La Tempesta di Giorgione, il mistero che nessuno ha ancora risolto


La Tempesta è forse il quadro più famoso di Giorgione, ma è anche quello più misterioso. Decine di interpretazioni, e nessuna ancora risolutiva.

Pochi dipinti nella storia dell’arte hanno fatto parlare e discutere tanto quanto la Tempesta di Giorgione (Giorgio Barbarelli; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), conservata alle Galleria dell’Accademia di Venezia, un’opera d’arte misteriosa esattamente come il suo autore. Di Giorgione, infatti, sappiamo poco: il suo vero nome è stato scoperto solo di recente, e pochissimi i documenti che possano fornire testimonianze certe sulla sua esistenza. Sono infatti soltanto quattro i documenti che lo riguardano direttamente: si tratta della ricevuta di un incarico per un telero da collocare nel Palazzo Ducale di Venezia, datato 1507, una causa datata 1508 e intentata nei confronti dei committenti degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi, sempre a Venezia, l’inventario dei beni al momento della scomparsa e una lettera scritta nel 1510 a Isabella d’Este da Taddeo Albano, un agente che operava a Venezia per conto della marchesa e che nella sua lettera dà a Isabella d’Este la comunicazione della morte del pittore, avvenuta a trentadue anni d’età. A questi si può aggiungere una iscrizione che compare sul retro di un famoso dipinto di giorgione, la Laura conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Questa iscrizione (“1506 adj. primo zugno fo fatto questo de ma[no] de maistro zorzi da chastel fr[anco] cholega de maistro vizenzo chaena ad instanzia de mis. giac.mo”) lo attesta come “Zorzi da Castelfranco”, essendo ovviamente “Zorzi” diminutivo di Giorgio in dialetto veneto, e lo indica come “collega” di Vincenzo Catena, pittore di stampo belliniano che forse, secondo alcuni, fu maestro dello stesso Giorgione. In questo contesto “collega” significa che il pittore non aveva una bottega propria, ma era piuttosto associato a Vincenzo Catena. Una scarsità di informazioni che ha quasi dell’incredibile se si pensa al fatto che Giorgione è uno dei pittori più influenti della storia dell’arte, e una scarsità di informazioni che di certo non ci aiuta neppure a fare luce sul suo dipinto più noto, la Tempesta. Per comprenderlo meglio però è necessario partire dal particolare ambiente all’interno del quale Giorgione condusse la sua attività artistica. Per calarsi in questo ambiente, si può ricorrere alle Vite di Giorgio Vasari, il primo dei biografi che contribuirono ad alimentare il mito di Giorgione. Vasari dice che Giorgione si dilettava di continuo nelle “cose d’amore”, suonava il liuto e cantava, e pare che cantasse così bene da venire spesso chiamato alle feste dei nobili veneziani (“dilettossi continovamente de le cose d’amore e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili” “).

Del resto, la musica occupa un ruolo di primo piano nell’arte di Giorgione: un particolare di una delle sue poche opere certe, il Fregio delle Arti Liberali e Meccaniche, raffigura proprio alcuni strumenti musicali. Da questa descrizione di Vasari si desume l’informazione secondo la quale Giorgione era solito frequentare gli ambienti più in vista della Venezia del tempo, quei circoli nobili in cui si discuteva di arte, amore, letteratura, di cui si trova riscontro anche nella letteratura del tempo (basti pensare agli Asolani di Pietro Bembo), e che condividevano codici culturali propri. Quindi è forse a questa attività che bisogna ricondurre la Tempesta, un dipinto che da cinquecento anni fa discutere senza che si possa arrivare a una conclusione certa.

Giorgione, La Tempesta (1502-1505; olio su tela, 83 x 73 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)
Giorgione, La Tempesta (1502-1505; olio su tela, 83 x 73 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)

Questo perché il significato ci sfugge, ma forse poteva essere compreso dal committente: il quadro potrebbe esser stato commissionato da un nobile che si chiamava Gabriele Vendramin, il quale nel 1530 possedeva il quadro. Se invece non fosse stato Vendramin il committente, è comunque pressoché sicuro che un dipinto del genere dovesse risultare comprensibile a chi condivideva lo stesso codice culturale di Giorgione. La Tempesta, dipinto celeberrimo, potente, evocativo e che lascia esterrefatto l’osservatore, fu realizzato probabilmente tra il 1502 e il 1505: per lungo tempo se ne persero le tracce. Nell’Ottocento, si trovava nella casa dei principi Giovannelli, dove la vide lo studioso Angelo Conti, dopodiché, nel 1932, fu acquistata dal Comune di Venezia e destinata alle Gallerie dell’Accademia. L’opera colpisce il riguardante soprattutto per il suo indimenticabile paesaggio: sullo sfondo si scorge una città, attraversata da un ruscello che a sua volta è attraversato da un ponte, e sulla città si sta per abbattere un furioso temporale. Si vedono infatti nubi cupe che si addensano sopra alle torri, e si può già osservare un fulmine che squarcia il cielo e che fa presagire la violenza della tempesta che sta per iniziare. Proprio il fulmine è uno degli elementi più importanti della composizione, perché dimostra come Giorgione abbia coltivato un forte interesse per la rappresentazione dei fenomeni naturali, rivelando l’attitudine e gli interessi di un pittore di grande modernità. In primo piano si notano poi alcune rovine classiche, si vedono le rocce, gli alberi che sono agitati dal vento che preannuncia la tempesta ma soprattutto si scorgono due figure, un uomo con un lungo bastone e una donna che allatta un bambino.

Prima di cercare di identificare le due figure è necessario concentrarsi sul paesaggio, forse il vero protagonista della Tempesta, così come è protagonista di altre opere del pittore, come il Tramonto, conservato alla National Gallery di Londra, o l’Omaggio a Saturno, noto anche come Omaggio a un poeta, conservato anch’esso alla National Gallery di Londra. In tutti questi dipinti, Tempesta compresa, il paesaggio occupa un ruolo centrale, la natura ricopre una funzione di estremo rilievo, e soprattutto il paesaggio è reale, poiché è quello del Veneto, lo stesso che Giorgione poteva vedere ogni giorno, tanto che la città raffigurata nella Tempesta è stata alternamente identificata come Montagnana, vicino a Padova, oppure come la città natale del pittore, Castelfranco Veneto, e infine come la stessa Padova. Sono paesaggi che evocano atmosfere suggestive, paesaggi che si potrebbero definire idilliaci, paesaggi che vengono sapientemente delineati grazie all’uso della pittura tonale, che Giorgione porta ai suoi vertici partendo dall’esperienza di Giovanni Bellini. La pittura tonale, di cui Giorgione sarebbe il padre secondo molti storici dell’arte, è il linguaggio pittorico che si afferma nel Veneto del Rinascimento: la profondità delle opere d’arte non viene regolata da leggi geometriche ma dai colori, quindi dai toni caldi utilizzati per dipingere gli elementi vicini al punto di vista dell’osservatore e, al contrario, dai toni freddi per gli oggetti in lontananza, con passaggi di tono sfumati e graduali, senza linee di contorno. Lo si nota osservando la stessa Tempesta, con i colori che si fanno sempre più evanescenti via via che gli oggetti rappresentati si allontanano.

I due personaggi rappresentati sono perfettamente calati in questo paesaggio, e da sempre ci si interroga su chi possano essere. È tuttavia estremamente difficile, per non dire impossibile, determinare quale sia l’ipotesi più probabile, per il semplice fatto che non abbiamo molte notizie sul dipinto, quindi ogni ipotesi potrebbe essere quella giusta, ma è anche possibile che non si sia neppure sfiorata minimamente la soluzione. La Tempesta è, insomma, un dipinto estremamente difficile: “il più reticente fra tutti i reticenti quadri di Giorgione”, lo ha definito Augusto Gentili, per il quale l’opera non può neppure assurgere allo status di “capolavoro”, né di caposaldo della pittura veneziana del Cinquecento: “un capolavoro”, ha scritto Gentili, “definisce con chiarezza il suo soggetto e lo serve funzionalmente con proprietà e coerenza d’iconografia e di linguaggio, senza costringere lo spettatore a giochi d’indovinelli; un caposaldo genera una rete di relazioni e sviluppi, di esperimenti e superamenti, e non due o tre semianonime imitazioni. È particolarmente difficile anche la datazione, perché la discontinuità esecutiva fa saltare i parametri del giudizio ‘stilistico’ (che dunque si rivelano approssimativi, congetturali, illusori). Non c’è narrazione o informazione, non ci sono indicazioni gestuali o suggerimenti espressivi, e nemmeno elementi simbolici repertorialmente riconoscibili”. Ciò nondimeno, molti hanno provato a leggere il dipinto tentando d’interpretarlo, e nel tempo sono state formulate decine di letture, tanto che, come ha scritto recentemente Enrico Maria Dal Pozzolo, ormai si registra almeno una nuova interpretazione della Tempesta all’anno, in una lunga catena che “alterna letture più o meno plausibili ad altre improbabili, se non deliranti”, con tentativi che “spesso eruditi e ingegnosi, alla fine sembrano elidersi l’un con l’altro”. Troppo insolito, insomma, il soggetto dipinto da Giorgione.

Il fulmine
Il fulmine
La città
La città
La donna con il bambino
La donna con il bambino
L'uomo
L’uomo
Le due colonne
Le due colonne
La vegetazione
La vegetazione
Le rocce in primo piano
Le rocce in primo piano

Vale comunque la pena menzionare alcune ipotesi, tra quelle che hanno avuto più fortuna e quelle invece formulate in tempi più recenti. La prima e più antica sostiene semplicemente che la donna sia una zingara, e l’uomo un soldato. Questa teoria venne proposta per la prima volta da Marcantonio Michiel (Venezia, 1484 – 1552), collezionista d’arte contemporaneo di Giorgione: si trova il riferimento alla Tempesta e alla sua possibile interpretazione, riferimento che tra l’altro è il primo di cui si ha riscontro, in un’annotazione del collezionista che risale al 1530 circa. Le altre interpretazioni spaziano dall’allegoria alla mitologia passando per la religione e per la letteratura. Angelo Conti, nel suo studio su Giorgione, lodato da Gabriele d’Annunzio, del 1894, sosteneva che il tema del dipinto è la paternità: l’uomo è il padre e, con la nascita del figlio allattato dalla sua compagna, “si chiude il poema dell’amore”, nel senso che il piacere e la voluttà hanno dato al mondo una nuova vita. Una delle ipotesi più famose risale al 1978 e venne formulata da Salvatore Settis, secondo cui le figure sarebbero Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, con la donna che sta allattando il piccolo Caino: secondo lo studioso, il dipinto sarebbe un’allusione alla condizione dell’uomo in seguito alla cacciata, con la città sullo sfondo a simboleggiare l’Eden e la tempesta la furia divina. Secondo George Martin Richter, si tratta invece di un episodio mitologico: l’ipotesi è del 1937 e il bambino sarebbe il piccolo Paride abbandonato, l’uomo il pastore che l’ha trovato e la donna la balia che lo ha allevato, e ovviamente la città sullo sfondo sarebbe Troia. Sempre di matrice mitologica è l’interpretazione, datata 1915, di Rudolf Schrey, secondo cui la coppia rappresenterebbe Deucalione e Pirra, e la tempesta è ovviamente il diluvio scatenato da Zeus, simile al biblico diluvio universale, e i due sarebbero, secondo il mito, gli unici superstiti scelti proprio dal dio in quanto non corrotti come il resto dell’umanità. È curioso notare come, secondo questa interpretazione, la tempesta non starebbe iniziando ma starebbe smettendo.

Nel 1895 invece Franz Wickhoff aveva riconosciuto nella Tempesta una scena della Tebaide di Stazio, tema quindi tratto dalla letteratura classica, e l’episodio vedrebbe Adrasto, re di Tebe, scoprire in un bosco Ipsipile, regina dell’isola di Lemno, mentre allatta l’eroe Ofelte bambino. Un’altra ipotesi giunse nel 1969 con Edgar Wind, secondo il quale il dipinto andrebbe da intendersi in senso religioso: l’uomo rappresenterebbe la virtù della fortezza e la donna quella della carità, in linea con la tradizionale iconografia della carità che personifica tale virtù in forma di una donna che allatta un bambino.

Tra le interpretazioni più recenti vale la pena menzionare, in ordine di tempo, quelle di Carlo Falciani (2009), Ugo Soragni (2010), Maria Daniela Lunghi (2015) e Sergio Alcamo (2019). Falciani ne ha dato una lettura virgiliana, connessa alle vicende di casa Vendramin: l’opera andrebbe interpretata come la nascita di Silvio, figlio di Enea e Lavinia, e successore del suo fratellastro Ascanio come re dei latini. L’uomo in piedi sarebbe lo stesso Silvio colto a contemplare la sua stessa nascita da adulto, situazione che rievocherebbe il passo dell’Eneide in cui Anchise accoglie Enea durante il passaggio di quest’ultimo nell’aldilà rivelandogli la nascita del figlio. Secondo Soragni, che formulò la propria teoria in occasione della mostra Giorgione a Padova. L’enigma del carro tenutasi ai Musei Civici agli Eremitani di Padova tra il 2010 e il 2011, la Tempesta sarebbe “la testimonianza paradossalmente più esplicita e meno indagata dell’interesse di Giorgione per Padova, nella quale si condensano, accanto alla rappresentazione di alcuni tra i suoi monumenti più rappresentativi, allusioni e rimandi a una pluralità d’argomenti padovani: dalla fondazione della città per opera di Antenore alla fine drammatica della signoria carrarese, dalle inondazioni del contado che derivano dai lavori eseguiti dai veneziani per assicurare la stabilità idraulica della laguna, alla preoccupazione costante per l’insorgenza e la diffusione della peste, dalla grande impresa della ricostruzione della cupola dei Carmini, completata pochi anni prima, ai ponti in legno che hanno preso il posto delle solide costruzioni in pietra ereditate dal mondo antico”. In quell’occasione, si suggeriva che il carro rappresentato vicino alla porta della città alluderebbe ai carraresi, i signori di Padova, e che nel profilo della città si potrebbe distinguere in modo inequivocabile il profilo della chiesa dei Carmini: la donna sarebbe dunque allegoria della città di Padova, colta ad allattare Venezia (allusione al fatto che la città lagunare è di fondazione molto più recente rispetto alla città euganea), mentre l’uomo sarebbe uno “stradioto”, un mercenario veneziano.

La studiosa Maria Daniela Lunghi ha invece legato la Tempesta alla leggenda di san Giovanni Crisostomo, secondo la quale il santo, a un certo punto della sua vita, avrebbe deciso di ritirarsi a vita ascetica nel deserto della Siria: imbattutosi però nella giovane figlia di un sovrano locale, se ne sarebbe innamorato, ricambiato, e dopo essersi unito a lei sarebbe stato preso dal rimorso di esser contravvenuto ai principî della sua fede religiosa. Il santo avrebbe dunque deciso di uccidere la giovane gettandola da una rupe e di vivere il resto dei suoi giorni come un selvaggio: tuttavia, pentitosi sulla base dell’idea per cui non si può espiare una colpa commettendo un delitto, avrebbe confessato il delitto ai soldati del re. Questi, recatisi sul luogo del misfatto, avrebbero finito per trovare la ragazza viva, intenta ad allattare un bambino, frutto della sua unione con Giovanni Crisostomo. Per Lunghi, la fortuna iconografica di questo soggetto tra artisti del tempo (vengono elencati Albrecht Dürer, Lucas Cranach, Giulio Campagnola, Andrea Zoan e altri) ne giustificherebbe la conoscenza da parte di Giorgione, che, secondo la studiosa, potrebbe aver tenuto presente se non altro l’incisione, su questo tema, di Albrecht Dürer per il fatto che l’artista soggiornò a Venezia nel momento in cui Giorgione attendeva alla Tempesta. Tuttavia, nel dipinto di Giorgione mancherebbe la figura di Giovanni Crisostomo: secondo Lunghi, l’artista avrebbe voluto in tal senso offrire una propria interpretazione della leggenda concentrandosi sulla figura della giovane e su quella del soldato che la scoprì.

Infine, si registra l’interpretazione di Sergio Alcamo che, individuando per primo un piccolo angelo sul ponte di legno (dipinto, secondo Alcamo, per coprire la figura di un viandante precedentemente dipinta da Giorgione e poi coperta: il pentimento è emerso da recenti indagini diagnostiche sull’opera), del quale la critica precedente non si era accorta, ha recuperato la lettura religiosa di Salvatore Settis per aggiornarla. Secondo Alcamo, la Tempesta sarebbe un’allegoria della redenzione: l’uomo sarebbe Adamo, e il bastone al quale si appoggia sarebbe allegoria dell’albero della conoscenza, essendo fatto di legno. La donna sarebbe ancora Eva, mentre il bambino sarebbe Seth, il terzogenito della coppia. Le due colonne sono invece un rarissimo soggetto iconografico, del quale Alcamo ha trovato un precedente solo a diversi anni di distanza in un affresco della Biblioteca Vaticana, eseguito da Giovanni Baglione tra il 1587 e il 1589: si tratterebbe delle “Colonne dei Figli di Seth”, quelle su cui sarebbero state iscritte scoperte scientifiche e astronomiche, erette dai discendenti di Seth (che sempre secondo Alcamo era stato raffigurato nelle vesti del viandante poi rimosso) sulla base della predizione di Adamo che il mondo sarebbe stato distrutto due volte, in modo da conservare le conoscenze dopo la distruzione.

Queste sono soltanto alcune delle interpretazioni, ma si ha quasi l’impressione che più i critici si sforzino nel fornire le loro teorie, e più il significato della Tempesta di Giorgione si faccia sfuggente: è quindi probabile che non riusciremo mai a comprendere se si cela qualcosa dietro il dipinto e, in caso affermativo, cosa si cela. “Forse un giorno”, ha scritto Ernst Gombrich in relazione a questo dipinto, “si riuscirà a identificare l’episodio qui ritratto, che può essere la storia della madre di qualche futuro eroe cacciata con il suo bimbo dalla città nelle selve, dove viene scoperta da un giovane e gentile pastore. Questo sembra il tema che Giorgione ha voluto rappresentare. Ma non per il suo soggetto il quadro è una delle più meravigliose creazioni dell’arte. Sarà difficile che una riproduzione in scala ridotta ci permetta di farcene un’idea, eppure anch’essa può servire ad aprirci uno spiraglio sulle rivoluzionarie conquiste giorgionesche”. Per il momento, dunque, ci accontentiamo di rimanere stupiti di fronte all’opera più celebre di uno dei più grandi e al contempo più misteriosi maestri della storia dell’arte, diventato nel corso del tempo più un mito che un artista.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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