Esiste da sempre, ma negli ultimi anni è conosciuto per essere la creatura dei racconti di George R. R. Martin, divenuti poi le serie Game of Thrones e House of the Dragon: È il temuto drago alato sputa fuoco. Nei suoi racconti fantasy Cronache del ghiaccio e del fuoco, ambientati in un universo decisamente medievale, a domare i draghi è proprio Casa Targaryen, con il suo iconico stemma raffigurante un drago rosso a tre teste, e con la sua antica storia che affonda le radici nella leggendaria Valyria. Oggi, i draghi che conosciamo e che siamo ormai abituati a vedere attraverso le serie sono ben lontani dall’immaginario artistico dei secoli passati. Non aspettatevi principesse che li cavalcano, cavalieri sui loro dorsi, né creature che sputano lingue di fuoco al comando di “Dracarys”. Il drago è una figura ancestrale, da sempre legata al male ed è possibile già trovarlo nelle pitture e nei racconti dell’antica Grecia sotto un aspetto diverso.
In quel periodo il drago, chiamato drakon, aveva l’aspetto simile a quello di un serpente. Il più famoso è sicuramente l’Idra di Lerna, la creatura sconfitta da Ercole nella seconda delle sue dodici fatiche. La sua caratteristica è infatti quella di possedere centinaia di teste. Ma come siamo arrivati alla rappresentazione del drago che tutti oggi conosciamo? Solo nel Medioevo la sua figura comincia ad avvicinarsi a quella che abbiamo impressa oggi nella mente. La creatura comincia a sputare fuoco, possiede un volto che ricorda quello di un lupo o di un gatto e ha possenti zampe e ali di pipistrello che le permettono di volare. Da dove arriva tuttavia l’immagine del drago sputa fuoco? Una delle prime descrizioni di una creatura mostruosa che sputa fiamme dalla sua bocca è quella del Leviatano del Libro di Giobbe, che viene rappresentato così: “Ecco, la tua speranza è fallita, / al solo vederlo uno stramazza. / [...] Non tacerò la forza delle sue membra: / in fatto di forza non ha pari. / Chi gli ha mai aperto sul davanti il manto di pelle / e nella sua doppia corazza chi può penetrare? / Le porte della sua bocca chi mai ha aperto? / Intorno ai suoi denti è il terrore! / Il suo dorso è a lamine di scudi, / saldate con stretto suggello; / l’una con l’altra si toccano, / sì che aria fra di esse non passa: / [... ] Il suo starnuto irradia luce / e i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. / Dalla sua bocca partono vampate, / sprizzano scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce fumo / come da caldaia, che bolle sul fuoco. / Il suo fiato incendia carboni / e dalla bocca gli escono fiamme. / Nel suo collo risiede la forza / e innanzi a lui corre la paura. / Le giogaie della sua carne son ben compatte, / sono ben salde su di lui, non si muovono”. L’arte cristiana non poteva dunque non tener conto di questa descrizione nell’immaginare la temibile creatura, a cominciare dalle pagine dei bestiari, i libri medievali che descrivevano le caratteristiche di tutti gli animali, reali o fantastici: in questo senso, uno dei draghi più famosi, probabile base per tante altre raffigurazioni, è quello che si trova nel manoscritto Harley MS 3244 conservato alla British Library di Londra (risale all’incirca al 1255-1265), e ha le caratteristiche che tutti oggi associamo ai draghi: l’aspetto simile a quello di un mostruoso coccodrillo, le ali da pipistrello, le corna, la bocca da cui esce fuoco. Si tratta di una delle primissime immagini di un drago sputa fuoco come oggi comunemente lo intendiamo nella storia dell’arte occidentale, secondo alcuni studiosi la prima tout court.
Tutti questi aspetti sono rappresentati egregiamente da Raffaello e Paolo Uccello nei loro dipinti raffiguranti San Giorgio e il drago. Alcune raffigurazioni, in particolar modo quelle legate all’Apocalisse di Giovanni, lo illustrano addirittura rosso e con sette teste. I naturalisti del Rinascimento gli dedicano invece interi volumi enciclopedici, come il bolognese Ulisse Aldrovandi, mentre artisti più moderni come Gustave Doré lo ritraggono nelle sembianze del mostro marino il Leviatano. Ecco quindi cinque dei draghi più conosciuti della storia dell’arte, che hanno ispirato i famosi Drogon, Vhagar e Syrax di House of the Dragon e Game of Thrones.
Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma conserva un manufatto risalente al 540-530 a.C. Si tratta di un’anfora attica a figure nere attribuita al Pittore di Michigan ritrovata nella tomba Martini Marescotti all’interno della necropoli della Banditaccia di Cerveteri. La rappresentazione che appare sulla ceramica raffigura la seconda delle dodici fatiche che Euristeo infligge a Eracle: l’uccisione dell’Idra di Lerna. Mitologicamente, l’idra è una creatura figlia di Echidna e di Tifone che vive nella palude di Lerna, in Argolide, Grecia. Si configura come un drago acquatico serpentiforme dalle innumerevoli teste. A differenza dei draghi medievali, i draghi greci richiamano le forme dei serpenti, e per questo motivo non sputano fuoco e non possiedono ali né zampe con artigli. Nella leggenda, le teste mozzate del drago si rigeneravano continuamente, rendendo la creatura invincibile. Solo grazie alla decapitazione della testa centrale, considerata l’unica immortale, e alla cauterizzazione delle ferite, l’eroe riuscì finalmente a sconfiggerlo. In questo caso l’anfora ripropone esattamente questa scena. Il drago greco con la sua forma serpeggiante è in effetti una tra le figure più ancestrali e da sempre raffigurate nell’arte greca.
Il Liber Figurarum – Libro delle figure – è un manoscritto miniato del XII secolo, che riporta il pensiero del filosofo Gioacchino da Fiore (Celico, 1130 circa – Pietrafitta, 1202) e che raccoglie diverse figure illustrate. Tra queste è presente anche il Drago dell’apocalisse, rappresentato nell’Apocalisse di Giovanni come un drago rosso sangue, simbolo di violenza, con sette teste e dieci corna che portava sulle teste sette diademi mentre la coda trascinava le stelle del cielo facendole precipitare sulla terra. Il drago rappresentato dai miniatori del Liber Figurarum è esattamente così. La simbologia del drago richiama quella del serpente antico che causò il primo peccato mortale. Sotto questo aspetto, il drago diventa simbolo del male che ha agito e continua ad agire nella storia umana in maniera maligna.
Conservato presso la National Gallery di Londra, il dipinto San Giorgio e il drago del pittore italiano Paolo Uccello (Pratovecchio, 1397 – Firenze, 1475) conquista i visitatori per la disposizione degli elementi, la sua prospettiva centrica e la scena dai tratti fiabeschi. All’interno del quadro è possibile ammirare la raffigurazione descritta nella Legenda Aurea, una raccolta di vite agiografiche composta da Iacopo da Varazze iniziata intorno al 1260 e conclusa nel 1298. Nei testi della Legenda è narrata la storia di un drago che viveva in un grande stagno nella città di Silena, in Libia. I suoi abitanti, terrorizzati dalla creatura, offrivano animali per placarne gli istinti, fino a quando non fu scelta la figlia del re come prossima offerta. Il sovrano, disperato, offrì il suo patrimonio e il suo regno per salvare la principessa. Quando la giovane arrivò presso lo stagno, San Giorgio assistette alla scena e decise di intervenire, trafiggendo il drago con la sua lancia. Simbolo della fede cristiana che prevale sugli impulsi istintivi, San Giorgio è divenuto oggi il simbolo della ragione che trionfa sull’irrazionalità. Nell’opera di Paolo Uccello, sullo sfondo si può scorgere la caverna della creatura e un turbinio di nuvole che formano una spirale nella parte alta destra del dipinto. Nel corso degli anni, non solo l’artista ha ritratto questa scena divenuta iconica nella storia dell’arte: anche Raffaello, nel 1505, ha rappresentato il momento in cui San Giorgio trafigge il drago ai suoi piedi.
Quando nel 1640 il Serpentum et Draconum historiae venne pubblicato, il suo autore, il naturalista Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522 – 1605) era già morto. Il Serpentum et Draconum historiae è ancora oggi un’opera enciclopedica che costituisce tra i più completi volumi dedicati al mondo dei serpenti e dei draghi. Al suo interno infatti sono presenti innumerevoli creature, realmente esistite e mitologiche. Affiancate alle illustrazioni come quelle del Draconis Alati, il Draco Aethiopicus e il Draco Alter Aethiopicus mas cum eminentijs dorsi, sono presenti le rispettive descrizioni che comprendono racconti e leggende. Sebbene oggi non si abbiano informazioni più dettagliate sul volume di Aldrovaldi, il manoscritto rimane tra le più complete opere legate al mondo delle figure serpentiforme e mitologiche.
Tra le sue innumerevoli opere, considerate veri e propri capolavori, l’incisore, litografo e pittore Gustave Doré (Strasburgo, 1832 – Parigi, 1883) decise di aggiungere alla sua lista anche l’incisione del 1865 Destruction du Léviathan, la distruzione del Leviatano, realizzata per la Bibbia illustrata (La Grande Bible de Tours, così nota in quanto pubblicata per la prima volta nel 1866 dall’editore Alfred-Henry-Armand Mame che aveva sede nella città di Tours in Francia). Riprendendo i racconti biblici ebraici, e in particolare proprio il Libro di Giobbe, Doré illustra il momento il cui Dio si scaglia contro la creatura uccidendola. Il Leviatano, una drago demoniaco serpentiforme che quasi riprende l’iconografia usata in Grecia, rappresenta il caos, la morte, l’invidia. È stato spesso usato per le raffigurazioni della Bocca dell’Inferno: una delle prime immagini in tal senso è una vetrata della Cattedrale di Bourges in Francia, risalente al XII secolo, mentre in Italia nel 1555 Giacomo Rossignolo aveva raffigurato il Leviatano come la Bocca dell’Inferno nell’affresco del Giudizio Universale (nella chiesa della Madonna dei Boschi di Boves, presso Cuneo). Nella scena dai tratti drammatici e scuri che Doré rappresenta, il drago si trova con la bocca spalancata all’interno di un gorgo acquatico. La coda è quasi rigirata su se stessa e il corpo contorto. In alto tra le nubi, Dio punta la sua spada contro la creatura, anticipando di poco il momento prima della sua morte. Ciononostante, in alcuni racconti biblici il Leviatano non è sempre associato al negativo, ma viene anche descritto come una creatura oceanica che fa parte dei tanti esseri viventi di Dio.
L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.