Le opere che Dante vide a Ravenna, tra mosaici bizantini e capolavori di scuola giottesca


Che cosa può aver visto Dante negli ultimi due anni della sua vita, quando si trovava a Ravenna? E come le opere possono aver ispirato il suo Paradiso? Un itinerario dantesco a partire dalla mostra “Dante e le arti al tempo dell'esilio”.

“Esistono indubbie consonanze tra i decori musivi della città adriatica e le sfolgoranti visioni del sacrato poema: luce e colori giocano in entrambi i casi un ruolo primario come mezzi espressivi necessari a rappresentare l’indescrivibile, dando corpo a immagini incorporee e infondendo un movimento fittizio a ciò che in definitiva è immobile ed eterno”: a ipotizzare in questi termini i legami tra i tesori artistici antichi di Ravenna e le immagini del Paradiso di Dante Alighieri (Firenze, 1265 - Ravenna, 1321) è la studiosa Laura Pasquini, autrice nel 2008 di un denso saggio sulle iconografie dantesche con particolare riferimento a Ravenna. La città adagiata sulle rive dell’Adriatico, com’è noto, fu l’ultimo approdo del Sommo Poeta: qui Dante si spense nel 1321, dopo esservi giunto probabilmente nel 1319, anche se non è nota con certezza la data del suo trasferimento dalla Verona di Cangrande della Scala. La scelta di una città piccola e allora marginale come era Ravenna, nota Massimo Medica, curatore della bella mostra Dante e le arti al tempo dell’esilio (Ravenna, chiesa di San Romualdo, dall’8 maggio al 4 luglio 2021), è motivata da diversi fattori. Intanto, quello politico: Ravenna era governata dai Da Polenta, famiglia di fede guelfa. C’erano poi ragioni prettamente pratiche: il signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta (Ravenna, 1275 circa - Bologna, 1333), aveva garantito incolumità a Dante e alla sua famiglia, tanto più che la città viveva all’epoca un momento di grande tranquillità.

Probabilmente, c’erano anche ragioni culturali: il grande studioso Marco Santagata ha spiegato, nel suo recente Dante. Il romanzo, che Ravenna era priva di una vera corte, e il governo della città era piuttosto esercitato da una sorta di “famiglia” nei confronti della quale i vincoli di fedeltà di stampo feudale si mescolavano “ambiguamente ai rapporti di dipendenza retribuiti”, ma che comunque riconosceva i meriti culturali e artistici più che altrove. “Da questo punto di vista”, spiega Santagata, “anticipa in piccola misura ciò che succederà nelle corti vere e proprie, che considereranno la presenza di letterati e intellettuali un valore di per sé (e perciò anche un motivo di investimento economico”. Questo può forse essere anche il motivo per cui Guido Novello non è mai nominato nel Paradiso (a Ravenna, Dante avrebbe scritto gli ultimi tredici canti della Divina Commedia): dettaglio “significativo del fatto che il rapporto con quel signore”, si legge ancora in Santagata, “si collocava a un livello che poteva prescindere sia dagli smaccati encomi cortigiani profusi per Cangrande, sia dalle più eleganti attestazioni di riconoscenza rilasciate ai Malaspina”. Boccaccio addirittura arrivava ad affermare che fosse stato lo stesso Guido Novello a chiamare Dante a Ravenna, con un gesto proprio da signore mecenate rinascimentale, quindi piuttosto lontano dalla mentalità del tempo: in realtà non sappiamo con precisione come si verificò l’avvicinamento.

Quel che è certo, è che Dante non rimase insensibile all’arte ravennate: è quanto cerca d’illustrare la mostra della chiesa di San Romualdo. La Ravenna in cui il poeta si mosse era certo molto diversa rispetto alla città ch’era stata capitale dell’Esarcato d’Italia: tuttavia, Dante poteva comunque percorrere i grandi monumenti della Ravenna bizantina osservando le loro magnifiche decorazioni, le opere d’arte che le arricchivano, e magari ammirando anche le opere degli artisti contemporanei che le chiese più recenti conservavano. Nel suo recente L’Italia di Dante, l’italianista Giulio Ferroni, citando il Canto VI del Paradiso, quello in cui il poeta incontra l’imperatore Giustiniano (“Cesare fui e son Iustiniano / che, per voler del primo amor ch’i’ sento, / d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano”), immagina proprio un Dante che, “certo autorevolmente accompagnato”, entra a più riprese nella basilica di San Vitale, “muovendosi tra le possenti volte e contemplando i mosaici, illuminati come ora dalla luce naturale, pensando al canto VI del suo Paradiso, forse allora già scritto o forse proprio qui ideato, di fronte al corteo dell’imperatore, che, sulla parete laterale sinistra del presbiterio, sembra come fissare chi guarda, da una illimitata insondabile distanza, dal suo silenzio dorato affondato nell’oltretempo”. La figura di Giustiniano era presente anche nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo: per Dante, Giustiniano rappresentava “l’impero legittimo”, e quello stretto legame tra potere temporale e potere religioso ch’emerge dai mosaici ravennati riecheggia anche in Dante, cui era caro il concetto di accordo tra Chiesa e Impero: un’idea per la quale l’artista poté trovare conforto, spiega Medica facendo a sua volta riferimento agli studi di Pasquini, “anche in altri mosaici cittadini come quello perduto dell’abside della chiesa di San Giovanni Evangelista, dove sappiamo erano raffigurati Arcadio e Teodosio II con le rispettive mogli, insieme alle immagini clipeate di Costantino il Grande e degli imperatori della dinastia valentiniana-teodosiana associati simbolicamente alla raffigurazione del Salvatore in trono, posto al centro del catino absidale”.

A tutto ciò si può aggiungere anche l’effetto che lo splendore dei mosaici antichi poté sortire su Dante, magari animando l’immagine del Paradiso che il poeta si costruì nella mente. Ferroni ricorda che probabilmente nel mausoleo di Galla Placidia, magari osservando la volta azzurra con le stelle dorate che la punteggiano e la croce latina che risalta al centro della calotta della cupola, il poeta “avrebbe trovato suggestioni per qualcuna delle sue visioni paradisiache, per quei movimenti metamorfici di immagini con cui cerca di figurare il paradiso” (Paradiso XXIII: “e così, figurando il paradiso / convien saltar lo sacrato poema / come chi trova suo cammin riciso”). Allo stesso modo, Dante avrà sicuramente visto le immagini di Cristo in trono nelle varie chiese ravennati, come Sant’Apollinare Nuovo o San Michele in Africisco (quest’ultima spogliata della sua decorazione musiva a seguito dell’occupazione napoleonica: i mosaici furono smontati e venduti, e un frammento con una testa di san Michele, conservato al Museo di Torcello, è giunto a Ravenna per la mostra di San Romualdo): immagini che, ha suggerito la studiosa Gioia Paradisi, potrebbero esser messe in relazione con l’invettiva di san Pietro contro la corruzione della Chiesa (Paradiso XXVII), nella quale si evoca l’immagine del trono di Cristo vuoto che, per antitesi, richiama il suo trionfo (“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”).

Basilica di San Vitale. Foto Finestre sull’Arte
Basilica di San Vitale. Foto Finestre sull’Arte


L'imperatore Giustiniano e il suo corteo, mosaico nella basilica di San Vitale
L’imperatore Giustiniano e il suo corteo, mosaico nella basilica di San Vitale


Il mausoleo di Galla Placidia. Foto Comune di Ravenna
Il mausoleo di Galla Placidia. Foto Comune di Ravenna


La volta del mausoleo di Galla Placidia. Foto Finestre sull'Arte
La volta del mausoleo di Galla Placidia. Foto Finestre sull’Arte


Sala della mostra Dante e le arti al tempo dell'esilio. Foto Finestre sull'Arte
Sala della mostra Dante e le arti al tempo dell’esilio. Foto Finestre sull’Arte


Maestranze bizantine di San Michele in Africisco, Testa dell'arcangelo Michele (VI secolo; frammento musivo dalla chiesa bizantina di San Michele in Africisco a Ravenna, pietre naturali e paste vitree, 36,5 x 24 cm; Torcello, Museo di Torcello)
Maestranze bizantine di San Michele in Africisco, Testa dell’arcangelo Michele (VI secolo; frammento musivo dalla chiesa bizantina di San Michele in Africisco a Ravenna, pietre naturali e paste vitree, 36,5 x 24 cm; Torcello, Museo di Torcello). Foto di Francesco Bini

All’epoca in cui Dante era a Ravenna, ricorda ancora Massimo Medica, i Polentani avevano promosso una serie di restauri e rifacimenti delle antiche chiese al fine di assegnare un “nuovo volto alla Ravenna bizantina, come segno tangibile delle nuove forze in atto” (così Fabio Massaccesi), operazione che richiamò in città una gran mole di artisti e artigiani, tanto che Giorgio Vasari, nelle sue Vite, arrivò ad affermare che Dante avrebbe fatto da tramite per far giungere Giotto a Ravenna: “venendo agli orecchi di Dante poeta fiorentino che Giotto era in Ferrara, operò di maniera che lo condusse a Ravenna, dove egli si stava in esilio, e gli fece fare in S. Francesco per i Signori da Polenta alcune storie in fresco intorno alla chiesa, che sono ragionevoli”. La notizia di un Giotto chiamato a Ravenna su intercessione di Dante non è ovviamente riscontrabile, ed è probabile, spiega Medica, che nacque per via della corposa presenza in città di opere di artisti giotteschi. Ne è un chiaro esempio lo splendido dossale (una Madonna con Bambino e santi e quattro storie di Cristo, peraltro sottoposta a un intervento di restauro e pulitura in occasione di Dante e le arti al tempo dell’esilio) che Federico Zeri nel 1958 e Alberto Martini nel 1959 ascrissero al Maestro del Coro degli Scrovegni, artista attivo a Padova nella prima metà del Trecento. Opera di chiara impostazione bizantineggiante nella ieratica, solenne e frontale Madonna col Bambino, e caratterizzata però da elementi d’osservanza giottesca nelle quattro storie di Cristo (la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Crocifissione e la Resurrezione) che affiancano il trono, potrebbe esser stata realizzata in un periodo situabile tra il 1317 e i primi anni del decennio successivo (il termine a quo, ovvero il 1317, è motivato dalla presenza di san Ludovico di Tolosa ai piedi della Vergine: il santo francese fu canonizzato nell’aprile di quell’anno da papa Giovanni XXII). La presenza di santi francescani e l’antica presenza ravennate di quest’opera, oggi conservata al MAR - Museo d’Arte della Città di Ravenna, lasciano supporre che sia stata realizzata per la chiesa di Santa Chiara, legata ai Da Polenta.

“Un ciclo di affreschi trecenteschi attribuito a Pietro da Rimini”, ricorda la storica dell’arte Giorgia Salerno, “decorava l’abside della chiesa, testimonianza della presenza di maestranze giottesche in una Ravenna che, memore dei fasti tardo-antichi e bizantini, sotto il potere di Ostasio di Bernardino Da Polenta e grazie all’attività degli ordini francescano e domenicano è alla ricerca di una nuova luce. Non è dunque da escludere la chiesa di Santa Chiara come luogo d’origine della tavola del Maestro del Coro”. La tavola è dunque un attestato dell’interesse per le arti nutrito dai Da Polenta (peraltro molto devoti a san Francesco), e del resto la loro magnificenza, rammenta la studiosa, era stata citata anche da Dante stesso nel canto XXVII dell’Inferno (“Ravenna sta come stata è molt’anni / l’aguglia Da Poeltna la si cova / sì che Cervia la ricuopre co’ suoi vanni”).

Il summenzionato Pietro da Rimini (documentato dal 1324 al 1338) era presente a Ravenna quando Dante era in città: sappiamo dai documenti che il pittore fu impiegato a più riprese in imprese decorative nelle chiese cittadine (per esempio in San Francesco e nella stessa Santa Chiara: gli affreschi di quest’ultima oggi sono conservati nel Museo Nazionale di Ravenna), e probabilmente a lui si devono anche gli affreschi del refettorio dell’abbazia di Pomposa, risalenti al 1318, e anch’essi forse ammirati da Dante. Non è noto se il Sommo Poeta fece in tempo a veder terminati gli affreschi di San Francesco, di cui oggi sopravvivono pochi lacerti (curiosamente, Pietro da Rimini vi dipinse anche un Sogno di Innocenzo III nel quale la figura che veglia il papa in passato venne interpretata come un improbabile ritratto di Dante Alighieri), ma di sicuro i caratteri di ciò che Dante poté osservare sono simili a quelli che Pietro da Rimini dimostra in una tavoletta (databile al 1330 circa) dei Musei Vaticani, una Crocifissione di composta drammaticità che Cesare Gnudi aveva avvicinato ai modi palesati dai dolenti degli affreschi di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo, largamente attribuiti a Pietro da Rimini, e tra le opere che Dante forse poté ammirare se si ammette una datazione attorno al 1320. Il motivo del san Giovanni seduto nella Crocifissione rimanda peraltro alla figura di san Giuseppe negli affreschi di Santa Chiara. Non sembrano esserci grossi dubbi sul fatto che Dante frequentasse la chiesa, o comunque la conoscesse. “Le monache di Santa Chiara di Ravenna”, hanno scritto Andrea Emiliani, Giovanni Montanari e Pier Giorgio Pasini nell’introduzione di un volume interamente dedicato agli affreschi della chiesa ravennate, erano note a Dante “non solo perché esse sono nella direzione spirituale degli stessi frati francescani con cui Dante, dal 1318 al 1321, deve avere avuto familiare consorzio, ma perché commissionano a Pietro da Rimini quei cicli pittorici tanto affini al ‘visibile parlare’ (Purgatorio X 95) del Poeta stesso del Paradiso coi quattro Dottori, nella volta, associati ai quattro Evangelisti; e coi dodici Santi e Sante, nei medaglioni dell’arco trionfale, spartiti in sei e sei per parte, con una gerarchia sempre reminescente degli stessi archetipi imaginico-creativi che reggono l’immaginario poetico dell’Alighieri ‘Theologus dogmatis expers’ (Giovanni del Virgilio) non solo nel ciclo del Sole, col coro dei Dodici Dottori, ma in tutto il Paradiso”.

Maestro del Coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino e santi e quattro storie di Cristo (prima metà del XIV secolo; tempera su tavola, 56 x 85 cm; Ravenna, MAR - Museo d'Arte della Città di Ravenna)
Maestro del Coro degli Scrovegni, Madonna con Bambino e santi e quattro storie di Cristo (prima metà del XIV secolo; tempera su tavola, 56 x 85 cm; Ravenna, MAR - Museo d’Arte della Città di Ravenna)


Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al Museo Nazionale di Ravenna
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al Museo Nazionale di Ravenna


Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al Museo Nazionale di Ravenna
Gli affreschi della chiesa di Santa Chiara, di Pietro da Rimini, conservati al Museo Nazionale di Ravenna


L'Ultima cena del refettorio dell'abbazia di Pomposa, attribuita a Pietro da Rimini
L’Ultima cena del refettorio dell’abbazia di Pomposa, attribuita a Pietro da Rimini


Pietro da Rimini, Crocifissione (1330 circa; tavola, 24 x 16,6 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani)
Pietro da Rimini, Crocifissione (1330 circa; tavola, 24 x 16,6 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani)

La scena artistica ravennate al tempo era comunque dominata dagli artisti riminesi: un altro pittore che Dante può aver visto è Giuliano di Martino da Rimini, meglio noto semplicemente come Giuliano da Rimini (documentato dal 1307 al 1323), altro grande artista della scuola giottesca riminese, di cui il Museo della Città di Rimini conserva, in deposito dalla Fondazione Cassa di Risparmio (che lo acquistò nel 1996 in un asta da Christie’s), un sontuoso trittico con Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della Passione di Cristo, “sofisticata tessitura di elementi giotteschi, bizantini e gotici” (così Alessandro Giovanardi), riferibile a un periodo compreso all’incirca tra il 1315 e il 1320. La storia documentaria di questo trittico comincia molto tardi (nel 1857, con una descrizione di Gaetano Giordani che la vede nella sontuosa collezione del marchese Audiface Diotallevi, noto soprattutto in quanto possedette la Madonna Raffaello che da lui prende nome, la Madonna Diotallevi), ragion per cui non conosciamo l’originaria provenienza dell’opera: l’ipotesi del succitato Massaccesi secondo cui il trittico proverrebbe dalla scomparsa chiesa di San Giorgio in Foro a Rimini al momento sembrerebbe essere la più plausibile secondo gli orientamenti della critica. L’opera è uno degli apici della scuola riminese del Trecento: l’Incoronazione della Vergine nello scomparto centrale, sormontata dai due tondi con l’Annunciazione, è affiancata dalle figure dei santi (Caterina d’Alessandria, Battista, Giovanni e Andrea) secondo il modello della deesis (“intercessione”) per cui i santi procedono verso la scena centrale, ed è chiusa in alto dalle cuspidi con le scene dell’Incoronazione di spine, della Crocifissione e del Compianto, a creare un’opera densa di sofisticati significati liturgici e teologici (per esempio, il significato eucaristico dell’angelo che raccoglie il sangue di Cristo nella scena della Crocifissione, o le due montagne dietro alla scena del Compianto, derivanti, spiega Giovanardi, dalla simbologia pasquale ortodossa, e che significano “lo sconvolgimento del creato successivo alla morte del Redentore, testimoniato dai Vangeli e da moltissimi brani della liturgia bizantina e latina, indicando il duplice, opposto passaggio sia verso la morte e l’Ade, sia verso la Resurrezione e l’Ascensione”), cui fa pari l’eccezionale valore artistico.

Non si tratta di un’opera che Dante vide (o almeno non possiamo certo saperlo), ma è altissima testimone della cultura figurativa nella quale il poeta era immerso. Una cultura figurativa nel novero della quale si può anche far rientrare l’arte della decorazione miniata del libro, per la quale, lo sappiamo per certo, Dante nutriva un certo interesse, e nel settecentenario della scomparsa del poeta non manca mostra che non lo rammenti (una rassegna al Museo Civico Medievale di Bologna, Dante e la miniatura a Bologna al tempo di Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese, sempre a cura di Massimo Medica, è espressamente dedicata a questo tema). E nell’attività di rilancio culturale di Ravenna avviata dai Da Polenta, della quale s’è detto in apertura, non mancarono commissioni riguardanti l’arte della miniatura: tra le più rilevanti figurano gli antifonari oggi all’Archivio Storico Diocesano, che rientra nel quadro di quelle operazioni “in linea con il gusto artistico diffusosi in area padana tra Duecento e Trecento, sempre in bilico fra spunti classicheggianti, reminiscenze bizantine e novità gotiche” (così Paolo Cova). Gli antifonari erano destinati alla chiesa di San Francesco: si tratta di cinque volumi risalenti al periodo 1280-1285, e dunque a un momenti di poco successivo all’insediamento del vescovo lavagnese Bonifacio Fieschi (nel 1276). Gli antifonari si devono al Maestro di Imola, autore raffinato che ben conosceva la produzione libraria toscana e che, al tempo delle opere ravennati, spiega Paolo Cova, “doveva aver messo a punto un lessico prestigioso e narrativo, caratterizzato da una maggiore tensione espressiva rispetto agli esiti formali più tipici del ‘primo stile’, capace di adattarsi a una produzione vasta e diversificata”. Nell’antifonario II l’artista dimostra caratteri di grande raffinatezza, permeati da un sottile naturalismo e vicini alle novità introdotte da Cimabue, rivelando come la miniatura fosse molto recettiva nei confronti di ciò che andava producendosi nelle discipline pittoriche. Dante, naturalmente, era aggiornato sui risultati della produzione libraria, come s’apprende dal celebre passo su Oderisi da Gubbio nell’XI canto del Purgatorio.

Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della Passione di Cristo (1315-1320 circa; tempera e oro su tavola, 225 x 240 cm; Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città)
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della Passione di Cristo (1315-1320 circa; tempera e oro su tavola, 225 x 240 cm; Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito al Museo della Città)


Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della Passione di Cristo, dettaglio
Giuliano di Martino da Rimini, Incoronazione della Vergine, angeli, santi e scene della Passione di Cristo, dettaglio


Maestro di Imola, Antifonario francescano n. II, santorale estivo (1280-1285; membranaceo, 505 x 355 mm; Ravenna, Archivio Storico Diocesano)
Maestro di Imola, Antifonario francescano n. II, santorale estivo (1280-1285; membranaceo, 505 x 355 mm; Ravenna, Archivio Storico Diocesano)


Maestro veneziano-ravennate, Madonna in trono con Bambino (fine del XIII secolo; marmo, 93,5 x 51,5 x 19,5 cm; Parigi, Louvre)
Maestro veneziano-ravennate, Madonna in trono con Bambino (fine del XIII secolo; marmo, 93,5 x 51,5 x 19,5 cm; Parigi, Louvre)

È infine interessante citare il caso singolare d’un’opera d’arte del tempo di Dante che fu reimpiegata secoli dopo per la sua sepoltura. Si tratta di una Madonna in trono con Bambino in marmo oggi conservata al Louvre: è opera di un maestro veneziano-ravennate educato su modelli bizantini, come attesta la frontalità del gruppo, ma non priva di valori volumetrici che sono più affini alla scultura romanica di area padana, come quella di Benedetto Antelami. Una commistione che rende quest’oggetto particolarmente interessante, benché non sappiamo dove si trovasse in origine. Pare però, secondo un’ipotesi formulata nel 1921 da Corrado Ricci, che fosse questa la Madonna col Bambino che sormontava l’originario sepolcro di Dante, in una cappelletta a fianco della basilica di San Francesco a Ravenna, nel luogo dove oggi troviamo la tomba dantesca attuale, progettata nel 1780-1781 dall’architetto Camillo Morigia. Proprio Morigia rimosse la Madonna dalla cappella antica, sistemandola nel nuovo edificio delle scuole pubbliche dell’attuale via Pasolini. Dopo la rimozione si persero le tracce dell’opera, fino al 1860, anno in cui fu acquistata dal collezionista francese Jean-Charles Davillier: in seguito, nel 1884, il rilievo marmoreo, assieme a molte altre opere della collezione Davillier, entrò a far parte delle collezioni del Louvre a seguito di donazione. E, come ricordato, fu Ricci a identificarla con la Madonna che un tempo adornava la cappella funeraria del poeta.

Un’opera, insomma, pregna di significato e di suggestioni: è ponte tra il momento in cui Dante era in vita e visitava le chiese di Ravenna, e la celebrazione post mortem del poeta, con i vari e ripetuti pellegrinaggi dei grandi personaggi (letterati, artisti... ) che si recavano con passione a Ravenna per ricordare Dante sulla sua tomba. Un culto che prendeva vigore proprio poco dopo la ricostruzione del sepolcro a opera di Morigia, e che vede uno dei momenti primi e più elevati in Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Il personaggio foscoliano non fece in tempo a vedere la Madonna di marmo (per pochi anni), ma la passione che ispirerà il suo gesto estremo costituisce uno dei più alti omaggi che la letteratura ha riservato al Sommo Poeta: “Sull’urna tua, Padre Dante! Abbracciandola, mi sono prefisso ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto? m’hai tu forse, Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr’io genuflesso, con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e l’alto animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata tua patria, e l’esilio, e la povertà, e la tua mente divina? e mi sono scompagnato dall’ombra tua più deliberato e più lieto”.


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