Frugando tra gli archivi della RAI, è possibile trovare, anche con una certa facilità, un’intervista di Ugo Gregoretti a uno dei più grandi designer italiani del secondo Novecento: Alessandro Mendini (Milano, 1931 – 2019). L’intervista verte su quella che è probabilmente la creazione più famosa di Mendini: la celeberrima poltrona Proust, che reca il nome del fondamentale scrittore francese, Marcel Proust, autore del romanzo Alla ricerca del tempo perduto. Un tempo perduto che pare venga rievocato da questa stravagante poltrona, che Mendini disegnò nel 1976 e realizzò nel 1978. “La più fotografata delle poltrone italiane, forse la maggiorata fisica delle nostre poltrone”: così la definiva Gregoretti, cominciando l’intervista.
E in effetti, se si prova a pensare a una poltrona di design, il primo nome che verrà in mente ai più con tutta probabilità sarà proprio quello della famosissima Proust. Una poltrona disegnata con particolare attenzione alla forma, utilizzando una combinazione di curve sinuose, linee stravaganti e reminiscenze barocche per creare un’armonia visiva, il tutto unito a un tessuto fantasioso direttamente ispirato al pointillisme francese. Una poltrona in legno e tessuto che imitava le sedute antiche per offrire ai suoi rarissimi acquirenti sensazioni letterarie. Schienale alto e imbottito, braccioli larghi con due ampie volute per offrire anche comodità a chi ci si siede sopra: un oggetto pensato per la lettura, per la conversazione, nato però più per trasmettere un’idea che per essere inserito effettivamente in un ambiente domestico.
La nascita di Proust avvenne quasi per caso. A partire da due ready made, come avrebbe dichiarato lo stesso Mendini nella famosa intervista: si tratta quindi di un pezzo di “re-design”, secondo l’artista. Il primo ready made è una poltrona in stile finto settecentesco che il designer aveva trovato in un mercatino in Veneto, durante un suo viaggio. Un oggetto kitsch, insomma: Mendini non aveva alcun problema ad ammetterlo. Il secondo è un prato di un non meglio specificato quadro di Paul Signac, che insieme a Georges Seurat fu il principale esponente del puntinismo (o pointillisme). Da questa combinazione nacquero la forma di Proust e il suo colore. E perché infine il riferimento al letterato? La Recherche, ha detto lo stesso Mendini in una intervista a Repubblica, “è stata per me una lettura infinita, un intreccio di sequenze senza inizio né fine. Rispecchia il percorso della mia vita. E poi, Proust mi interessava per il suo rapporto con la pittura. Non tanto quella che lui ama e che ritrova in Vermeer, ma quella coeva a lui: divisionismo e puntinismo, in cui ogni pennellata ha la sua forza individuale e l’immagine si frantuma, si spezza e si ricompone in un caleidoscopio di colori, come appunto in Signac e in Seurat”.
“Per disegnare un oggetto”, spiegò Mendini a Gregoretti, “ci sono tante strade e tanti possono essere gli obiettivi che uno vuole raggiungere. In questo caso mi interessava disegnare una poltrona partendo da una via e da una sensazione letteraria: Proust. Leggendo Proust, si hanno delle grandi sensazioni ambientali e di interni, è ricchissimo di questa scenografia ambientale. Mi sono immaginato come poteva essere una poltrona per Proust. Mi sono anche informato, ho visitato i suoi luoghi, ho capito che era una persona vicina ai puntinisti a Parigi, e pertanto ho pensato al puntinismo come luogo anche di immaterializzazione dell’oggetto, cioè come tendenza all’atmosfera anziché alla fisicità”. Naturalmente non sapremo mai se Proust sarebbe stato d’accordo con Mendini. O se avrebbe avuto piacere a sedersi sulla sua poltrona. Su una cosa però si può concordare, come ha notato Silvana Annicchiarico nel suo libro 100 oggetti del design italiano: “la poltrona di Proust ha a che fare tanto con la ricerca quanto con la memoria e con il tempo. Quello perduto, quello che si perde”. Nel periodo storico in cui apparve, la fine degli anni Settanta, Proust si pose, spiega Annicchiarico, come “un oggetto che attacca e dissolve le tradizionali connotazioni del design razionalista (originalità nella forma, funzionalità, produzione in serie) in una chiave giudicata – di volta in volta – romantica o trasgressiva”. La poltrona di Mendini, peraltro, fu immaginata come un pezzo unico. Il designer milanese aveva pensato a un qualcosa di ricco, oltre che a un oggetto che fosse indeterminato sia geograficamente, sia cronologicamente: “mi interessava anche il paradosso per il quale questo oggetto che doveva nascere non avesse data, non avesse riferibilità filologica”.
Una poltrona barocca, una fantasia ottocentesca, il tutto calato in un contesto in cui il razionalismo stava cedendo il posto al postmodernismo. E in effetti anche Proust può essere tranquillamente letta come un’opera d’arte postmoderna: la cultura alta di Proust e di Signac viene riletta per creare una poltrona bizzarra, ironica, particolare, surreale, anche giocosa. Non a caso, Proust venne esposta per la prima volta, quando ancora doveva rimanere un pezzo unico, alla mostra Incontri ravvicinati di architettura, organizzata nel 1978 a Palazzo dei Diamanti e curata da Andrea Branzi ed Ettore Sottsass: un avanguardista, e colui che sarebbe di lì a breve divenuto il più grande designer postmodernista d’Italia. Nello stesso anno venne poi esposta come opera d’arte alla Biennale di Venezia. Quel primo esemplare fu dipinto a mano da Prospero Rasulo e Pierantonio Volpini. La poltrona venne quindi acquistata dall’artista e fashion designer Cinzia Ruggeri, e il suo studio, Alchimia, ne produsse un certo numero di pezzi, probabilmente quindici, tutti per selezionati collezionisti (Mendini ne firmò alcuni ma non si preoccupò di registrare la numerazione). A occuparsi della decorazione con colori acrilici sarebbe stato poi l’artista Franco Migliaccio. Queste poltrone sono finite poi in diversi musei, come il Groninger Museum in Olanda o il Vitra Design Museum di Weil-am-Rhein in Germania o ancora il Victoria & Albert Museum di Londra e il Museo del Mobile di Milano al Castello Sforzesco, per non parlare di quelle che sono andate a decorare le case di collezionisti.
Mendini voleva rendere un omaggio al grande letterato attraverso una poltrona direttamente ispirata alla sua opera. Non solo: per sua stessa ammissione, la sua ambizione era quella di creare un oggetto culturale partendo da un falso, da un pezzo kitsch, da un oggetto proveniente da una produzione massiva, in serie. Un “gioco mentale affascinante”, come lo stesso Mendini avrebbe poi dichiarato. E riuscì a creare una icona del design italiano e un’opera d’arte apprezzata in tutto il mondo. Tanto che poi Mendini si convinse a far avviare una piccola produzione. Accadde nel 1989, dapprima con tre pezzi creati in maniera sperimentale sotto la supervisione diretta di Mendini. Poi altri due nel 1991. Altri pezzi ne sarebbero seguiti: per esempio, nel 1999 uno personalizzato per il regista teatrale Bob Wilson. Nel 1994 è entrata infine nel catalogo dell’azienda Cappellini, che ha avviato una produzione seriale, benché i prezzi siano tutt’altro che accessibili. Tutte con tessuti variopinti: si sono succedute, per esempio, la Proust Giallo e Nero, la Proust Geometrica, la Proust di Cimarosa, la Proust Paradise e molte altre. Nel 2005, per la mostra Art of Italian Design di Atene, Mendini ha prodotto, su suggerimento di Piero Bisazza, una Proust di dimensioni monumentali (“non è più solo una poltrona, è una scultura e forse una architettura”, ha detto Mendini in quell’occasione). Addirittura, in collaborazione con l’azienda RobotCity di Carrara, nel 2014 Mendini ne creò una fatta interamente di marmo apuano. Inoltre, alle poltrone “vere” si sono aggiunte piccole miniature in ceramica, in tiratura limitata. Infine, le Proust pensate per esterno, in versione outdoor insomma, prodotte dall’azienda Magis.
La vera anima di Proust rimane tuttavia quella di un oggetto di design che può essere considerato anche un’opera d’arte: nel suo libro L’ornamento non è più un delitto, un saggio sulla decorazione contemporanea, l’architetta e designer Cinzia Pagni la inserisce tra le creazioni degli “artistic designer”, ovvero quei creatori che “si prestano al mondo del design come dei veri e propri artisti, creando oggetti che diventano ‘pezzi unici’ a tiratura limitata, un po’ in controtendenza rispetto alla definizione stessa di industrial design”. Designer di questo tipo possono dunque permettersi ricerche molto libere che guardano non solo alle forme e ai concetti, ma anche allo studio dei materiali e soprattutto al significato dei loro prodotti, introducendo nel design “la ricerca e la poesia, tra innovazione e tradizione, tra le esigenze del pubblico e le strategie aziendali”. Ecco perché dunque è spesso più facile trovare Proust dentro un museo che dentro una casa.
Eppure, quello stesso oggetto che doveva essere un unicum è finito poi per diventare un prodotto realizzato in serie. Serie naturalmente limitate, ma comunque prodotte secondo una logica diversa rispetto a quella che aveva portato alla nascita di Proust. E poi, la stessa poltrona di Mendini è diventata “simbolo del design neokitsch”, come ha scritto lo studioso Andrea Mecacci (ovvero “kitsch consapevole”, secondo una definizione dello stesso Mendini). Qui, “la poetica del double coding”, ha giustamente scritto Mecacci, “è al massimo della sua riconoscibilità”. Double coding significa letteralmente “doppio registro”, ed è una nozione formulata dall’architetto Charles Jencks, principale teorico dell’architettura postmoderna: è la caratteristica di certi oggetti kitsch di parlare contemporaneamente sia alle élite che all’uomo della strada. E la poltrona di Mendini riesce benissimo in questa operazione.