“Benché suo padre avesse immaginato per lui un brillante avvenire nell’esercito, Hervé Joncour aveva finito per guadagnarsi da vivere con un mestiere insolito [...]. Per vivere, Hervé Joncour comprava e vendeva bachi da seta” (Alessandro Baricco, Seta).
Esiste un Hervé Joncour anche in Calabria: dal 2014, Miriam Pugliese, Giovanna Bagnato e Domenico Vivino hanno aperto una cooperativa, Il Nido di Seta, e hanno riavviato e recuperato l’allevamento dei bachi e l’antichissima produzione della seta. Un progetto che rimette al centro tradizione, eccellenze e tutela del paesaggio.
In Calabria, la cultura serica è ancora molto sentita, basti pensare all’uso nei costumi tradizionali e ai vancali, ed è tradizione antica, risale infatti molto indietro nel tempo ai secoli XIV e XVIII, quando la seta aveva fatto diventare la regione, in particolare, la città di Catanzaro, addirittura la capitale europea di questo prodotto, in particolare, dall’arrivo dei Normanni e di Ruggero II, quando per altro, molti siciliani si trasferirono qui imprimendo un rilevante carattere della cultura araba. Oggi come nel Cinquecento, il cuore pulsante di questa antica attività si trova sempre nei pressi di Catanzaro, a San Floro, un piccolo centro di 600 anime, un paese appena collinare che guarda il mare. Qui, mediante l’acquisto di una proprietà comunale, sono stati recuperati circa 5 ettari di terreno e 3 mila gelsi, ed è stato anche aperto un museo allestito all’interno del Castello Caracciolo con tanto di rari telai antichi e moderni. Non solo, scopriamo anche che qui succede qualcosa di eccezionale che non si verifica in altri luoghi italiani, perché è in Calabria l’unico posto in Italia dove resiste l’intera filiera della seta e San Floro ne costituisce il centro.
Neppure a Como, città celebre per le sue pregiate sete, dove i bachi, in realtà, si importano da sempre dalla Cina. Insomma, è soltanto in Calabria (chi lo avrebbe mai detto?) che si svolge un’attività tanto pregiata quanto redditizia che coinvolge interamente il suo territorio. Ebbene, questa è la storia di San Floro, della cooperativa Il Nido di Seta e della Calabria. Alessandro Baricco ne sarebbe orgoglioso: l’incipit del suo romanzo, Seta, lo abbiamo anteposto per iniziare il nostro racconto. Una vicenda, a tratti ancora avvolta nel mistero e dai tempi di Roma e di Giustiniano che stabilì gelosamente la segretezza della produzione e la limitazione della sua conoscenza all’infuori dei confini bizantini.
Che sia andata nascosta tra i capelli di una principessa, come vuole la leggenda, o sia stata conosciuta tramite i Greci (l’himation nell’isola di Còs era realizzato in seta) e tramandata dai monaci bizantini, l’arte della bachicoltura ha una lunghissima storia, che forse inizia ancora prima, sotto Giustiniano, appunto, attraverso il cui ordine del 552 d.C., si volle che alcune uova di baco da seta, potessero essere portate a Costantinopoli, mediante i bastoni da viaggio di due monaci.
Senza dubbio però è soprattutto dal XII secolo che l’Italia ne divenne la maggiore produttrice con, più tardi, anche l’invenzione dei meccanismi di torcitura ad opera di Lodovico il Moro. Questo primato verrà presto conteso, nel XVII secolo, dalla Francia con la città di Lione.
Sulla seta e la sua origine (che risalirebbe al 3000 a. C. in Cina) e la produzione s’intrecciano miti a mezze verità: gli indizi e le ipotesi si avvicendano da secoli e ci fanno indovinare quanto sia difficile rintracciare le sue vere origini, persino nei confini limitati di una regione come la Calabria, dove, infatti, tra alti e bassi, e persino l’epidemia dei bachi (la pebrina) nell’Ottocento, con cui la gelsibachicoltura entrò definitivamente in crisi, i centri di produzione o allevamento dei bachi erano disseminati un po’ ovunque.
Il periodo di maggior sviluppo per l’economia europea e anche per la Calabria, come sostengono alcuni studi, è stato il tardo Medioevo, momento in cui non solo la seta, soprattutto grezza, (destinata principalmente a Costantinopoli o al mercato egiziano, non invece ai tragitti di ritorno dal Levante!) ma anche altri prodotti come pece, legname, agrumi, pelle e cotone, potevano rifornire e rispondere alle esigenze dei mercanti in viaggio nelle acque del Mediterraneo. Per un reale boom economico e perché la seta venisse richiesta anche nel nord Italia, e da Firenze in particolare (la compagnia Salviati solo a partire dagli anni Ottanta del XV secolo si dirotta verso l’acquisto di seta di Chosenzia) occorre però attendere la seconda metà del Quattrocento.
Le prove per l’importanza della seta calabrese vanno recuperate nell’attenzione che dimostrava il Regno di Napoli nella sua tutela. Un esempio su tutti è la redazione dei Capitoli, Ordinationi et Statuti dell’Arte della Seta, disposti da Carlo V nel 1519 per Catanzaro, centro ormai più importante di tutta la regione, soppiantata nel XVII secolo da Cosenza per la migliore qualità del prodotto, perché in quegli anni quella catanzarese non veniva più filata con la stessa cura di sempre.
Le ragioni di questo procrastinarsi all’indomani del XVI secolo, sono diverse, sicuramente la conquista turca di Costantinopoli nel 1453 cambiò gli eventi e gli equilibri economici, modificando la geografia commerciale, per esempio, costringendo fiorentini e genovesi ad abbandonare il mercato del Levante e infine a contendersi il rifornimento di seta chalavrese nelle piazze napoletane.
L’exploit definitivo avvenne soltanto con la rivoluzione industriale che consentì di rifornire le nascenti filande industriali. Nulla di più distante da quei luoghi, che se sicuramente malsani, consentivano comunque la socializzazione resa anche favorevole dalla ritualità che originava sia il canto ritmico intorno a un telaio che l’atmosfera fumosa che produceva il momento della trattura, quando, cioè, i bozzoli venivano immersi nell’acqua bollente (cosa che ancora si fa a San Floro).
Il cerchio intorno al telaio aveva una grande importanza perché costituiva un mezzo magico di comunicazione. Il telaio in tempi antichi era grande, in legno di faggio, situato nel piano terra della casa, o più spesso in camera da letto dove svolgeva una funzione di aggregazione: lì si riuni vano le giovani donne per sognare il loro futuro, e le donne anziane che con la saggezza degli anni ricordavano il loro passato.
L’esperienza del mito di Penelope è ancora oggi possibile in Calabria. A San Floro, attraverso la rianimazione di questa lontana cultura, è concesso di rivivere nei tempi passati, parallelamente consentire un indotto economico a questo lembo di terra antica, restituirle dignità.
Il quadro completo della storia della seta è piuttosto complesso e si rimanda agli studi approfonditi di Sarah Procopio e di Oreste Sergi, ma qui si è voluto accennare a quanto riprendere il filo di seta con il passato sia il mezzo per far rivivere sia le tradizioni di un tempo che i territori di oggi.
Come fanno coraggiosamente Miriam, Domenico e Giovanna nel loro Nido di Seta a San Floro.