“Un alchimista in grado di ricreare, all’interno dei suoi dipinti, una realtà alternativa”. È così che Giacomo Montanari definisce uno dei massimi campioni del Seicento genovese, quel Giovanni Benedetto Castiglione, noto a tutti come “il Grechetto”, che s’era distinto per la sua versatilità e le sue altissime doti mimetiche: con la sola forza dei colori era capace di riprodurre sulla tela ogni materiale, donando al riguardante impagabili sensazioni tattili. Rimangono ancora oscure le ragioni del suo soprannome (a meno che non si voglia credere alla storiella settecentesca riportata nelle Vite di Nicola Pio, secondo il quale, per un dissapore con un committente, l’artista s’era trasferito a Roma vestito all’armena e facendo finta d’esser greco per non farsi riconoscere): il nomignolo è comunque attestato per la prima volta in un pagamento del 1643, quando la sua carriera era già ben avviata. Ci sono però ben chiari i motivi del suo successo: l’originalità delle sue invenzioni, il suo impareggiabile talento d’imitatore della natura, la sua rigorosa capacità di progettazione certificata dai numerosi disegni, uno spiccato senso del colore, una cultura figurativa aperta, in grado di mediare tra Rubens, Van Dyck, Poussin e la tradizione ligure.
Oggi il nome del Grechetto è noto al pubblico specialmente per i suoi quadri d’animali, uno dei filoni più abbondanti della sua produzione e certo il più familiare a chi frequenta mostre e musei, ma all’epoca in cui il pittore visse il suo talento era riconosciuto per la gran varietà di generi che Giovanni Benedetto Castiglione era in grado d’affrontare, giungendo a esiti qualitativi sempre continui, pressoché incapaci di cedimenti: era apprezzato, specialmente in privato, come ritrattista, aveva fama di straordinario inventore di scene sacre e veterotestamentarie, non disdegnava i soggetti pagani. Tanto che presto il suo nome cominciò a riecheggiare ben oltre i confini della Genova natia, e i suoi quadri destavano stupore a Roma come nelle Marche, a Napoli e a Venezia, fino ad arrivare a Mantova dove, nel 1651, era stato chiamato dai Gonzaga per diventare loro pittore di corte. Solo sei anni prima, nel 1645, quando dobbiamo immaginarlo come un trentaseienne già affermato, aveva licenziato quella pala ch’è possibile considerare una sorta di summa del suo talento, la Natività per la chiesa di San Luca a Genova. È, peraltro, la prima opera firmata del Grechetto che ci sia nota, nonché una delle sole cinque opere religiose destinate all’esposizione in pubblico che di lui conosciamo.
Quando s’entra in quel tripudio di marmi, stucchi e affreschi ch’è la parrocchia gentilizia degli Spinola, si troverà la Natività del Grechetto sull’altare del braccio sinistro (la chiesa di San Luca ha pianta a croce greca): la vediamo ancora nel luogo per cui era stata concepita e dipinta. È uno dei quadri più potenti e innovativi del Seicento genovese: per Carlo Giuseppe Ratti la Natività era il vero, ineguagliabile capolavoro del Grechetto, la sua opera migliore. «Scelto è di quella tavola il disegno», scriveva nel suo aggiornamento delle Vite di Soprani, «armoniose e ben distribuite sono le tinte, veri e vivamente espressi gli affetti, insomma non è parte in essa che non sia sorprendente e meravigliosa». L’epifania sacra avviene nel registro inferiore: su di un povero pagliericcio, sul quale il Grechetto riversa tutto il suo talento d’alchimista, giace il Bambino che una delicata Vergine, dal volto di bambina e memore della Notte del Correggio, scopre per mostrarlo alla vista dei pastori. Gli atteggiamenti sono spontanei, naturali: il Bambino, addirittura, è colto mentre si succhia un dito. Dietro alla Vergine, san Giuseppe, in un sapiente brano di controluce che richiama alla mente le natività di Poussin degli anni Trenta, indica il figlio di Dio agli adoranti, che lo osservano con sguardi percorsi da moti di vero, emozionato stupore. Più in basso, un’invenzione iconografica del Grechetto: un pastore dall’aspetto grottesco che suona una dulciana, seminudo, col capo cinto di tralci, quasi a ricordare un satiro dei cortei pagani di Dioniso, un personaggio dei baccanali d’un Poussin o d’un Rubens. Secondo Montanari, l’insolita presenza cela un conciliante messaggio universale di pace: il pastore-satiro è la figura che indica in Cristo il mediatore tra l’antichità pagana e il presente cristiano. Un’idea che possiamo immaginare anche enfatizzata dalla struttura della capanna, con possenti colonne che reggono un tetto di paglia, e oltre la quale s’intravedono le vestigia d’un tempio classico. Anche la lampada spenta sotto la mangiatoia, secondo Lauro Magnani, amplifica l’idea del Cristo come vera luce del mondo, facendo terminare la ricerca di Diogene, che secondo un noto aneddoto s’aggirava con una lanterna alla ricerca “dell’uomo”.
In alto, invece, ecco l’apparizione mistica di quattro angeli, che rimandano alla parte alta della Circoncisione di Rubens per la chiesa del Gesù di Genova ma il cui naturalismo è memore dell’esperienza romana del Grechetto: pennellate fluide suggeriscono la sensazione del vento che agita le vesti, mentre grumi pastosi e luminosi offrono al riguardante lo scintillio dell’argento di cui son fatti il turibolo e la navetta che i quattro messi divini reggon tra le mani. Stanno spargendo l’incenso, come si fa prima d’ogni funzione religiosa, per evidenziare la sacralità della nascita di Gesù: anche questa è una soluzione iconografica insolita, che trasforma la misera capanna in un tempio cristiano. E poi, il Grechetto, anche in una composizione così densa, così intrisa di misticismo, non poteva rinunciare ai suoi animali, che anzi riescono a ritagliarsi un ruolo da protagonisti. Presenze animali che, ha scritto Lauro Magnani, «sembrano quasi una polemica affermazione di pari dignità tra i diversi generi pittorici e con tutta probabilità si inseriscono in un articolato contesto iconografico, come spesso per il nostro artista, di difficile decrittazione». Ecco allora sulla sinistra, proprio dietro le spalle della Vergine, l’asino che guarda direttamente l’osservatore, mentre vediamo in basso il cane che partecipa alla rivelazione con intensità identica a quella degli umani, a significare che la venuta al mondo di Cristo è un fatto che riguarda tutti. Vicino al cane, due vivaci anatre hanno ribaltato il cesto di vimini che le conteneva. Persino gli angeli dispiegano grandi, candide ali da colombe.
Per tutte queste ragioni, la Natività del Grechetto è una delle sue opere più apprezzate, oltre che uno dei dipinti più ammirati del Seicento genovese. Possiamo azzardare che per Giovanni Benedetto Castiglione, pittore che fino ad allora s’era espresso per lo più in contesti privati, la pala di San Luca fosse un cimento inedito: mai aveva lavorato su di un formato così grande (la tela è alta quattro metri) e così insolito, per via della sua forma allungata, mai aveva avuto la possibilità di riversare su di una singola tela l’ampia varietà dei suoi interessi artistici, mai a quell’età, da quel che sappiamo, aveva dipinto per una chiesa così centrale come quella di San Luca. Si trattava, dunque, di prestarsi anche a facili paragoni con quanto era stato prodotto in precedenza da pittori più titolati di lui. Ne uscì un dipinto sontuoso, dove ogni elemento partecipa all’intensità della scena con studiata armonia, anche se il risultato ci appare spontaneo, proprio per via della finezza con cui il Grechetto ordisce la sua composizione, per via della maestria con cui il pittore imposta gli effetti di luce guardando soprattutto a Poussin, e cioè con variazioni continue ma attentamente calibrate su di un fondo che spicca per le sue cromie terrose.
La Natività, lodata da tutti coloro che ne hanno scritto, sarebbe presto diventata un banco di prova importante per tutti i pittori contemporanei e successivi: «un punto di riferimento», ha scritto Jonathan Bober, «non solo per gli artisti che si ispiravano direttamente a Castiglione, ma anche per coloro che desideravano farsi una reuptazione nel campo della pittura sacra, provocando innumerevoli altre interpretazioni. Più in generale, la sintesi perfetta di elementi manieristi e classici, estatici e naturalistici, indicò la direzione per tutte le successive espressioni genovesi dell’immaginazione visionaria, da Domenico Piola ad Alessandro Magnasco, incluso Giovanni Battista Gaulli». Il Grechetto, con la sua Natività, era già diventato un modello.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).