Un raro soggetto iconografico dell’età della Controriforma lega due splendide città del nord Italia, Mantova e Riva del Garda: quello della nave della Chiesa trionfante. Nella città lombarda, la chiesa di San Francesco conserva un affresco pesantemente danneggiato dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale nel 1944, ma ancora leggibile: si tratta di un Triumphus Ecclesiae che risale agli anni Settanta del Cinquecento, e che si deve a due artisti, Giulio Rubone (1530 - Mantova, 1590), pittore a lungo attivo nelle terre di Mantova nel secondo Cinquecento, e il poco noto Alessandro da Casalmaggiore (? - 1577), altro artista attivo nelle corti gonzaghesche, che collaborò spesso con Rubone. La firma dei due artisti fu letta nel 1911, prima che l’affresco venisse rovinato in maniera irreparabile, dall’architetto Achille Patricolo, che diede notizia anche della data (la si poteva leggere vicino ai nomi dei due artisti, anche se l’ultima cifra dell’anno già all’epoca non si riusciva a discernere). Troviamo lo stesso soggetto nell’Allegoria della Chiesa trionfante conservata al MAG - Museo dell’Alto Garda di Riva del Garda, ma proveniente dalla parrocchiale della città trentina: per ragioni stilistiche è stata attribuita al pittore Elia Naurizio (Trento, 1589 - 1657), ed è opera decisamente più tarda rispetto alla sua omologa mantovana.
Le rappresentazioni della Chiesa come nave trionfante sono piuttosto curiose e non così comuni: se ne conosce un’altra incisa nel 1602 da Philippe Thomassin (Troyes, 1562 - Roma, 1622), conservata alla Biblioteca Casanatense di Roma e utile per interpretare tutti i singoli elementi in quanto dotata di ricche didascalie, oltre che di un cartiglio che consente di capire donde derivasse l’idea di raffigurare la Chiesa come una nave. “Ondeggia spesso la Navicella di Pietro”, si legge nel lungo cartiglio dell’incisione di Thomassin, “ma non si sommerge, è percossa ma non rotta, oppugnata da cattivi, ma non espugnata”. L’immagine cui Thomassin si riferisce è quella della navicula Simonis Petri attestata nella tradizione cristiana a partire da sant’Ambrogio, il primo a paragonare la Chiesa a una navicella da governare sotto l’occhio vigile di Dio affinché superi le tempeste e giunga presso un portus salutis.
Si tratta di un motivo che, nel corso della storia, trovò anche alcune traduzioni per immagini. La navicula Petri che viene tratta in salvo da Cristo, il quale viene solitamente raffigurato mentre porta a riva Simon Pietro inginocchiato dinnanzi a lui, abbonda nell’arte medievale, soprattutto nelle miniature, ma esistono anche esempi eseguiti con altre tecniche espressive: si pensi al celebre mosaico della navicella in San Pietro, eseguito su disegno di Giotto (oggi ne rimangono alcuni frammenti), oppure sulla navicula Petri che compare nella predella del Polittico Strozzi di Andrea Orcagna, opera del 1357 conservata a Firenze in Santa Maria Novella, o ancora all’affresco del 1366-1368 che Andrea di Bonaiuto dipinse in una delle quattro vele della sala capitolare del convento di Santa Maria Novella.
L’immagine proposta da Rubone, Thomassin e Naurizio è tuttavia completamente diversa rispetto a quella della più tradizionale navicula Petri: l’iconografia di cui troviamo la prima attestazione in San Francesco a Mantova è una complessa allegoria del trionfo della Chiesa sui propri nemici, ideata in un momento in cui un contenuto simile rivestiva anche un importante significato politico, quando Roma era impegnata, da una parte, nella lotta contro le eresie (e in queste tre opere se ne trovano in buon numero: le versioni di Naurizio e Thomassin, dove ancora si possono leggere i cartigli, aiutano a identificarle), e dall’altra nello scontro con gli infedeli: occorrerà dunque ricordare a tal proposito che la battaglia di Lepanto, combattuta proprio il 7 ottobre 1571 tra le forze della Lega Santa (Spagna, Venezia, Stato Pontificio, Genova, Savoia, Urbino, Granducato di Toscana e Cavalieri di Malta) e l’Impero Ottomano, e risultata in una schiacciante vittoria dei cristiani, rivestì un profondo significato religioso, nonostante lo stesso papa Pio V fosse consapevole che, sotto il profilo politico e militare, la guerra di Cipro, l’evento del quale la battaglia era parte, sarebbe stata lunga e difficile (e non sbagliava, dal momento che i turchi presto ricostituirono la flotta, dopo quella prima, pesante sconfitta subita per mano cristiana, e nel 1573 vinsero la guerra, sfruttando abilmente anche le divisioni del fronte cristiano). Tuttavia nell’immediato la vittoria di Lepanto, ha scritto lo storico delle religioni Agostino Borromeo, “venne vissuta dall’opinione pubblica, oltre che come brillante fatto d’arme, anche come evento religioso. Il successo della flotta cristiana fu attribuito alle preghiere del papa, considerato dai contemporanei già un santo, e alla intercessione della Beata Vergine da lui invocata. Né mancò chi, in una visione profetica ed escatologica della battaglia, intravide un miracoloso intervento divino destinato a generare la conversione dei turchi e, nel contempo, a servire da impulso per stimolare la riforma della cristianità corrotta”.
L’idea di rinverdire l’iconografia della navicula Petri legandola a eventi di stretta attualità (la guerra contro l’impero ottomano, la lotta contro le eresie, la reazione alla riforma protestante: il Concilio di Trento si era chiuso nel 1563), pur senza riferimenti diretti, trovò dunque terreno fertile in questo contesto storico, e c’è forse da credere che l’eco della battaglia di Lepanto abbia contribuito alla diffusione dell’immagine della nave della Chiesa. Anzi, secondo lo storico dell’arte Víctor Minguez, l’iconografia della “nave della Chiesa” sarebbe nata proprio dall’“ossessione della Chiesa di riconquistare la città di Costantinopoli per la cristianità”. E il collegamento con Lepanto è forse qualcosa più di un’ipotesi, dal momento che fu dato alle stampe nel 1634 (ma la circolazione manoscritta è attestata già prima di questa data) un poema dello storico e poeta spagnolo Bartolomé Leonardo de Argensola intitolato Canción a la nave de la Iglesia con motivo de la victoria de Lepanto. Non è però tutto: l’origine iconografica del tema del Triumphus Ecclesiae non può non essere collegata ad alcune stampe di area protestante che cominciarono a comparire verso la metà del Cinquecento. Ne è un esempio la xilografia satirica con il Naufragio della Chiesa cattolica, opera del 1545 del tedesco Matthias Gerung (Nördlingen, 1500 circa - Lauingen 1570), e soprattutto la Nave degli apostoli di Matthias Zündt (Norimberga, 1498 - 1586), che costituisce l’antecedente più immediato per le immagini di Rubone, Naurizio e Thomassin, e che rivisita l’iconografia della navicula Petri in chiave riformata. Troviamo, per esempio, Cristo da solo al centro della nave (a significare la dottrina del Solus Christus secondo cui soltanto Gesù Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli esseri umani), i tre sacerdoti che, a fianco dell’albero maestro, somministrano il battesimo, la comunione e l’assoluzione (ovvero gli unici tre sacramenti ammessi dalla Riforma), e poi la presenza, tra i rematori, di Martin Lutero e Filippo Melantone, messi accanto a dottori della Chiesa come san Basilio e sant’Agostino. Queste immagini deriverebbero da un precedente comune, che non ci è noto, e del quale però possiamo trovare l’eco in un disegno d’ignoto artista tedesco, databile alla seconda metà del Cinquecento e conservato presso la Graphische Sammlung di Monaco di Baviera, che rappresenta il Typus Religionis, allegoria della religione che attraversa un mare colmo di insidie per giungere a porto sicuro.
Occorre poi considerare che le opere di Rubone, Naurizio e Thomassin nascono a diversi decenni di distanza l’una dall’altra (e della versione di Naurizio neppure conosciamo con certezza il momento dell’esecuzione). L’affresco di Giulio Rubone, per esempio, prese forma in un clima pesante, e a farne le spese fu lo stesso artista: tra il 1567 e il 1568 l’Inquisizione di Mantova eseguì una serie di arresti tra artisti e letterati che frequentavano gli stessi ambiti intellettuali, e finirono in carcere, tra gli altri, l’architetto ducale Giovanni Battista Bertani, il pittore e incisore Giovanni Battista Scultori, nonché lo stesso Giulio Rubone e i suoi colleghi Alessandro da Casalmaggiore, Felice Fasani, Croteo Conti, gli architetti Cesare e Pompeo Pedemonti. All’epoca, il summenzionato papa Pio V, al secolo Michele Ghislieri, domenicano e inquisitore, aveva avviato una vasta azione di repressione delle eresie in tutta Italia (fu sotto il suo pontificato che si consumò la tragedia di Pietro Carnesecchi, umanista fiorentino, accusato di eresia, in particolare di essere vicino alle idee del riformatore Juan de Valdés, e condannato a morte dell’Inquisizione). L’elezione alla cattedra vescovile mantovana, nel 1567, del domenicano romano Gregorio Boldrini, che interrompeva una lunga successione di vescovi della famiglia Gonzaga, aveva reso più agile il lavoro degli inquisitori, che proprio quell’anno fecero arrestare decine di cittadini mantovani sospettati di eresia, tra i quali gli artisti sopra menzionati (il caso di Bertani, che era succeduto a Giulio Romano nella carica di prefetto delle fabbriche ducali, fu quello più clamoroso). Alcuni se la cavarono con la pubblica abiura, altri invece, fermi nelle loro posizioni (tra questi il medico del monastero di Polirone, Pietro Giudici), furono condannati alla pena capitale, il tutto in un clima fortemente ostile (furono uccisi due domenicani, e fu diffuso anche un invito anonimo a prendere le armi contro il vescovo). È stato anche ipotizzato che l’affresco di Giulio Rubone sia nato come auto da fè di qualche facoltoso mantovano, ma non ci sono conferme al riguardo. Diverso invece il momento storico in cui presero forma le immagini di Thomassin e di Naurizio: all’epoca, il problema principale, più che combattere le eresie, era quello di diffondere in tutto il mondo la fede cattolica (è del 1599 l’istituzione della congregazione “super negotiis Fidei et Religionis Catholicae”, mentre risale al 1622 la fondazione della congregazione “de propaganda fide”).
La lettura dell’immagine del Triumphus Ecclesiae può cominciare dalla figura di san Pietro, che in tutte le tre opere (Rubone, Naurizio e Thomassin, sebbene in Rubone sia poco leggibile a causa dei danni delle bombe) si trova al timone, regge le chiavi della Chiesa ed è accompagnato da uno stendardo dove si legge la frase pronunciata da Gesù nel Vangelo di Matteo: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam” (“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”). Subito davanti a lui, sul castello di poppa, vediamo le figure degli apostoli, che nell’incisione di Thomassin sono identificati singolarmente, e vicino a loro, a tenere le sartie, ecco i sei “fundatores religionum”, ovvero i fondatori degli ordini religiosi, vale a dire san Domenico (domenicani), san Bruno di Colonia (certosini), sant’Alberto (carmelitani), sant’Agostino (agostiniani), san Benedetto (benedettini) e san Francesco (francescani). Sul ponte e sul castello di prora troviamo una teoria di santi che scagliano dardi e lance contro gli eretici, mentre ai remi figurano cinque dottori della Chiesa (san Tommaso d’Aquino, san Girolamo, sant’Ambrogio, san Gregorio Magno, di nuovo sant’Agostino). I loro remi rappresentano simbolicamente i libri della dottrina cattolica: i cinque libri di Mosè, le lettere di san Paolo, i libri di Salomone, i Vangeli e i dodici libri dei profeti. Infine, sulla coffa vediamo Gesù seduto in trono, mentre regge un vessillo con la scritta “Rex Regum et Dominus Dominantium”, e sulla vela ecco la Vergine Maria, “dei genitrice fidissima duce”. Attorno a loro, un gruppo di sei angeli con i simboli della Passione di Cristo (la croce, la colonna della flagellazione, la corona di spine, i chiodi, la lancia, la spugna, la scala). L’albero maestro, come notiamo dalla scritta apposta su di esso, rappresenta la fede in Cristo, mentre le due ancora sono la “buona volontà” e il “desiderio del Paradiso”.
Notiamo che la nave della Chiesa sta trascinando dietro di sé tre barche, con diversi gruppi di prigionieri: gli ebrei (“Ecce volente Deo duri sternuntur hebraei”, ovvero “Ecco che col volere di Dio vengono sconfitti i duri ebrei”), i re biblici condotti dal profeta Geremia (“ducuntur reges manibus post terga revinctis”, “i re sono condotti con le mani legate dietro la schiena”) e gli imperatori. Sotto le barche dei re sconfitti, assistiamo a una battaglia della quale ci viene spiegato il senso (“pro fide certant”, ovvero “combattono per la fede”): lo scontro in questione è quello tra l’imperatore persiano Cosroe II e il bizantino Eraclio, difensore della fede e vincitore (l’episodio è stato anche affrescato da Piero della Francesca nel ciclo della Leggenda della Vera Croce della basilica di San Francesco ad Arezzo). Nell’immagine di Rubone, Naurizio e Thomassin possiamo assistere all’esito finale dello scontro, con Eraclio che pugnala a morte Cosroe, sotto lo sguardo dei soldati che portano con sé i vessilli crociati.
Tornando in mare, vediamo altre due imbarcazioni, condotte da altrettanti diavoli, ma i cui occupanti vengono colpiti dalle frecce scagliate dalla nave della Chiesa, e alcuni di loro già annaspano in mare. Sono le navi degli scismatici e degli eretici: nella prima troviamo Donato da Cartagine, Fozio di Costantinopoli e Sabellio, che furono rispettivamente alla guida del donatismo (scisma nella Chiesa africana del IV secolo), dello Scisma d’Oriente che preparò le basi per il Grande Scisma del 1054 e la conseguente nascita della Chiesa ortodossa, e del sabellianismo. Tra gli eretici vediamo in mare Pelagio e Ario, fondatori delle dottrine eretiche del pelagianesimo (che negava la trasmissione del peccato originale a tutta l’umanità) e dell’arianesimo (che negava la natura divina di Cristo), e anche Martin Lutero, in abiti da frate, accompagnato dalla scritta “niteris in cassu nave subvertere Petri” (“ti vanterai invano di aver distrutto la nave di Pietro”). Sotto, a terra, vediamo un gruppo di infedeli schiacciati, osserviamo rovine di un tempio antico indicato come “Templum Pantheon” (allusione alla sconfitta del paganesimo) e, infine, un gruppo di altri infedeli (riconoscibili per i turbanti e le scimitarre) che condannano al rogo alcuni cristiani, che ricevono da un angelo la palma del martirio, per essersi rifiutati di adorare la statua di Nabucodonosor. Lo sfondo è occupato dalle raffigurazioni di due città, Damasco e Costantinopoli, la prima con l’episodio della conversione di Saulo, e la seconda con l’ingresso di un pontefice dinnanzi al quale si prostrano i turchi. Infine, in alto, tra le nuvole, vediamo le figure degli evangelisti, che si dispongono a destra e a sinistra di Cristo. Tra le poche differenze che notiamo tra le immagini di Rubone, Naurizio e Thomassin la più vistosa è sicuramente, nell’incisione di Thomassin, la presenza di san Michele arcangelo sulla prua della nave, colto mentre leva la sua spada e porta lo scudo con l’arme del dedicatario dell’incisione, il prelato francese Séraphin Olivier-Razali, che dal 1602 al 1604 fu patriarca di Alessandria. Altra differenza, la presenza nella parte alta dell’incisione di Thomassin di due profezie, quella del beato Cirillo e quella di Gioacchino da Fiore.
Interessante notare, come ha scritto la studiosa Federica Piccirillo nel catalogo della mostra Roma 1300-1875. L’arte degli anni santi del 1984, il metodo adoperato da questi artisti (Piccirillo si riferiva all’incisione di Thomassin) per far memorizzare i concetti al riguardante: “la nomenclatura visivo-verbale”, scrive la storica dell’arte, “segue i canoni della mnemotecnica: al posto delle lettere dall’alfabeto troviamo cartigli dottrinali, visualizzati da immagini. La stessa nave è formata da parole-oggetto”. E ancora Piccirillo ha fornito una contestualizzazione per la presenza delle due città di Costantinopoli e Damasco (“i momenti topografici da cui sembra salpare la nave-Ecclesia: città eretiche, con le insegne del sultano musulmano, città da evangelizzare”), oltre che, nell’incisione di Thomassin, per le immagini delle due profezie. Lo sfondo risponde alla logica di ripercorrere le tappe del cattolicesimo: dalla conversione di Paolo alla tematica del martirio, a cui corrisponde “l’esaltazione della passione di Cristo, visualizzata dagli oggetti-memoria del martirio e propagandata dai quattro evangelisti” (si noterà infatti come gli autori dei testi sacri suonino le trombe, simbolo della diffusione della parola di Cristo nel mondo), la sconfitta delle prime eresie che “conduce nell’allegorica vittoria su Lutero e Calvino”, la presenza del re Eraclio come prefigurazione dei re “christianissimi” e “cattolicissimi”. Una visione che si carica di un “dinanismo quasi vichiano”, spiega Piccirillo, catalizzato “nella rotta metatemporale della nave [...], che percorre il suo iter inesaustivo, alludente alla politica cultuale della Chiesa, nell’ottica delle missioni”, e che forma il “sostrato culturale dell’allegorico trionfo della chiesa gerarchica, fonte dottrinale e istituzionalizzata”. La Chiesa, dunque, si identifica con il trionfo della fede e della religione.
Le immagini del Triumphus Ecclesiae, con il loro evidente carattere didattico e didascalico, sono tra le più icastiche e immediate immagini della propaganda della Chiesa all’epoca della Controriforma: l’arte, del resto, era all’epoca considerata dalle autorità romane il mezzo più efficace per diffondere la fede cattolica e arginare qualunque tentativo di rovesciare la nave di Pietro.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo