La pittura di Nicola Bolla, dai Pigment Paintings agli LP dipinti


Nicola Bolla (Saluzzo, 1963) è uno tra gli artisti contemporanei italiani più riconosciuti nel mondo, celebre soprattutto per le sue sculture coi cristalli Swarovski e le carte da gioco. Ma è anche un eccellente pittore: la sua pittura rappresenta la parte più intima del suo lavoro.

Tutti conoscono For the love of God, il teschio ricoperto di diamanti che Damien Hirst eseguì nel 2007 riscuotendo lodi e plausi in tutto il mondo. Quanti invece conoscono l’artista che con tutta probabilità lo ha ispirato? C’è da rivolgere lo sguardo verso il Piemonte, dove lavora Nicola Bolla, che col suo Skull del 1997, un teschio interamente coperto di cristalli Swarovski, ha preceduto Hirst di dieci anni esatti. Chi vorrà approfondire la sua arte, scoprirà una produzione che abbonda di scintillanti teschi, scheletri e ossa che ricordano a chi li osserva la finitezza della nostra vita terrena. Sono vanitas che trovano le loro radici nell’arte del Cinque e del Seicento, fonte alla quale sempre ha attinto il lavoro di Nicola Bolla: vengono subito alla mente gli orrorifici memento mori di Jacopo Ligozzi, che inseriva teste in decomposizione sopra mensole colme d’oro e di gioielli. Bolla sostituisce ai preziosi di Ligozzi un altro simbolo di caducità, gli strass di Swarovski: ne risulta una vanitas pop in grado di parlare a un pubblico contemporaneo, a un pubblico che sembra aver rimosso l’idea della morte dal proprio orizzonte ideale, e questo malgrado ci troviamo, paradossalmente, in quella che il sociologo Michael Hviid Jacobsen ha definito “l’epoca della morte spettacolare”, ovvero un’epoca in cui la morte viene continuamente spettacolarizzata ma è difficile parlarne in maniera significativa, profonda (con le parole di Jacobsen: “la morte oggi sembra essere uno spettacolo di cui siamo testimoni a distanza di sicurezza, ma senza mai arrivarci abbastanza vicini da averne familiarità”).

Le vanitas sono tra le opere più note di Nicola Bolla, che negli anni ha sperimentato i mezzi più diversi, ottenendo successo specialmente con le carte da gioco, altro materiale che incarna l’idea della fragilità, e col quale Bolla ha prodotto in continuazione teschi, animali, ipnotici mandala, introducendo nella sua arte l’idea della serialità insita nella Pop Art, alla quale il lavoro di Bolla è stato accostato, anche se le similarità riguardano per lo più gli strumenti e le modalità (non ultima quella dell’ironia, che pervade sempre le opere di Bolla, spesso caratterizzate da un atteggiamento anche ludico nei riguardi della realtà, aspetto peraltro già dettagliatamente approfondito su queste pagine). L’approccio però è più onnivoro: Bolla non si limita a osservare i simboli e le icone della società dei consumi per farli proprî, o ad accogliere elementi di cultura popolare nel suo lavoro. Anche perché questo non sempre accade: i soggetti delle sue opere raccolgono sì dal repertorio pop (si pensi, per esempio, ai microfoni di Orpheus’ Dream, l’opera che ha portato al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2009), ma guardano anche all’arte antica, alle culture lontane. Si potrebbe dunque affermare che Nicola Bolla ha piuttosto lo sguardo curioso e aperto al mondo del collezionista secentesco che andava alla ricerca degli oggetti più strani e bizzarri, pescando nell’universo della natura o tra i più insoliti artificialia prodotti dall’estro dell’essere umano: lui stesso, affascinato dalle antiche Wunderkammer, è un appassionato collezionista di singolari oggetti antichi. E anche la sua produzione serba numerose tracce di questi suoi interessi così varî e multiformi.

Nicola Bolla ha cominciato presto il suo percorso nell’arte, che ha seguito in parallelo a quello nella medicina (oltre a essere un artista di successo, è anche un affermato oculista). Figlio d’arte, s’è formato da solo, nutrendosi di ciò che vedeva attorno a sé: i lavori del padre Piero (che comunque, ribadisce Nicola, non gli ha insegnato niente, e non gli ha neppure impartito i primi rudimenti tecnici), i lavori dei poveristi piemontesi (a cominciare da Giuseppe Penone, un punto di riferimento), le opere antiche che ammirava alle mostre e nei musei. Ha cominciato a esporre all’inizio degli anni Duemila, dividendosi tra l’Italia e New York, dove le sue opere coi cristalli Swarovski hanno riscosso numerosi consensi (sulle rive dell’Hudson, Bolla ha messo assieme quattro personali e dieci partecipazioni a collettive: chissà se Hirst era presente tra il pubblico). Tra il 2007 e il 2009 la definitiva consacrazione con una serie di successi consecutivi: prima la personale da Sperone a New York, poi la partecipazione alla XIII Biennale di Scultura a Carrara, e infine, nel 2009, la “convocazione” per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia. E sempre con i cristalli: a New York una brillantissima cella di prigione con cui Bolla invitava il pubblico “a riflettere su un mondo costruito intorno alla bellezza e all’aspetto degli oggetti”, malgrado “i gioielli nascondano un profondo senso di malinconia” (così scriveva in quell’occasione Alberto Fiz), a Carrara Vanitas Church, un teschio di Swarovski che indossava un cappello da cardinale, e a Venezia il summenzionato Orpheus’ Dream, i microfoni che sono poi entrati nel novero delle sue opere più famose. L’inizio della carriera di Nicola Bolla è stato però nel segno della pittura. Ed è alla pittura che occorre guardare se si vuol vedere un Bolla più riposto e più intimo. E anche meno noto: al contrario delle sculture, i suoi dipinti e le sue carte sono stati esposti di rado, malgrado l’artista non abbia mai smesso neanche per un minuto di dedicarsi alla pittura e il suo lavoro su tela, su tavola, su carta (e non solo) abbia ormai raggiunto una mole considerevole.

Nicola Bolla, Vanitas (1997; ottone e cristalli Swarovski, 18 x 22 x 14 cm)
Nicola Bolla, Vanitas (1997; ottone e cristalli Swarovski, 18 x 22 x 14 cm)
Nicola Bolla, Orpheus' Dream (2009; cristalli Swarovski incastonati su maglia di ferro, dimensioni variabili). Veduta dell'installazione al Padiglione Italia, Biennale di Venezia 2009
Nicola Bolla, Orpheus’ Dream (2009; cristalli Swarovski incastonati su maglia di ferro, dimensioni variabili). Veduta dell’installazione al Padiglione Italia, Biennale di Venezia 2009
Nicola Bolla, Vanitas Trumpet (2012; ottone e cristalli Swarovski)
Nicola Bolla, Vanitas Trumpet (2012; ottone e cristalli Swarovski)
Nicola Bolla, Mandala (2012; carte da ramino su tavola, diametro 210 cm)
Nicola Bolla, Mandala (2012; carte da ramino su tavola, diametro 210 cm)
Nicola Bolla, Crocodile Player (2003; carte da ramino, 80 x 350 x 130 cm)
Nicola Bolla, Crocodile Player (2003; carte da ramino, 80 x 350 x 130 cm)
Nicola Bolla, Cigno (2006; carte da ramino, 60 x 98 x 33 cm)
Nicola Bolla, Cigno (2006; carte da ramino, 60 x 98 x 33 cm)

Anche la pittura di Bolla conserva traccia del suo pensiero sulla fuggevolezza dell’esistenza. “Il pensiero della fragilità”, scriveva Gabriella Serusi a proposito di Vanitas Church, ”dell’impermanenza dell’esistenza umana, della vanità insensata che regola molte delle azioni e della quotidianità cosiddetta ‘civile’, viene reificato e ridotto a oggetto tout court. Con uno spostamento ironico, per certi aspetti seguendo una logica paradossale, Bolla affida proprio all’opera d’arte - portatrice naturale dei valori di bellezza, ricchezza, vanità superflua - il compito di ristabilire un nuovo ordine di moralità, di dettare nuovi parametri di giudizio validi per orientarsi nell’universo di beni materiali e immateriali”. Il ragionamento potrebbe essere tranquillamente applicato anche ai dipinti, primi su tutti i Pigments Paintings e le Pigments Papers, opere su tela e su carta con cui l’artista lavora su immagini tratte dal repertorio più quotidiano e, se vogliamo, anche più banale: l’immagine di partenza, solitamente una fotografia, è un’immagine che non ha niente di straordinario. Una coppia seduta su di una panchina, un ananas, un fiore, un personaggio dei fumetti. Ma ci sono anche teste di cardinali à la Bacon: nell’universo di Bolla non esistono gerarchie, non esistono scale di valori. Tutti i soggetti hanno pari valore perché appartengono allo stesso mondo. Bolla comincia poi a lavorare sul suo soggetto per sottrazione al fine di giungere a una decostruzione, trasformando l’immagine con colori accesi, spesso violenti, rendendola sempre più irriconoscibile: in alcuni lavori della serie il soggetto è più facilmente percepibile, in altri invece diventa arduo da individuare. Lo stesso soggetto viene infatti spesso ripetuto più volte: come s’è anticipato, la serialità è una delle dimensioni dell’arte di Nicola Bolla (non lo è invece la ripetizione: Bolla detesta ripetersi, la sua produzione è estremamente varia). Rimangono così campiture di pigmenti puri e glitter su fondo neutro, che consentono al pubblico d’aprire lo sguardo su di un universo trasfigurato, con oggetti umili e banali che in parte perdono i contatti con la realtà feriale da cui provengono per trasformarsi in nubilose elegie contemporanee, facendosi icone spente e lontane del nostro quotidiano, e al contempo immagini simili a quelle dei ricordi. Diversi lavori della serie, a cominciare da quelli sui personaggi dei fumetti per bambini, ci riportano a un immaginario infantile: Bolla non fa mistero d’aver manifestato la sua inclinazione per l’arte quando, da piccolo, preferiva costruirsi i giocattoli da solo.

Chi avrà il piacere di parlare con Nicola Bolla dei suoi Pigment Paintings, parlerà con un artista molto orgoglioso anche della tecnica messa a punto per garantire durata e resistenza alle immagini. L’esempio forse più immediato è quello di Yves Klein, che sviluppò un’intrigante tonalità di blu, il suo IKB (International Klein Blu), abbagliante e profondo, brillante e metafisico, vibrante ed emozionante, un blu che gli consentiva d’esprimersi con quella libertà che forse altrimenti non avrebbe mai trovato. L’aspetto negativo del pigmento da lui brevettato è però la sua fragilità: le opere monocrome di Klein sono difficili da conservare, perché il legante con cui l’artista fissava il colore non garantiva una protezione ottimale, e la finitura opaca del pigmento è molto facile da graffiare e sfumare. In altri termini: se si sfrega, neanche con troppa forza, un quadro di Klein, è possibile che rimanga sulle mani qualche traccia di blu. Per avere conferma, è sufficiente domandare a qualunque restauratore abbia avuto a che fare con le sue opere. Non si tratta però di un problema che hanno solo i lavori di Klein: è un cruccio per tutti i pittori che lavorano coi pigmenti puri. Bolla rivendica invece l’invenzione d’una miscela che evita abrasioni indesiderate: i suoi colori hanno una straordinaria durevolezza. Anche nella tecnica, mi spiega, ha sempre cercato d’essere originale. “Mi sono sempre posto in maniera onesta nei confronti dell’arte”, mi dice: e questo per lui ha significato “trovare una strada personale, autonoma, indipendente” anche sotto il profilo tecnico. I Pigment Paintings sono nati così.

Il glitter che rende seducenti, radiose e quasi glamour le opere della serie rafforza il portato allegorico di questi lavori: lo scintillio del cosmetico allude per sua stessa natura alla superficialità e al lusso, e i Pigments Paintings, sotto questo continuo dripping di polvere colorata, diventano quasi moniti che ci rammentano il carattere transitorio della nostra vita. Ed è peraltro l’esatto corrispettivo pittorico del cristallo Swarovski non solo per l’immaginario cui è associato, ma anche perché, come gli Swarovski, anche il glitter è un’invenzione, un materiale artificiale (i cristalli Swarovski furono ideati da Daniel Swarovski nel 1862, il glitter da da Henry Rushmann tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso). A volte il memento mori è pure scoperto, dacché capita di trovare spesso scheletri tra i soggetti della serie. Ne risultano proiezioni del mondo interiore dell’artista, che avverte l’esigenza di trasformare, in forma di oggetti, le sue riflessioni sul mondo esteriore, sulla realtà che ci circonda. Nei Pigment Paintings si potranno trovare anche riferimenti agli artisti che vanno a comporre il contesto entro cui si muove l’arte di Nicola Bolla: la sostanziale ironia che mai abbandona il suo lavoro trova naturale consonanza nel lavoro del torinese Aldo Mondino (la cui produzione abbonda peraltro di dipinti con figure che si stagliano su fondi piatti come quelli di Bolla), talvolta compaiono citazioni anche piuttosto esplicite ai poveristi (tra i Pigment Paintings ricorre la stella a cinque punte, tratto distintivo della ricerca di un altro grande piemontese, Gilberto Zorio), mentre il procedimento è accostabile a quello degli artisti pop americani. Nel modo di lavorare di Bolla, ha scritto il filosofo Roberto Mastroianni, “vi è un gesto erede della migliore tradizione Pop italiana e statunitense, che nell’appropriazione artistica di elementi comuni, quotidiani e banali, li trasfigura e proietta in una dimensione più alta, straniante e a tratti metafisica”.

Nei suoi dipinti, Nicola Bolla prosegue quell’operazione di trasfigurazione del banale che sostiene la sua produzione scultorea, e che implica la costruzione di un mondo proprio, di un mondo che appartenga soltanto a lui. Un’idea mutuata da tanta arte del Settecento, secolo in cui molti pittori tendevano a costruire realtà parallele utilizzando però gli stessi elementi della realtà vera: si pensi all’arte di Giambattista Tiepolo, abituato a creare mondi fittizî sulle pareti che affrescava per i suoi committenti, mondi in cui l’ironia diventava però il mezzo privilegiato per alludere invece a ciò che rimaneva inevitabilmente fuori dal dipinto. Nei Pigment Paintings riscontriamo così la stessa vena dissacratoria e ironica che caratterizza le sculture di Nicola Bolla. Lo stesso sguardo curioso e sornione che anima le opere fatte coi cristalli Swarovski o con le carte da gioco. I suoi dipinti, tuttavia, s’ammantano anche d’una dimensione lirica difficile da rintracciare nelle sculture, che sono presenze solide e luminose, oggetti nello spazio. Le immagini dipinte assumono le sembianze di visioni oniriche, ci ricordano la forma indefinita ed evanescente di quello che vediamo in sogno, sono sfuggenti e fluide come i ricordi, hanno il carattere folgorante e subitaneo delle sensazioni luminose che si stampano per qualche secondo sulla retina. Le vanitas di Bolla, quando su tela e su carta, diventano poesie dipinte.

Nicola Bolla, Untitled (Birds) (2000; olio e pigmenti su tela, 88,9 x 78,7 cm)
Nicola Bolla, Untitled (Birds) (2000; olio e pigmenti su tela, 88,9 x 78,7 cm)
Nicola Bolla, Vanitas (2009; pigmenti e glitter su carta, 200 x 150 cm)
Nicola Bolla, Vanitas (2009; pigmenti e glitter su carta, 200 x 150 cm)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Nicola Bolla, Untitled (pigmenti e glitter su carta)
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Pigment Paintings nello studio di Nicola Bolla
Dettagli di Pigment Paintings di Nicola Bolla
Dettagli di Pigment Paintings di Nicola Bolla
Dettagli di Pigment Paintings di Nicola Bolla
Dettagli di Pigment Paintings di Nicola Bolla

Questo carattere evocativo si ritrova anche negli LP dipinti, copertine di dischi 33 giri, tutte dello stesso formato (il 30 per 30 che era peraltro caro a Andy Warhol, che al pari dell’artista piemontese lavorò spesso sulle copertine dei vinili), su cui da tempo Nicola Bolla interviene per trasformare l’immagine di partenza in una visione nuova che spesso cancella del tutto il soggetto sulla copertina dell’album. In una stanza del suo studio sono ammassate decine, forse centinaia di dischi su cui l’artista ha lavorato riscrivendo le loro copertine. Via i titoli, via i nomi degli autori (tutto ciò che è parola scritta viene sistematicamente cancellato: deve rimanere soltanto l’immagine pura), spesso via anche quello che c’era sulla copertina. L’idea è quella di reinventare non soltanto l’opera di partenza creando una nuova, ulteriore stratificazione, ma anche di decontestualizzare completamente l’oggetto: chi vuole ne ricaverà forse una diversa suggestione musicale (impossibile, del resto, capire chi fosse l’autore dalla nuova immagine), chi vuole invece immaginerà tranquillamente una dimensione di silenzio, vuoto, fragilità. Anche con questo procedimento, con un détournement tipicamente situazionista in questo caso, si torna pertanto alla riflessione sulla vanitas che agisce col tramite dell’ossimoro innescato dall’intervento dell’artista.

E nonostante l’operazione di riscrivere la copertina di un album possa apparire semplice, quasi scontata, il riferimento è altissimo: vengono alla mente le Modifications di Asger Jorn, gli interventi con cui il grande artista danese modificava, letteralmente, vecchi dipinti decorativi di fine Ottocento o d’inizio Novecento acquistati per pochi soldi ai mercatini delle pulci, per creare una realtà nuova, parallela, dissacrante, per aprire a nuove possibilità estetiche fondate sulla spontaneità, esattamente come spontanei e immediati sono i lavori su copertine di vinili di Nicola Bolla. Le Modifications di Asger Jorn, ha scritto su queste pagine Daniele Panucci, erano “un’addizione virtuosa, la cui potenza è amplificata dal doppio registro e livello di pittura che talvolta è armonico ed altre dissonante, e non certo un’operazione dissacrante verso l’immagine in sé o il suo (spesso) anonimo o sconosciuto creatore: la critica è diretta solamente alla società, alle istituzioni, alla borghesia e allo sguardo che esse rivolgono all’arte e al relativo mercato”. Qualcosa di simile accade anche coi dischi di Nicola Bolla. I vinili non vengono rimossi: fanno parte dell’opera. Ci sono opere di artisti famosi, e ci sono lavori di musicisti sconosciuti ai più, oppure vissuti soltanto una stagione: l’azione di Nicola Bolla, in questo senso, non nega l’oggetto dell’intervento, esattamente come le cancellature di Emilio Isgrò non negano le parole su cui piovono. Anzi: l’immagine di Nicola Bolla è come un germoglio, è vita che scaturisce da un’altra opera, il cui valore forse viene addirittura rimarcato, nonostante l’artista rimanga poco interessato al contenuto musicale. E poi, è un modo per vedere l’opera da un altro punto di vista: Bolla ama paragonare il suo modo di vedere la realtà a quello dei musicisti che facevano incidere sul lato A il pezzo più commerciale, la hit che ascoltavano tutti, e lasciavano invece sul lato B la canzone più difficile ma più sentita, più interessante. Trasformare le immagini significa, per Nicola Bolla, seguire il lato B delle cose, quello meno appariscente ma che a suo avviso è più pregno di significato sotto il profilo del pensiero creativo.

Secondo Nicola Bolla, un buon artista è quello che riesce a fornire a chi gli sta attorno la propria visione del mondo, rimarcando che esistono tanti punti di vista diversi anche quando si osserva la stessa immagine. I suoi lavori in pittura vanno letti partendo da questo presupposto, che ha sempre accompagnato l’artista fin da quando ha cominciato a dipingere. Oggi Nicola Bolla è famoso soprattutto per la scultura, ma lui stesso ricorda di aver cominciato a dipingere molto prima (i suoi primi quadri risalgono al 1984), e di essere diventato scultore quasi per caso, perché un designer torinese lo invitò a una mostra di scultura sfidandolo a fare scultura. Ma la sua vocazione originaria rimaneva, e forse rimane ancora, quella del pittore: gli esordî sono all’insegna dei piccoli lavori su cartone, che s’ispirano inizialmente ai fumetti (in particolare quelli della Marvel, nei riguardi dei quali Bolla coltiva da sempre una forte passione), e poi allargano lo sguardo a tutta la realtà che circondava l’artista. Questi piccoli cartoni caratterizzano tutto il percorso di Bolla, sono opere intime, con le quali l’artista si misura con l’invenzione e non soltanto col soggetto. Una sorta di esercizio, non standardizzato, che però col passare degli anni ha dato vita a un lungo racconto: i piccoli formati di Bolla sono tutti frammenti del mosaico della sua vita.

Nicola Bolla, Ci vuol coraggio - Riccardo Cocciante (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Ci vuol coraggio - Riccardo Cocciante (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Runway lights - Survivor (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Runway lights - Survivor (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Skweeze me please me - Non stop dancing (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Skweeze me please me - Non stop dancing (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Right kind of love - Quarterflash (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Right kind of love - Quarterflash (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Like a hurricane - Roxy Music (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
Nicola Bolla, Like a hurricane - Roxy Music (2016; pigmenti e glitter su copertina di LP, 30 x 30 cm)
LP dipinti di Nicola Bolla
LP dipinti di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla
Opere su cartone di Nicola Bolla

Un mosaico che però non è mai uscito dal suo studio per intero. Il pubblico, come detto, conosce soprattutto il lavoro scultoreo di Nicola Bolla. Quello pittorico è invece rimasto sempre ai margini, ma il sogno dell’artista è quello di organizzare, prima o poi, una grande mostra che metta assieme tutta la sua produzione pittorica, una mostra lungo la quale sia possibile distendere il filo di quarant’anni di pittura, una mostra dalla quale si percepisca quale sia stato il “processo di evoluzione”, come lo chiama Bolla stesso, che ha sostenuto la sua arte. Un filo che al momento si può vedere soltanto all’interno dello studio appena fuori Torino. Nicola Bolla però ha sempre creduto molto nella sua pittura, perché è parte essenziale del suo percorso artistico. Anzi: è la parte più intima e forse anche più sentita del suo lavoro. Certo, l’artista non nutre alcun timore nei riguardi della sua scultura, anche perché il suo approccio nei confronti di quest’arte ha sempre tenuto conto della pittura: la sua è una scultura “dipinta”, si potrebbe dire, con soluzioni tecniche che cercano di superare i confini tra un’arte e l’altra. S’è detto sopra, per esempio, di come i glitter in pittura siano i corrispettivi degli Swarovski in scultura, ma anche le figure ch’emergono dai fondi piatti conservano un’evidenza monumentale che ricorda quella dei lavori scultorei, mentre invece, se pensiamo alle sculture con le carte da gioco, la partenza è comunque un supporto bidimensionale, piatto come un dipinto. La scultura però conserva una malia diversa: è più accattivante, più vicina ai gusti del pubblico, forse perché più spettacolare, più teatrale. E quindi ha conseguito gli onori della fama con un’immediatezza che alla pittura non è stata concessa. Ma Nicola Bolla non ha mai rinunciato alla pittura. E prima o poi uscirà in maniera convinta dal suo studio.

Mentre visito il suo studio, Nicola Bolla mi dice che a suo avviso l’intimità a volte crea problemi interpretativi: non è detto che l’interiorità dell’artista corrisponda a quella del collezionista, non è detto che il pubblico si ritrovi in quello che l’artista pensa ed esprime attraverso i suoi dipinti. La conseguenza di questo disallineamento, potremmo dire, sta nel comportamento del pubblico: non è un mistero il fatto che spesso chi acquista opere d’arte cerca dipinti che facciano arredamento. Tante persone comprano opere d’arte come se acquistassero una tenda, come se le opere facessero parte della tappezzeria. Non c’è niente di male, naturalmente, nel mirare a una pittura più decorativa. La funzione di un’opera d’arte secondo Nicola Bolla però è un’altra. L’opera è il mezzo con cui l’artista esprime la sua visione del mondo. E secondo Nicola Bolla c’è ancora tanto da dire, soprattutto in pittura. “Nonostante molti pittori dicano che tutto è già stato inventato e tutto è già stato fatto”, confessa, “io penso che ci sia ancora molto spazio per le manifestazioni artistiche. Anche la pittura può avere ancora degli spazi innovativi. Il problema principale è un altro: che bisogna aver qualcosa da dire. Non si tratta tanto d’inventarsi delle nuove tecnologie, ma di saper dire qualcosa: questo dovrebbe essere il punto di ricerca di qualsiasi artista”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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