“Il critico deve aiutare a capire, non parlare in critichese”. Lea Vergine sulla critica


Un omaggio a Lea Vergine, due giorni dopo la sua scomparsa, per ricordare una delle sue principali premure: che la critica d'arte riesca a farsi capire dal pubblico.

“Oggi ci sono solo curatori, i critici sono rarissimi. E il curatore chi è? È una persona che passa il tempo sugli aerei a cercare su commissione le novità in tutto il mondo. Cioè, è un manager. È quello che prima faceva il mercante mosso da passione. Questi sono mossi dalla necessità degli ordini che hanno avuto, cioè trovare il nuovo, trovare un nuovo con cui si può fare un affare. Il nuovo. Però il nuovo non c’è mai”. Sono parole che Lea Vergine (Napoli, 1938 - Milano, 2020), la grande critica d’arte scomparsa l’altro ieri, rivolgeva lo scorso anno in un’intervista a Stefania Gaudiosi, da cui poi sarebbe scaturito il libro Necessario è solo il superfluo. Intervista a Lea Vergine, edito da Postmedia Books nel 2019. Negli ultimi tempi, Lea Vergine aveva in più occasioni sottolineato una delle caratteristiche dell’arte di oggi: la presenza di troppi curatori e la quasi scomparsa della critica. In pratica, sono quasi del tutto sparite quelle figure che fornivano al pubblico giudizi sugli artisti (anche negativi e pesanti, se necessari) aiutandolo a fare ordine tra le proposte in arrivo dall’ambiente. Per Lea Vergine, una delle caratteristiche fondamentali del critico è la sua capacità di farsi comprendere dal pubblico.

E in questo senso è decisamente rivelatore un brano tratto da L’arte non è faccenda di persone perbene, una sorta di autobiografia di Lea Vergine scritta con la collaborazione di Chiara Gatti e pubblicata nel 2016 da Rizzoli. In questo brano, Lea Vergine si scaglia contro il “critichese” e rimarca l’esigenza di una critica che sia in grado di farsi capire dal pubblico. Ma non solo: nel testo, la critica di origini napoletane indica anche quali devono essere i presupposti per giudicare un’opera d’arte. Riportiamo di seguito il brano come omaggio alla figura di Lea Vergine.

Lea Vergine
Lea Vergine

Quanto è importante la scrittura nella critica d’arte?

Non si può voler fare il critico d’arte e non saper scrivere, perché cessa la funzione di mediare tra l’opera e il pubblico.

Molto spesso si parla di «critichese» riferendosi a un linguaggio involuto e poco chiaro. Il critichese è sempre esistito. Il critico, invece, deve aiutare a fare comprendere le idee ai lettori, scrivere osservazioni che ne facciano sorgere altre nella mente, sollecitare chi legge, ma anche stupire, stimolare la curiosità. Ci si rivolge sempre a una persona di media cultura, che leggerà le tue parole, quindi gli si daranno i riferimenti giusti, gli si spianerà il percorso.

Non dovrà servirsi di nozioni stramasticate o di stranezze pseudoconturbanti. Dovrà avere anche umorismo e ironia. Sì, nel mondo dell’arte, dovrebbe esserci più ironia. In passato ci sono stati critici d’arte spiritosi. Cesare Brandi, per esempio, era frizzante quando scriveva. Aveva levità e leggerezza. Oltre alla virtù di non prendersi troppo sul serio. Perché, alla fine, si tratta pur sempre di arte e non certo di trascendente. La critica, esattamente come la narrativa, si fa di frase in frase, di periodo in periodo, di parola in parola.

Oggi, a distanza di tempo, guardando indietro, ho capito che quello che mi è sempre interessato di più era il suono della frase abbinato alla sua rivelazione. Le cose che importano sono quelle nascoste al di là dell’opera d’arte stessa; le cose che non si vedono, ma che tu – critico – devi cavare fuori. Devi addirittura inventarle, se serve.

Un lettore non deve essere ammorbato. E l’ammorbamento deriva dal fatto che il critico spesso non capisce quanto sia importante muoversi in una dimensione dove si conoscono musica, letteratura, teatro, cinema eccetera; un confronto che ossigena la testa.

Come si giudica un’opera d’arte?

L’arte è una questione di forma. Se ascoltiamo un canto gregoriano o ambrosiano o un notturno di Chopin, siamo coscienti del fatto che siano tutte musiche splendide, diverse tra loro, ma ugualmente intense. Perché la loro forma è perfetta, al di là del tempo e dello spazio. Lo stesso vale per l’arte.

Buster Keaton era divino. Ti catturava con le sue movenze. Come certi danzatori. Il corpo come linguaggio trova i suoi migliori interpreti già ai primi anni del Novecento, se pensiamo, per esempio, alle danze delle artiste futuriste: Giannina Censi ballava con un costume che si fece disegnare da Enrico Prampolini.

Possedere il senso della composizione è fondamentale. Dalle grotte di Altamira alla body art, la storia non cambia. Una volta, vidi Gilbert & George al Museo d’Arte Moderna di Torino. Tutti dipinti d’oro, in piedi sopra un tavolino, cantavano con una voce un po’ roca e danzavano con un bastoncino in mano, alla maniera degli anni Trenta, intonando un motivetto antico. Incantevole. C’era qualcosa che andava oltre la musica e oltre la danza. E così Gina Pane. Qualunque cosa facesse era impressionante. Impiegava lunghi mesi per preparare le sue performances. Aveva una fotografa che la seguiva nelle prove. Prima di esibirsi si sottoponeva alla dieta del fantino per perdere peso.

Entrambe le performances avevano una cosa in comune: una componente formale. Erano quadri in movimento. Quadri viventi, «sculture viventi», come le battezzarono proprio Gilbert & George. Entrambe mostravano un senso della composizione impeccabile.

Molto diverso dalla performance a cui assistetti una sera nella galleria di Inga-Pin. Vidi un’azione del performer californiano Ron Athey, The Solar Anus (1998), omaggio allo scrittore surrealista Georges Bataille. Un corpo quasi interamente tatuato, un sole nero irradiante nella zona anale dalla quale, in luogo delle feci, escono matasse di perle e aureole di luci. Circo, décor stradale come nel Settecento, esibizione masochista e narcisizzante? Certo: aggiungiamoci il regresso all’infanzia. Ma se, tra grottesco e patetico, viene fuori una sinistra allegrezza, insieme a un’atmosfera da favola; se l’officiante, per così dire, nel mezzo di questo «non mori sed pati», si applica con estrema lentezza una corona aurea sul capo; se cioè nel corso di un avvenimento che può essere giudicato demenziale e abietto si dà un tratto di letizia e di poesia nei gesti minimi, nei minimi episodi, nelle circostanze minori, una poesia fatta di piccoli niente che fanno prendere coscienza di qualcosa d’altro (come nell’arte), vorrà dire che la patologia è infranta per arrivare a essere culturalmente redenta.

Ogni tanto mi viene qualche dubbio, guardando un quadro di Pollock e tutti quei tubetti di colore spremuto. Certi moti di sarcasmo sono giustificati. L’arte non è una religione, né una faccenda per persone perbene. Le cosiddette persone perbene si astengano dal partecipare e dal giudicare, nessuno le obbliga. Ai loro occhi si formano cliché abusati, come il solipsismo di artistoidi considerati tipi bizzarri. L’arte richiede di essere studiata per essere situata, inquadrata. Inutile pensare che il rapporto con l’arte si determini nell’assoluta insipienza. L’arte è irregolare. Ma ne abbiamo bisogno, come del superfluo. Il superfluo è il veramente necessario.


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