Questo testo riguarda il legame tra arte e tecnologia. E parlo della tecnologia che permette davvero la creazione artistica. La tecnologia come protagonista, compagna e, allo stesso tempo, strumento indispensabile nel processo creativo degli artisti contemporanei. Alcune opere d’arte nascono da codici e pixel, sfidando chi le osserva.
Questo è ciò che ho raccontato nella mia conferenza dello scorso settembre alla Futura Seoul, una galleria d’arte di Seul, in Corea del Sud. Negli anni Sessanta, Billy Klüver (Monaco, 1927 – New Jersey, 2004), curatore e visionario svedese, creò Experiments in Art and Technology (EAT), un progetto rivoluzionario che riuniva artisti, scienziati e tecnologi. Grazie alla collaborazione con i Bell Laboratories del New Jersey, all’avanguardia per le loro scoperte e invenzioni rivoluzionarie, gli artisti hanno potuto sperimentare tecnologie prima inaccessibili. Questo ha permesso loro di espandere la propria creatività.
Ho incontrato Klüver durante i miei studi, e sono rimasto influenzato dal suo lavoro. Il concetto era chiaro: se l’ingegnere era riuscito a creare EAT, noi oggi potremmo sviluppare qualcosa di simile. E da questa riflessione è nato il progetto NEAT. In realtà, l’idea è nata dopo aver partecipato a una conferenza ispirata da EAT, sebbene le radici del mio interesse affondassero negli scritti del sociologo Marshall McLuhan (Edmonton, 1911 – Toronto, 1980). In particolare, cito Understanding Media di McLuhan del 1964, lavoro in cui sottolineava la capacità dell’arte di anticipare i cambiamenti sociali e tecnologici. Secondo il sociologo, l’arte agisce come un sistema di allarme, preparandoci alle trasformazioni future. L’arte non si limita a occuparsi di estetica; diventa un allenamento percettivo essenziale. Sempre nel 1964, l’artista Nam June Paik (Seul, 1932 – Miami, 2006) costruì il Robot K-456, sfidando l’idea tradizionale della televisione come mezzo passivo. Paik trasformò la televisione in arte e utilizzò le trasmissioni satellitari per creare opere che connettevano le persone in tutto il mondo. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, ho incontrato Paik e le sue parole hanno influenzato il mio pensiero: Paik credeva che la tecnologia non dovesse limitarsi all’intrattenimento, ma diventare uno strumento per liberare il potenziale poetico e promuovere il dialogo tra le culture. Questa visione rimane attuale anche oggi, considerando le nuove prospettive offerte da internet, blockchain, intelligenza artificiale e realtà aumentata. Inoltre, Paik ha spesso sottolineato il potenziale della tecnologia nel connettere le persone a un livello più profondo, un obiettivo che riteneva non ancora pienamente raggiunto.
Credo che la costante evoluzione della tecnologia dimostri anche come il futuro spesso nasca da elementi ereditati dal passato. Nel 2000, ho curato la mia prima mostra a Seul, ispirandomi a Paik. A Seul, rimasi affascinato dagli enormi schermi elettronici della città, allora una rarità nelle metropoli europee. Collaborando con Paik e altri artisti come Christian Boltanski, Pipilotti Rist e Arthur Jafa, concepii una mostra che utilizzava grandi cartelloni pubblicitari eclettici per raggiungere un pubblico vasto e casuale. Il risultato? Una svolta, che andava oltre i confini delle gallerie tradizionali. Quegli anni furono cruciali anche per il mio incontro con lo scienziato Heinz von Foerster (Vienna, 1911 - Pescadero, 2002), all’epoca già novantenne. Figura di spicco della cibernetica, von Foerster fu uno degli artefici dei movimenti cibernetici di secondo ordine. La sua carriera, iniziata negli anni Quaranta, culminò negli anni Sessanta con lo sviluppo del “secondo potere dell’applicazione dell’automatica”. Un aspetto chiave della sua teoria era la visione dell’osservatore come elemento essenziale del sistema, posto al centro di ogni processo creativo e scientifico. Secondo lo scienziato, gli esseri umani non sono semplicemente entità esterne al sistema.
Ho esplorato questo tema in numerose mostre, ma nel 2006 ho deciso di concentrarmi maggiormente su di un singolo istituto. In precedenza, ho lavorato principalmente con il Musée d’Art Moderne di Parigi come curatore itinerante. Dal 2006, sono co-direttore e direttore artistico della Serpentine Gallery. Da lì, ho iniziato a riflettere su come integrare più profondamente la tecnologia in un’istituzione artistica. In seguito, ho tenuto un intervento TEDx a Marrakech sul ruolo della tecnologia nei musei. Dopo l’evento, ho avuto una conversazione con John Nash, un esperto di tecnologia che ha espresso preoccupazione nei riguardi della scarsa attenzione degli istituti culturali per la tecnologia e i musei. Questa discussione ha evidenziato una realtà chiara e preoccupante: molti musei erano privi di un CTO, o Chief Technology Officer, un ruolo ormai indispensabile in qualsiasi organizzazione. Ma perché? E qual è esattamente il ruolo di un CTO all’interno di un’organizzazione?
Il Chief Technology Officer è responsabile dell’identificazione, dell’analisi e della presentazione al consiglio di amministrazione delle tecnologie da integrare nell’azienda, con l’obiettivo di ottimizzare i processi aziendali e produttivi. Com’è possibile che ogni azienda abbia un Chief Technology Officer, mentre i principali musei ne siano privi?
All’epoca, John faceva parte di un gruppo di artisti, critici e curatori a Londra: tra loro c’era Ben Vickers, un tecnologo visionario, insieme ad altri artisti, scrittori e menti brillanti. Divenne subito chiaro che Vickers, con la sua solida formazione e il desiderio di portare la tecnologia nelle istituzioni, era la persona giusta per il ruolo di CTO. Inizialmente invitato da me a ricoprire il ruolo di curatore della tecnologia, fu in seguito nominato Chief Technology Officer, con l’incarico di creare un dipartimento dedicato.
Furono fissati due obiettivi: il primo era avere un CTO. Il secondo obiettivo era creare un dipartimento dotato di una propria autorità. Oggi il dipartimento conta sei membri, tra cui cinque curatori digitali, e una struttura che consente l’organizzazione di mostre ed eventi. La mia visione mira a un’integrazione armoniosa tra tecnologia e arte, evitando la compartimentazione. Ogni mostra incorpora elementi digitali, come dimostra la mia decennale collaborazione con l’artista Refik Anadol (Istanbul, 1985), esperto di intelligenza artificiale. Oggi, le opere di diversi artisti concettuali trasformano le gallerie in ecosistemi immersivi. Le immagini nascono dall’attività cerebrale delle persone invitate a immaginare scenari specifici e vengono continuamente rimodellate attraverso l’interazione con i visitatori. In questo contesto, a differenza delle mostre tradizionali, dove gli oggetti rimangono statici nello spazio e privi di dinamismo, le opere d’arte diventano organismi viventi in grado di rispondere e adattarsi al sistema contemporaneo. Dal 2012 abbiamo creato il dipartimento di arte e tecnologia alla Serpentine, che ora impiega cinque curatori. Questo ci consente di lavorare e mostrare l’intelligenza artificiale e sviluppare videogiochi. Alcuni esempi recenti includono Gabriel Massan, curato da Tamar Clark Brown, e The Call di Holly Herndon e Matt Dryhurst, a cura di Eva Jager.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Hans-Ulrich Obrist
Hans Ulrich Obrist (Weinfelden, 1968) è uno dei più influenti teorici, curatori e critici d'arte al mondo. Dal 2006 è direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra. Autore di The Interview Project, un ampio progetto di interviste, tuttora in corso, alle principali personalità dell'arte internazionale, è anche co-redattore della rivista Cahiers d'Art. È curatore di oltre 350 mostre: tra queste, il padiglione della Svizzera per la 14esima Biennale di Architettura di Venezia (2014), la serie Cities on the move (1996-2000), la serie The 11, 12, 13, 14, 15 Rooms (2011–2015). I suoi studi più recenti riguardano i rapporti tra arte e tecnologia. Dal 2013, sul suo account Instagram (@hansulrichobrist) porta avanti il The Handwriting Project, protesta contro la scomparsa della scrittura a mano nell'epoca digitale. Vive e lavora a Londra. Foto: Jurgen Teller