All’estremità est della Toscana, quasi al confine con l’Umbria, adagiata sulle rive del Tevere si trova la piccola città di Sansepolcro, una realtà dove l’arte costituisce uno dei primi motivi d’attrazione. Si tratta infatti di una terra che ha dato i natali a importanti artisti, tra i quali Santi di Tito, Raffaellino del Colle e Angiolo Tricca, solo per citare alcuni dei più noti. Ma non v’è dubbio che il più famoso sia Piero della Francesca, la cui storia è profondamente legata a quella della cittadina toscana, anche perché vi si conservano alcune delle opere più celebri della sua produzione, che oggi si trovano custodite nel Museo Civico che porta il nome dell’artista, in cui si trovano inoltre altre importanti opere non solo di pittori biturgensi, ma anche di significativi protagonisti dell’arte come Pontormo, Andrea Della Robbia e Passignano.
Oltre l’importante Polittico della Misericordia di mano di Piero e due lacerti di affreschi, nel museo si trova anche il dipinto murale della Resurrezione, che riveste un ruolo di primo piano nella storia dell’arte. Forse meno noto al grande pubblico di altri capolavori, valorizzati dalla fortuna geografica, la sua rilevanza trova però riprova negli apprezzamenti che sono stati spesi da innumerevoli intellettuali di diverse epoche. Impossibile dire quanti occhi hanno indugiato su questo capolavoro, né tantomeno quante pagine e quanto inchiostro siano stati consumati per parlarne.
Già il Vasari nella vita dedicata a Piero della Francesca ricordava che l’artista dipinse “nel Palazzo de’ Conservadori una Resurezzione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore”. Con parole per niente differenti lo ricordò nel suo resoconto di viaggio a fine XVII secolo il geografo e letterato francese François Deseine. Bisognerà però aspettare il XIX secolo per ritrovare nuove considerazioni a proposito del capolavoro di Piero, tanto che qualcuno ha ipotizzato che in questo periodo l’opera fosse stata scialbata. O forse il raffreddarsi dell’interesse per il dipinto murario si deve solamente a cambiamenti di gusto e più in generale a una certa difficoltà ad accedervi per i viaggiatori. Che insistessero delle complicazioni per la visita lo testimonia anche l’archeologo Auston Henry Layard, il quale nel 1855 ricorda: “La sala che essa adorna, un tempo palazzo dei Conservatori, è stata adibita a deposito del Monte di Pietà, o banco dei pegni gestito dal Governo. Le finestre sono state chiuse con cura per non fare entrare l’aria e la luce. Accatastati alle pareti ci sono paioli in rame, pentole, marmitte, strumenti agricoli, filatoi a mano, matasse di filo di cotone, per farla breve tutto quanto appartiene a una casa italiana di contadini e dal cui pegno si possono ricavare pochi spiccioli. Se un forestiero chiede di vederlo deve attendere la disponibilità dei vari direttori dell’istituto, i quali hanno chiavi diverse a riprova della loro individuale onestà”. Peraltro è proprio Layard che, scrivendo entusiasticamente di quell’opera “sublime” sulla rivista Quarterly Review, contribuì a risvegliare l’interesse dei connazionali anglosassoni.
Si aggiunsero poi meno di vent’anni dopo le parole dello storico dell’arte John Addington Symonds, importante riferimento per gli studi sul Rinascimento compiuti in Inghilterra: “La rappresentazione più sublime, più poetica e più terribile che sia mai stata fatta della Resurrezione”, impossibile da dimenticare per quei suoi valori di “allontanamento da tutte le cose terrene che produce sull’animo questo capolavoro”. Nel 1910 è invece il britannico Edward Hutton, scrittore di guide odeporiche che sostiene come “la Resurrezione nel Municipio è, con ogni probabilità, la più bella raffigurazione che esista al mondo del Trionfo di Cristo”.
Ma sono le parole spese da Aldous Huxley nel suo libro Along the Road quelle rimaste più celebri e indelebili. L’autore de Il mondo nuovo infatti rincarò la dose, definendo la Resurrezione “la più bella pittura del mondo” e consumò diverse pagine infuocate per sostenerlo, affermando come la figura del Cristo riuscisse ad assommare in sé potere fisico ed intellettuale tanto da diventare “la resurrezione dell’ideale classico”. Queste pagine della storia dell’arte non solo ebbero grande importanza nel riscoprire l’opera ma come è noto anche di salvarla da distruzione certa. Infatti, nel 1944 il capitano Anthony Clarke si ricordò di aver letto il pensiero di Huxley, decidendo pertanto di far terminare il bombardamento a tappeto su Sansepolcro.
Ma tra le tante parole spese per la Resurrezione ci sono ovviamente anche quelle dei critici nostrani, ad esempio proprio a riguardo di questo dipinto si disputò l’ennesima pagina delle querelle fra Bernard Berenson e Roberto Longhi, ognuno teso a rivendicare la paternità della riscoperta dell’opera di Piero. Per il critico di origine lituane quel “robusto stivatore” esprimeva a pieno la grandezza dell’artista biturgense, che nei suoi dipinti non aveva alcuna urgenza di comunicare alcunchè, un’opera “ineloquente”, la cui semplice esistenza ci appaga di per sé.
Mentre Roberto Longhi dedicò alla Resurrezione del borgo toscano una delle ekphrasis più poetiche e alte della storia dell’arte italiana: “Un corpo di modulo sublime, nutrito di rara polpa eburnea, pretesto nella toga certamente classica, ma intinta in un rosa novello come non si vide giammai nella pittura antica. La Resurrezione è un’artata coincidenza con l’alba sui colli umbri che, ancora bigi della notte, accolgono quel gran rosa del Cristo, ci si acqueta soddisfatti nella corale perfezione dello stile che Piero si indugia a comunicarci per tanti segni”. E ancora: “Come la luce di un sole che, dopo la lunga stagione invernale, rinasca in un’alba di aprile e il manto del Cristo che, in quel lume, si accende rosato, quasi che un albero di pesco sia fiorito segretamente nella prima notte di primavera. I guardiani del sepolcro, anche se il sonno, simbolicamente, si esprime in essi nei suoi traslati inconsci di agonia, di estasi, di inerme beatitudine, di attenzione alle cose segrete, dormono ancora nulla sapendo di quel che avvenne durante la notte. Il Cristo, orrendamente silvanò, quasi bovino, torvo colono umbro levatosi ancor prima dell’alba, poggiato un piede sull’orlo del sarcofago come sulla proda del campo, guarda contristato i luminosi poderi di questo suo tristo mondo”.
Quelle finora proposte non sono che una crudele selezione delle moltissime altre pagine scritte in favore di questa opera, tra le quali si annoverano tanti altri grandi nomi come per esempio John Pope-Hennessy, Federico Zeri, Matteo Marangoni, Antonio Paolucci, Massimo Cacciari e tanti altri ancora.
L’opera di Piero è stata oggetto di un recente e importante restauro, che l’ha interessata dal 2015 al 2018 e che ha permesso di approfondire la conoscenza di questo capolavoro. Ne è emerso che la Resurrezione è un dipinto a tecnica mista che, solo in minima parte è stato realizzato ad affresco, mentre per ampie zone è stata usata la pittura a secco, con tempera grassa e olio. Ma forse ancora più interessante è il fatto che i restauratori hanno potuto confermare ciò che prima del restauro si attestava come un vago ricordo o una diceria, ovvero che l’opera di Piero non era stata realizzata sulla parete dove insiste oggi nella sala dei Conservatori, bensì probabilmente su una parete esterna in prossimità dell’arengario, dove le magistrature parlavano al popolo e poi spostata nella collocazione attuale nel riordino cinquecentesco della sala, di fatto costituendo uno dei più antichi esempi di trasporto a massello della storia dell’arte.
Si evidenzia così la volontà di esaltazione di orgoglio civico. Del resto il dipinto “non doveva essere niente altro che lo stemma della città”, come afferma Paolucci: si riteneva infatti che Sansepolcro fosse nata intorno all’oratorio che custodiva alcune reliquie del Santo Sepolcro portate da Gerusalemme da due pellegrini. Il dipinto pensato per il Palazzo del Comune si inserisce in un momento di espansione del borgo che vede il progredire di alcune operazioni di nobilitazione del centro urbano. La datazione dell’opera ancora oggi dibattuta viene perciò fatta risalire intorno all’anno 1460. Piero a quella data era già un pittore celebre, con alle spalle prestigiose commissioni sparse per il Centro Italia, ma ancora conservava un forte legame per la città natale, dove viveva, operava e altresì partecipava alla vita civica con alcuni incarichi pubblici.
Per tali ragioni, benché l’opera possa vantare ambivalenti registri di lettura, verrebbe quasi da credere che l’operazione di Piero piuttosto che esaltare un valore spirituale, risponda piuttosto a logiche di orgoglio civico. In tal guisa, si iscriverebbe forse l’attitudine ieratica e guerrigliera del Cristo, ma anche il paesaggio che si dipana alle sue spalle. Il Risorto infatti spartisce perfettamente in due lo sfondo: sulla sinistra si notano degli alberi secchi, mentre sulla destra rigogliosi e fronzuti. Alcuni critici hanno voluto leggere in questo un riferimento alla ciclicità delle stagioni, che per Clark rinforzava il legame tra Cristo e le antiche divinità del grano. Mentre per Toloy si trattava di un’allusione all’eterno ripetersi della primavera, cioè al legame diretto tra la resurrezione della natura con quella di Cristo.
Ma verrebbe quasi da pensare che nel paysage moralisé si possa ravvisare, come accade nel Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, un riferimento alle alterne fortune della comunità e della città, effetto dell’ethos dei cittadini, inteso cioè come libera scelta, pratica e morale. E se così fosse, oltre tutti i superlativi fin qui scorsi, non si potrebbe quindi aggiungere che con Piero siamo davanti alla Resurrezione più laica della storia dell’arte?
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.