L'avvincente storia della Madonna del Patrocinio di Albrecht Dürer, la meravigliosa tavola di Bagnacavallo


Gli ultimi mesi del 2019 hanno visto tornare a casa, al Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo, seppur temporaneamente, la meravigliosa Madonna del Patrocinio di Albrecht Dürer. Conosciamone l'avvincente storia.

Nel coro del Monastero delle suore Cappuccine di Bagnacavallo era gelosamente custodita fino al 1969 una piccola Madonna col Bambino di altissima qualità: le suore la tenevano avvolta in una coperta e protetta in un bauletto da corredo dotale; chi desiderava ammirarla, lo poteva fare solo attraverso una grata. La fama dell’opera d’arte crebbe enormemente, tanto che divenne abbastanza complicato per le monache tenere il passo di coloro che dichiaravano il loro desiderio di osservare quel piccolo ma immenso capolavoro, quando in quest’ultimo fu riconosciuta l’abile mano di Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528), grazie al sapiente monsignor Antonio Savioli e alla conferma di Roberto Longhi.

La storia di questa piccola tavola nota come Madonna del Patrocinio, già così denominata dall’artista faentino Angelo Marabini (Faenza, 1818 – 1892) che ne realizzò nella prima metà dell’Ottocento una mediocre incisione (anche se l’attribuzione è dibattuta, potrebbe essere opera di suo padre Vincenzo), testimoniando perciò l’ormai riconosciuto ruolo di devozione e di protezione (“patrocinio”, appunto), si rivela avvincente e allo stesso emozionante, se si pensa che sono trascorsi cinquant’anni da quando il dipinto non è più custodito a Bagnacavallo, ma grazie all’atteso evento che ha segnato il suo ritorno addirittura nella stessa sede in cui venne accuratamente custodito per decenni dalle suore cappuccine, i bagnacavallesi hanno potuto riaccogliere entusiasticamente la loro Madonna col Bambino. Fino al 2 febbraio 2020 l’opera düreriana è esposta al Museo Civico delle Cappuccine, che altro non è che l’antico monastero citato, per essere ammirata da quante più persone lo desiderino.

Ma com’è arrivato un capolavoro di Dürer in un modesto monastero del territorio ravennate e perché oggi è custodito da cinquant’anni, seppur in totale approvazione, alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo? Il ritorno della Madonna del Patrocinio a Bagnacavallo ha permesso di fare il punto della situazione relativa alle conoscenze e ai contributi critici aggiornati sul dipinto.

Albrecht Dürer, Madonna del Patrocinio o Madonna di Bagnacavallo (1495-97 circa; olio su tavola, 47,8 x 36,5 cm; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca, inv. 581)
Albrecht Dürer, Madonna del Patrocinio o Madonna di Bagnacavallo (1495-97 circa; olio su tavola, 47,8 x 36,5 cm; Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani-Rocca, inv. 581)


Il convento delle Cappuccine di Bagnacavallo, oggi sede del Museo Civico delle Cappuccine
Il convento delle Cappuccine di Bagnacavallo, oggi sede del Museo Civico delle Cappuccine


Vincenzo Marabini, Beata Vergine del Padrocinio (1832?; bulino, 120 x 78 mm)
Vincenzo Marabini, Beata Vergine del Padrocinio (1832?; bulino, 120 x 78 mm)

Le monache cappuccine ricordavano di avere sempre custodito e venerato quella Beata Vergine del Patrocinio, ma in realtà si trattava di un bene giunto lì tramite una loro consorella, da un convento di clausura a un altro convento di clausura: fu don Antonio Savioli che, nel corso delle sue ricerche per scoprire la vera provenienza della tavola, lesse nel libro Campione delle monache di Bagnacavallo: “La Madre Sr. Gertrude Canattieri Religiosa Claressa del soppresso Monastero di Cotigniola entrò nel nostro convento lì 13 maggio 1822 in età d’anni 73 […] Portò una bellissima immagine della Beata Vergine di gran prezzo quale Immagine era delle sue Fondatrici del Convento di Cottigniola, ed ora sta collocata nel nostro Coro, e si mostra miracolosa nel ricorso che facciamo a lei nelle nostre necessità”. Il convento di cui si parlava nell’annotazione era il convento di clausura delle monache di Santa Chiara di Cotignola, istituito nel 1659, le cui fondatrici erano suor Dorotea Felice Certani e suor Giovanna Maria Scapuccini. Nelle Vite de’ santi beati venerabili e servi di Dio della diocesi di Faenza raccolte da Romoaldo Maria Magnani nel 1742 si scopre tuttavia che suor Dorotea era “divotissima della B.Vergine, avanti un immagine della quale, creduta di Guido Reni, stava molte ore in orazione: e n’ebbe un giorno in visione mediante questa, a cui porgeva calde suppliche”; è stata rinvenuta inoltre una Vita manoscritta di suor Dorotea nel Convento di Santa Chiara di Ravenna redatta da una clarissa che, incuriosita dalla biografia della suora senza tuttavia aver avuto la possibilità di conoscerla personalmente, raccolse notizie dalle consorelle più anziane che l’avevano conosciuta. Qui si legge che “ella ebbe in dono dal suo Signor Padre una bellissima immagine di questa Vergine” davanti alla quale “stava la buona Madre inginocchiata molte ore al giorno” per le “grazie che desiderava sì per lei, come per le sue Figlie e loro parenti”; ma soprattutto si ha notizia che la sacra immagine “portò lei da Ravenna al nostro Monastero”. Documenti attestano che suor Dorotea, al secolo Isabella, entrò in clausura nel 1621 con saldo di scudi 500 compiuto dal padre e, secondo quanto dettato dal regolamento per farsi monaca nel monastero di Santa Chiara, era stata obbligata a portare con sé un dipinto raffigurante un’immagine sacra, probabilmente proprio la Madonna del Patrocinio. Il padre, Giovan Filippo Certani, commerciava a Bologna la seta, ma era anche un mecenate artistico-letterario: fondò l’Accademia dei Selvaggi, alla quale partecipavano artisti come Guido Reni o i Carracci, quindi possedere quadri non era per lui complicato; magari aveva acquistato la Madonna del Patrocinio sul mercato d’arte bolognese o forse a Venezia tramite imprenditori che commerciavano per le manifatture di lusso. Oppure, dato che molti esponenti della famiglia di suor Dorotea erano monaci o monache, il dipinto potrebbe essere passato in eredità tra questi. Ad ogni modo si sa che quando Dürer giunse a Venezia nel 1506, l’artista comunicò in una lettera indirizzata all’amico Willibald Pirckheimer a Norimberga che aveva venduto cinque delle sue sei piccole tavole di cui si è perduta ogni traccia.

Come detto precedentemente, il capolavoro düreriano arrivò nel Monastero delle Cappuccine di Bagnacavallo grazie a suor Gertrude Canattieri del monastero di Cotignola, e qui vi rimase fino al 1969, dieci anni dopo la scoperta, da parte di monsignor Antonio Savioli, che si trattava di un dipinto del maestro di Norimberga. Alcuni sacerdoti che frequentavano il convento erano venuti a conoscenza dell’esistenza della piccola tavola, senza associarla al suo autore, già prima del 1959 e le voci si sparsero, giungendo alle orecchie di Savioli, il quale, incuriosito, cominciò a chiedere alle monache una buona fotografia dell’opera nel 1958: l’anno prima, infatti, le suore avevano distribuito ai fedeli le prime immagini fotografiche di questa. Tuttavia, l’incontro dal vivo tra Savioli e l’opera avvenne nel settembre 1959, ma solo attraverso una doppia grata. “Espressi il desiderio di studiarla, e mi fu mandata una scialba cartolina, foto vecchia e sbiadita”, dichiarò. Sul dipinto si era puntato anche Antonio Corbara, ispettore onorario governativo per le opere d’arte mobili in Romagna, che nel 1961 scrisse alle cappuccine: “Sanno il valore che l’opera ha? Hanno dati sulla provenienza? È straordinario che un simile pezzo stia costì, è un caso di una rarità senza precedenti”, aggiungendo che “sarebbe consigliabile che, per il momento, loro non autorizzassero a nessuno riproduzioni o pubblicazioni”. Inoltre Corbara chiese di poter vedere da vicino l’opera per poter redigere la scheda ministeriale per farne successivamente relazione al soprintendente Cesare Gnudi. La scheda dell’opera e la pubblicazione del primo studio sul dipinto spettò però a Savioli, sul numero di gennaio 1961 del Bollettino Diocesano di Faenza: qui compare per la prima volta l’attribuzione ad Albrecht Dürer, riconducibile al secondo periodo italiano del maestro tedesco, ovvero tra il 1505 e il 1507, durante il quale soggiornò a Venezia. “L’opera, che viene segnalata per la prima volta attraverso la presente scheda, sarà certamente oggetto di studio da parte di critici e storici” si legge; e dopo aver descritto il dipinto, dichiara: “In un primo momento io cercai, senza risultato, il pittore fra i lombardi della diaspora leonardesca. Ma bastò al prof. Longhi una pallida fotografia per scoprire la mano del grande Dürer, nome da lui pronunciato e come soffiato sotto l’impulso di una conturbante intuizione”. Nel luglio 1961 uscì infatti su Paragone Arte il testo inedito di Roberto Longhi dedicato alla Madonna del Dürer a Bagnacavallo, dove veniva confermata la paternità del maestro di Norimberga.

Questa incredibile scoperta provocò ben presto però non pochi problemi: prima di tutto, per poter andare ad ammirare il quadro era necessario un permesso speciale, in quanto si doveva accedere a un luogo di clausura ma, superato questo, ci si rese conto che le suore cappuccine, con i loro mezzi limitati, erano le custodi di un’opera dal valore economico inestimabile, e in più queste ultime non sapevano come fare per rispondere alle numerosissime richieste che giungevano loro da ogni parte d’Italia e dall’estero. Si avvertiva l’imminente necessità di rendere l’opera accessibile al pubblico e, se in un primo momento un eventuale restauro era pensato assolutamente all’interno del monastero per non fare uscire da quella sede il dipinto, i funzionari ministeriali convinsero Savioli che era necessario pensare a un trasferimento in sicurezza in un laboratorio attrezzato in modo adeguato: secondo il parere di Gnudi, nella Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Di fronte a tutte queste ipotesi, si presentava inoltre da parte delle monache l’idea di vendere l’opera, consce del fatto che il monastero bagnacavallese versava in uno stato di decadenza e che, piuttosto che affrontare la ristrutturazione, erano disposte a trasferirsi in un’altra sede; con la vendita dell’opera sarebbe stato possibile il loro progetto. Gnudi era totalmente contrario alla vendita a terzi soprattutto per una questione di tutela del patrimonio culturale e si appigliava alla legge che obbligava l’autorizzazione da parte del ministro per poter vendere un bene sottoposto a tutela appartenente a un istituto della chiesa. Ottimale condizione era trovare un acquirente gradito alla Direzione Generale per le Antichità e le Belle Arti che potesse dare garanzie di conservazione e di fruizione pubblica dell’opera: condizione che si presentò nel 1966, quando Luigi Magnani (Reggio Emilia, 1906 – Mamiano di Traversetolo, 1984), musicologo e collezionista reggiano, visitò per la prima volta in modo interessato la Madonna del Patrocinio. Spesso gli stessi funzionari ministeriali addetti alla tutela del patrimonio artistico appoggiavano pienamente il desiderio di Magnani di “salvare e recuperare all’Italia capolavori minacciati da oscuri destini”, anche per il fatto che quest’ultimo forniva garanzie di una successiva devoluzione allo Stato o di una pubblica fruizione delle opere. Tutti concordi nel vendere l’opera a Magnani, il contratto venne firmato nel dicembre 1968, superato anche il finale imprevisto del sorprendente rifiuto da parte delle suore di cedere a lui il quadro. Queste, per concludere, oltre alla cifra in denaro, esigettero una riproduzione del capolavoro düreriano il più fedele possibile all’originale.

La registrazione dell'ingresso nel convento di suor Gertrude Canattieri
La registrazione dell’ingresso nel convento di suor Gertrude Canattieri


L'immagine del 1957 (foto di Giuseppe Zauli)
L’immagine del 1957 (foto di Giuseppe Zauli)


Luigi Magnani
Luigi Magnani


L'immagine della Madonna del Patrocinio prima del restauro del 1970
L’immagine della Madonna del Patrocinio prima del restauro del 1970

I bagnacavallesi reagirono invece preoccupati per la perdita del quadro: l’amministrazione comunale non voleva che il dipinto fosse trasferito in un’altra città, commentando che a Bagnacavallo esisteva un Museo Civico che avrebbe potuto accoglierlo, ma in realtà il museo esisteva solo sulla carta, dal momento che non era un vero museo, ma semplicemente una sala allestita nella locale biblioteca, inadatta ad accogliere un’opera di Dürer. La tavola lasciò la città in gran segreto nel mese di febbraio del 1969 per raggiungere Roma, dove subì un delicato restauro all’Istituto Centrale del Restauro per riportarla al suo stato originario.

Di restauri l’opera ne aveva subiti sostanzialmente due, “l’uno”, scriveva Longhi nel suo saggio, “forse inteso ad ovviare gli effetti di una vecchia bruciatura, comprende l’intera ciocca della chioma ricadente sulla destra del volto della Vergine e per la notevole perizia della esecuzione mostra di essere stato condotto da mano ‘filologicamente’ addestrata e pertanto, direi, non prima del secolo dei ‘lumi’; l’altro, più che un vero restauro, è un’aggiunta che, provvedendo a mascherare certe parti del Bimbo, mostra di essere stata indotta da scrupoli moralistici post-tridentini”. Dunque, a Roma, oltre al consolidamento e alla pulitura della superficie, si intervenne rimuovendo l’integrazione pittorica sulla ciocca di capelli della Madonna compiuta con ogni probabilità tra Settecento e Ottocento a seguito di una bruciatura di candela e il piccolo perizoma aggiunto nel tardo Cinquecento al Bambino per motivi morali.

È un’opera di straordinario valore e bellezza e ne era già consapevole Antonio Savioli, quando per primo la descrisse sul Bollettino Diocesano di Faenza: “Iconografia della Mater Christi. Il santo Bambino tiene nella destra un ramettino di fragola, fissa la Madre negli occhi e si aggrappa alla sua mano sinistra quasi per assicurare il proprio equilibrio. È adagiato sur pannolino candido, è tutto ignudo all’infuori del perizoma che è un’aggiunta, forse, tardiva. La Vergine guarda dolcemente e quasi contempla il divino Figlio. Indossa la veste rossa. Il manto azzurro ripiegato sul capo lascia a vista la cuffia bianca che inguaina l’opulenta treccia. Il fondale, a destra dell’osservatore, da un incisore ottocentesco fu interpretato come una finestra, ed il fiorone a monocromato come decorazione terminale di un parapetto. Se invece si trattasse, come pare, di una porta, bisognerebbe pensare ad un cancello di chiusura, al di là del quale, in ogni caso, si vede un muro di mattoni legati da calce bianca. Sulla sinistra, invece, il fondo è occupato da un montante di cornice o telaio ligneo. La luce principale si diffonde da una sorgente a sinistra con incidenza di 45° rispetto al piano della pittura”.

Savioli l’associa all’iconografia della Mater Christi, ma in realtà, come ha commentato Raffaella Zama, ci si trova di fronte a una Compassio Mariae, ovvero una riflessione e una devozione nei confronti del dolore che Maria ha provato vivendo la passione e la morte del Figlio. La piccola mano sinistra del Bambino che si aggrappa alla mano della Madre rimanda ai pensieri tragici di quest’ultima che prefigurano la mano del figlio trafitta dal chiodo della Passione, ma altri elementi rimandano a ciò: il colore scuro del manto della Vergine fa pensare a un lutto, il suo sguardo è tenero e dolce verso il Bambino ma nello stesso tempo è triste e malinconico; e ancora, il Bambino interrompe il suo gioco con il rametto di fragole rosse, che alludono alla sua Passione, per cercare invano con lo sguardo gli occhi di sua madre. In un’unica immagine, Dürer è riuscito a condensare la tenerezza tra la Vergine e il Bambino e la Passione di Cristo, conducendo la nostra mente alle rivelazioni di santa Brigida di Svezia, secondo la quale, ogni volta che Maria guardava il figlio e vedeva le sue mani e i suoi piedi, era colta da un intenso dolore, perché il suo pensiero premonitore la portava ai patimenti e alla morte sulla croce.

Dal punto di vista tecnico, la Madonna del Patrocinio assorbe in un’unica opera elementi nordici, delle origini del maestro di Norimberga, ed elementi italiani: un aspetto su cui si è discusso per quanto riguarda l’individuazione del periodo di realizzazione dell’opera. Longhi, nel suo saggio pubblicato su Paragone Arte, conferma l’associazione del dipinto al secondo viaggio italiano compiuto da Dürer tra il 1505 e il 1507, sostenendo che il maestro aveva raggiunto la sua maturità e quindi si dimostrava più consapevole nell’assimilazione dei formalismi italiani e nel recupero dell’arte delle sue origini nordiche. Per contro, altri critici sostenevano che l’opera risalisse al primo soggiorno italiano, alla metà degli anni Novanta del Quattrocento, affermando un incontro più precoce con il Rinascimento italiano. Tuttavia, molti degli esempi di artisti italiani che Longhi cita nel suo saggio rimandano agli anni Novanta del Quattrocento: “La impaginazione dl gruppo divino è, alla prima, di taglio belliniano e antonellesco […] Una calibratura calma, ’piramidata’, senza quasi nessun tratto eteroclito; un ovale dolcissimo nella Madre; una vivacità, ma regolata e quasi di calmo esercizio ginnico nel corpo del Bimbo che si approssima, più che ad altri italiani, al vicentino Montagna: un artista che il Dürer potrebbe aver visto scendendo dall’Alpe di Trento prima di avviarsi a Venezia”; e dopo poche righe commenta che “la cuffia della Vergine che s’è appena detta montagnesca, scende a coprir quasi tutta la fronte a guisa di benda monacale da ‘béguine’ nordica come il Dürer aveva insistentemente usato nelle incisioni anteriori al secondo viaggio. Le spalle a cupola dei grandi e nobili corpi italiani si fanno strette e mancanti; la chioma a fili di rame brillanti si spartisce in un’asimmetria per noi incomprensibile, senza più rapporti con la sintassi italiana”. Conclude però affermando che “questa contraddizione voluta pur nella mescolanza linguistica è di così sottile impegno che il Dürer non può averla esperita che negli anni del secondo viaggio italiano tra il 1505 e il 1507, tra Venezia e Bologna”.

Tuttavia, confrontando la Madonna del Patrocinio con altre opere della fine del Quattrocento, si trovano elementi in comune, come sostiene Diego Galizzi. Innanzitutto, la composizione piramidale dell’opera fa pensare al motivo della Madonna seduta che si affaccia da un parapetto basso tipico dell’ambito mantegnesco e belliniano, come ad esempio la Madonna dei cherubini rossi di Giovanni Bellini (Venezia, 1433 circa – 1516). Il risvolto all’indietro del manto scuro sul capo della Vergine, con la foderatura color ruggine, rimanda a numerose Madonne degli anni Novanta di Cima da Conegliano (Conegliano, 1459/60 – 1517/18), come la Madonna col Bambino del Petit Palais di Parigi. E ancora, Bartolomeo Montagna (Orzinuovi, 1449/50 – Vicenza, 1523) era solito raffigurare la piega centrale che divideva a metà la cuffia bianca della Vergine, motivo di provenienza nordica che infatti Dürer utilizzò spesso nelle sue Madonne, tra cui la Madonna Haller di Washington del 1498 circa.

Giovanni Bellini, Madonna dei cherubini rossi (1485; olio su tavola, 77 x 60 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)
Giovanni Bellini, Madonna dei cherubini rossi (1485; olio su tavola, 77 x 60 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Cima da Conegliano, Madonna col bambino (1495-97; olio su tavola, 71 x 55 cm; Parigi, Petit Palais)
Cima da Conegliano, Madonna col bambino (1495-97; olio su tavola, 71 x 55 cm; Parigi, Petit Palais)


Albrecht Dürer, Madonna Haller (1498 circa; olio su tavola, 50 x 40 cm; Washington, National Gallery of Art)
Albrecht Dürer, Madonna Haller (1498 circa; olio su tavola, 50 x 40 cm; Washington, National Gallery of Art)


Martin Schongauer, Madonna del pappagallo (1470-75 circa; bulino, 155,8×107 mm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Martin Schongauer, Madonna del pappagallo (1470-75 circa; bulino, 155,8×107 mm; New York, The Metropolitan Museum of Art)


Albrecht Dürer, Foglio con studi vari (1495 circa; penna a inchiostro nero e grigio su carta, 370 x 255 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 1049E)
Albrecht Dürer, Foglio con studi vari (1495 circa; penna a inchiostro nero e grigio su carta, 370 x 255 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 1049E)

Inoltre, già Savioli aveva notato la “sintassi nordica della figura della Vergine” e in effetti il volto della Vergine della Madonna del Patrocinio rispecchia un modello tardogotico del sud della Germania: il contorno ovale del viso, le sopracciglia inarcate, le palpebre socchiuse verso il basso, il naso affusolato, la bocca piccola; sono caratteristiche che si ritrovano nelle opere di Martin Schongauer (Colmar, 1448 circa – Breisach am Rhein, 1491), una di queste è la Madonna col Bambino e pappagallo realizzata a bulino tra il 1470 e il 1475.

Nella figura del Bambino era stato invece riconosciuto un modello verrocchiesco: un disegno di Dürer conservato al Louvre e datato 1495 testimonia la sua conoscenza rispetto a un modello riconducibile a Lorenzo di Credi (Firenze, 1459/60 – 1537), uno dei più notevoli allievi del Verrocchio (Firenze, 1435 – Venezia, 1488). E un foglio risalente al 1495 circa custodito nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, su cui il maestro di Norimberga si era esercitato in alcuni studi di arte rinascimentale italiana, rivela proprio nell’angolo sinistro in basso del foglio un piccolo Gesù bambino seduto ricavato da un prototipo del Verrocchio o di Lorenzo di Credi. Il piccolo Gesù Bambino risulta molto simile al Bambino raffigurato nella Madonna del Patrocinio, anche se l’artista lo ha modificato per adattarlo alla particolare iconografia del dipinto: la mano sinistra del Bambino si congiunge con quella della madre e l’altra mano stringe un rametto di fragoline rosse.

È un dipinto che rivela significati iconografici e sacri molto più profondi della mera raffigurazione di una Vergine col Bambino ed è perciò evidente, alla luce di tutto ciò, il legame profondo che quest’opera avesse con un ambiente di preghiera come quello del Monastero delle suore Clarisse Cappuccine di Bagnacavallo, dove ora, a distanza di cinquant’anni, ha fatto ritorno per essere ammirato da tutti nel suo massimo splendore.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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