Pietro Giampaolo Orsini
Dettagli della Tavola Doria: Ludovico Scarampo Mezzarota e Pietro Giampaolo Orsini


Dettagli della Tavola Doria: i soldati che lottano a terra
Dettagli della Tavola Doria: i soldati che lottano a terra


Dettagli della Tavola Doria: il soldato con lo scudo
Dettagli della Tavola Doria: il soldato con lo scudo


Dettagli della Tavola Doria: gli sguardi dei cavalli
Dettagli della Tavola Doria: gli sguardi dei cavalli


Artista anonimo, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo; gessetto, matita e penna su carta, 435 x 565 mm; L'Aia, Collezioni dei Reali dei Paesi Bassi)
Artista anonimo, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo; gessetto, matita e penna su carta, 435 x 565 mm; L’Aia, Collezioni dei Reali dei Paesi Bassi)


Anonimo del XVI secolo e Pieter Paul Rubens, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo con ritocchi successivi di Rubens; matita nera, penna e inchiostro bruno e grigio, matita grigia e pigmenti bianchi e grigio-blu su carta, in origine 428 x 577 mm poi ingrandito a 453 x 636 mm; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques)
Anonimo del XVI secolo e Pieter Paul Rubens, Copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci (XVI secolo con ritocchi successivi di Rubens; matita nera, penna e inchiostro bruno e grigio, matita grigia e pigmenti bianchi e grigio-blu su carta, in origine 428 x 577 mm poi ingrandito a 453 x 636 mm; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques)

Cosa rimane della Battaglia di Anghiari?

“Addi 6 di giugno 1505 in venerdi al tocho delle 13 ore cominciai a colorire in palazo nel qual punto del posare il pennelo si guastò il tempo e sonò a banco richiedendo li omini a ragone. Il cartone si straccò l’acqua si versò e rupesi il vaso dell’acqua che si portava e subito si guastò il tempo e piovve insino a sera acqua grandissima e stette il tempo come notte”. Questa la descrizione dell’inizio dei lavori, in una nota scritta da Leonardo: l’impresa non cominciò davvero sotto i migliori auspici, e infatti la Battaglia di Anghiari, come detto sopra, non fu mai realizzata. Si è a lungo ritenuto che Leonardo avesse voluto sperimentare, per il suo murale, la tecnica dell’encausto, da adoperare in luogo del tradizionale affresco. La tecnica prevedeva la realizzazione dell’opera sull’intonaco secco, e la conseguente asciugatura mediante il calore sprigionato da pentoloni alimentati a legna. Questo è il racconto fornito dall’Anonimo Magliabechiano sull’esito fallimentare dell’esperimento di Leonardo: “più basso il fuoco aggiunse e seccolla [la pittura, ndr], ma lassù in alto, per la distanza grande, non si aggiunse il calore e la materia colò”. Così invece Giorgio Vasari nelle Vite: “Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipingere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quello”. Sulla scorta di queste narrazioni, si è pensato che il calore dei pentoloni non fosse stato abbastanza elevato da poter asciugare la parte alta del dipinto, col risultato che la porzione più elevata sarebbe colata rovinando tutto il lavoro. In realtà, secondo una recente ipotesi dello storico dell’arte Roberto Bellucci, le cose sarebbero andate diversamente: l’encausto prevedeva infatti l’uso delle cere (e non dell’olio), che si sarebbero sciolte comunque se esposte a una fonte di calore diretta. Il calore, infatti, serviva semmai per scaldare il supporto al fine di far aderire meglio i colori sciolti nella cera, secondo la descrizione della tecnica fornita da Plinio il Vecchio (era infatti già impiegata nella Roma antica). Se Leonardo avesse scelto di lavorare con l’encausto, semmai i problemi si sarebbero verificati nella parte alta. Secondo Bellucci è dunque molto più probabile che i colori scelti da Leonardo fossero incompatibili con il supporto: possiamo avvalorare questa ipotesi anche stando a un’osservazione dell’umanista Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1552), che scrisse, nella sua biografia di Leonardo da Vinci redatta tra il 1523 e il 1527, che “nella sala del Consiglio della Signoria fiorentina rimane una battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta a causa di un difetto dell’intonaco che rigettava con singolare ostinazione i colori sciolti in olio di noce”. I nuovi studi condotti nel 2020 da un’équipe guidata da Cecilia Frosinini, esperta di Leonardo da Vinci e direttrice del dipartimento Restauro pitture murali dell’Opificio delle Pietre Dure, sono infine giunti alla conclusione che l’artista non abbia mai dipinto niente nel Salone dei Cinquecento: semplicemente, ebbe problemi nella preparazione del supporto, e abbandonò la sua idea.

Cosa rimane dunque di sua mano? Soltanto pochi studi: ce ne sono alcuni con la posizione dei cavalieri e la composizione della mischia, conservati alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, e poi abbiamo un disegno con alcuni cavalieri con stendardi alla Royal Library di Windsor, un foglio con studi per i due cavalieri di destra custodito agli Uffizi, e infine due fogli al Museo di Belle Arti di Budapest, ovvero uno studio di una testa di cavaliere, e lo studio autografo più famoso per la Battaglia di Anghiari, quello per la testa di Niccolò Piccinino. Non ci sono rimasti, purtroppo, studi sulla composizione definitiva: il disegno che più si avvicina è quello del foglio 215 delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, dimostrazione eccezionale, ha scritto Annalisa Perissa Torrini, “dell’incredibile capacità grafica di Leonardo nel riuscire a concentrare la turbinosa mischia della battaglia, sapendola rendere con pochi tratti concitati, come in una miniatura, ma di sicuro effetto realistico”. Qui, nella metà superiore del foglio, troviamo una mischia tra i combattenti a cavallo che, scrive ancora Perissa Torrini, “è tracciata con segno estremamente rapido, che traduce l’immediatezza dell’idea con grande sicurezza, sapendo ottenere l’effetto delle due masse aggrovigliate e contrapposte dei combattenti in movimento vorticoso e caotico mediante un forte contrasto chiaroscurale. Nelle figure di pedoni, al contrario, il segno è volutamente spezzato, senza ombreggiature, nell’intento precipuo di studiare i vari movimenti dei fanti, piegati in affondo, ripresi di fianco, con torsioni ardite dei busti e concentrati nello sforzo di colpire l’avversario con la maggior forza possibile”. Sono riflessi di quanto Leonardo da Vinci scriveva nel Trattato della pittura: “I combattenti, quanto più saranno infra la turbolenza, tanto meno si vedranno e meno differenza sarà da loro lumi alle loro ombre”. Nella parte inferiore del foglio è invece raffigurata un’altra mischia, ma più numerosa: è la più affollata tra quelle note.

Altrettanto importante è lo studio per la testa di Niccolò Piccinino, che rappresenta, quasi sicuramente, l’immagine di come doveva essere il condottiero umbro nel dipinto ultimato, così come l’altro disegno di Budapest, probabilmente lo studio quasi definitivo della testa di Pietro Giampaolo Orsini. Secondo la studiosa Carmen Bambach, per quest’ultimo disegno Leonardo “ha dapprima tracciato i contorni della testa, in maniera grossolana, quindi ha modellato le ombre con tratti paralleli, con il suo caratteristico modo di disegnare dall’angolo in basso a destra verso quello in alto a sinistra. Poi ha strofinato i tratti per ottenere un effetto di continuità, e per rinforzare i contorni ha calcato abbastanza forte col gessetto sulla carta”. Sono fogli di altissima qualità, dove vediamo le teste di due dei protagonisti al loro massimo grado di elaborazione, e su cui non ci sono dubbi seri in merito all’autografia leonardiana. Sono però tutto ciò che ci rimane della Battaglia di Anghiari tra ciò che Leonardo realizzò di sua mano: tutto il resto è noto da copie.

Leonardo da Vinci, Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro marrone su carta noce chiaro, 160 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell'Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro marrone su carta noce chiaro, 160 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)


Leonardo da Vinci, Cavalieri in lotta, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell'Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Cavalieri in lotta, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)


Leonardo da Vinci, Mischie di cavalieri, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell'Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Mischie di cavalieri, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)


Leonardo da Vinci, Cavalieri con stendardi, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto nero su carta chiara, 160 x 197 mm; Windsor, Royal Library)
Leonardo da Vinci, Cavalieri con stendardi, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto nero su carta chiara, 160 x 197 mm; Windsor, Royal Library)


Leonardo da Vinci, Cavalieri, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro su carta; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Studî per la testa di Niccolò Piccinino, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 191 x 188 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)


Leonardo da Vinci, Testa di cavaliere, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 227 x 186 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
Leonardo da Vinci, Testa di cavaliere, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 227 x 186 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)


Leonardo da Vinci, Studî per la testa di Niccolò Piccinino, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 191 x 188 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)
Leonardo da Vinci, Studî per la testa di Niccolò Piccinino, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; gessetto rosso e nero su carta rosa, 191 x 188 mm; Budapest, Szépművészeti Múzeum)

Che fine ha fatto la Battaglia di Anghiari che Leonardo dipinse nel Salone dei Cinquecento?

Spinti dall’idea che Leonardo avesse provato a dipingere su parete la Battaglia di Anghiari, molti si sono domandati che fine avessero fatto gli eventuali resti del murale: le ultime notizie sulle forniture per l’opera risalgono al 31 ottobre del 1505, e il 30 maggio 1506 l’artista aveva già lasciato Firenze per tornare a Milano. Leonardo sarebbe rientrato a Firenze solo tra il 1507 e il 1508, ma senza completare l’opera. Nel 1510 il cronista Francesco Albertini, nel descrivere la “Sala Grande Nuova del Consiglio Maggiore”, affermava che vi si trovavano “una tavola di fra Filippo, li cavalli di Leonardo Vinci et li disegni di Michelangelo” (anche se non è detto che “li cavalli” fossero quelli dipinti sul muro: potrebbe infatti trattarsi della tavola con la composizione finita che Leonardo preparò prima dell’impresa nella Sala del Papa in Santa Maria Novella). Ma esiste un documento del 23 febbraio del 1513 che attesta un pagamento a un falegname, Francesco di Cappello, per “armare le fighure dipinte nella Sala grande della guardia, di mano di Lionardo da Vinci”. E poi, negli anni Venti Giovio riferiva, nel brano sopra riportato, che nella Sala del Connsiglio si trovava la “battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta”. È però probabile che tutti questi testi si riferiscano al cartone o alla tavola eseguita nella Sala del Papa, e non a un eventuale frammento, tanto che, peraltro, Vasari nelle sue Vite non fa alcun riferimento a eventuali resti dell’opera.

Come è noto, sulla parete che avrebbe dovuto accogliere la Battaglia di Anghiari, Giorgio Vasari eseguì i magnifici affreschi, dipinti tra il 1562 e il 1565, che ancora oggi si possono ammirare nel Salone dei Cinquecento, e che raffigurano anch’essi scene di battaglie vinte dai fiorentini. E se Vasari, nelle sue Vite (la seconda edizione, la giuntina, è del 1568), non cita eventuali frammenti leonardiani, è altamente probabile che già quando dovette lavorare sull’opera niente si conservasse di quanto tentato dal vinciano nella sala. Eppure, nonostante non ci fosse alcuna evidenza che nel Salone dei Cinquecento fosse sopravvissuto qualcosa di Leonardo, nel 2007 fu dato il via a una campagna d’indagini, guidata dall’ingegnere Maurizio Seracini, fondatore del Center of Interdisciplinary Science for Art, Architecture and Archaeology dell’Università di San Diego in California, che aveva l’obiettivo di riportare alla luce la Battaglia di Anghiari. Secondo Seracini, Vasari avrebbe agito in modo da conservare il dipinto di Leonardo dietro il suo affresco, quello raffigurante la Battaglia di Scannagallo. La campagna cominciò dapprima con studi non invasivi, dopodiché, nel 2011, si passò alla fase operativa: nell’agosto di quell’anno furono installati i ponteggi per consentire al team di Seracini di sondare la parete attraverso dei radar che avrebbero dovuto rilevare l’intercapedine che, secondo Seracini, nascondeva il dipinto di Leonardo (nell’ottobre l’affresco di Vasari fu effettivamente bucato, con un enorme strascico di polemiche e la contrarietà unanime della comunità scientifica). L’ingegnere basava la sua idea sulla presenza di questa intercapedine dietro all’affresco, e sulla presenza di alcuni stendardi con la scritta “Cerca trova”, malamente interpretato come un invito di Vasari a cercare l’opera di Leonardo, ma in realtà (e molto più semplicemente) un riferimento a un episodio della storia fiorentina legato alla battaglia raffigurata, come è stato spiegato ampiamente anche su queste pagine da Federico Giannini all’epoca dei fatti. Seracini prelevò alcuni campioni di colore, estratti bucando l’opera di Vasari, e si convinse di aver trovato i pigmenti “di Leonardo” (in realtà, all’epoca tutti gli artisti usavano gli stessi colori: non esistevano artisti che adoperavano pigmenti in esclusiva). L’Opificio delle Pietre Dure chiese di poter studiare i frammenti estratti, ma non li ricevette mai: si è poi scoperto che non erano materiali pittorici, ma elementi comuni nelle murature del tempo. Ad ogni modo, nel 2012 le ricerche si conclusero e a nessuno è più venuto in mente di tirar fuori dalla parete del Salone dei Cinquecento l’opera di Leonardo.

Che fine ha fatto dunque l’opera? La parola “fine” sulla questione è arrivata nell’ottobre del 2020. “Non c’è nessuna Battaglia di Anghiari sotto il dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio”: questa la dichiarazione di Cecilia Frosinini, a seguito di un convegno i cui risultati sono stati pubblicati nel libro La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo, del 2019 ma presentato l’anno successivo. I nuovi studi, come ricordato sopra, sono giunti alla conclusione che Leonardo non dipinse mai la battaglia sul muro della sala, nonostante sia provata e documentata l’esistenza dei cartoni. Purtroppo, la preparazione del muro non andò per il verso giusto, la Battaglia di Anghiari non fu mai dipinta, e per anni si è cercato di tirar fuori dal Salone dei Cinquecento un’opera inesistente.

Bibliografia essenziale

Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti e Cecilia Frosinini (a cura di), La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo, Olschki, 2019
  • Gabriele Mazzi (a cura di), Arte di governo e la battaglia di Anghiari. Da Leonardo da Vinci alla serie gioviana degli Uffizi, catalogo della mostra (Anghiari, Museo della Battaglia e di Anghiari, dal 1° settembre 2019 al 12 gennaio 2020), S-EriPrint Editore, 2019
  • Louis Alexander Waldman, La Tavola Doria. Francesco Morandini, detto il Poppi, copista della Battaglia di Anghiari di Leonardo in Alberta Piroci Branciaroli, Nel segno di Leonardo. La Tavola Doria dagli Uffizi al Castello di Poppi, catalogo della mostra (Poppi, Castello, dal 7 luglio al 7 ottobre 2018), Polistampa, 2018
  • Cristina Acidini, Marco Ciatti (a cura di), La Tavola Doria tra storia e mito, atti della giornata di studio (Firenze, Salone Magliabechiano della Biblioteca degli Uffizi, 22 maggio 2014), Edifir, 2015
  • Marco Versiero, “Trovo modo da offendere e difendere”: la concezione della guerra nel pensiero politico di Leonardo in Cromohs, 19 (2014), Firenze University Press, pp. 63-78
  • Louis Godart, La Tavola Doria. Sulle tracce di Leonardo e della “Battaglia di Anghiari” attraverso uno straordinario ritrovamento, Mondadori, 2012
  • Carmen C. Bambach (a cura di), Leonardo Da Vinci: Master Draftsman, catalogo della mostra (New York, The Metropolitan Museum of Art, dal 22 gennaio al 30 marzo 2003), The Metropolitan Museum ed., 2003
  • Frank Zöllner, La Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci fra mitologia e politica, XXXVII Lettura Vinciana (18 aprile 1997), Giunti, 1998
  • Frank Zöllner, Rubens Reworks Leonardo: ’The Fight for the Standard’ in Achademia Leonardi Vinci, 4 (1991), Giunti, pp. 177-190

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