Una meravigliosa scultura rinascimentale in legno arricchisce il patrimonio statale dal 1977: è la Madonna col Bambino di Jacopo della Quercia (Siena, 1374 circa – 1438), acquistata quell’anno dalla Soprintendenza di Arezzo e oggi opera più importante del Museo di Palazzo Taglieschi, situato nel centro di Anghiari, in Valtiberina. Un’opera profondamente legata al suo territorio, dal momento che giunse sul mercato antiquario dopo essere stata a lungo custodita nella cappella della Villa di Sterpeto, anch’essa presso Anghiari, proprietà della famiglia Bartolomei Corsi, ma prima ancora probabilmente collocata nella chiesa della Compagnia di Santa Maria della Misericordia: fu proprio la confraternita fondata nel 1348 (che oggi ha anche un museo che ne ripercorre la storia) a commissionare la scultura, come si può leggere nell’iscrizione originale posta sulla base dell’opera e dipinta in maiuscole gotiche (“Questa figura a fatta fare la compagnia de la Misericordia”). A confermare l’antica collocazione sono poi i documenti: la Madonna col Bambino di Jacopo della Quercia è infatti citata in un inventario della compagnia del 1526 (come “Madonna in legno con il suo bambino in rilievo”).
Questa splendida opera del grande artista senese si trova in un eccellente stato di conservazione: ha mantenuto i suoi colori originari, che le sono stati restituiti a seguito di un restauro negli anni Ottanta condotto da Barbara Schleicher, e non ha subito perdite, così che oggi possiamo apprezzare tutta la delicatezza di questa scultura in legno, che ci presenta una Madonna dolce, amorevole, colta mentre sorregge il Bambino che è raffigurato in piedi, sulle ginocchia della Vergine. Lei è raffigurata col suo tradizionale abbigliamento: il manto blu bordato d’oro allude alla sua divinità celeste, la tunica rossa alla sua dignità regale ma anche al mistero dell’incarnazione e alla sua dimensione umana, mentre il velo bianco è simbolo della sua purezza. “La visione ravvicinata dell’opera di Anghiari”, ha scritto la studiosa Laura Speranza, “permette di cogliere appieno l’altissima qualità della scultura e della sua cromia. Il dolce e pensoso volto della Vergine è nobilitato dalla massa dorata dei capelli che lo incorniciano, mentre il velo bianco realisticamente descritto nelle decorazioni la avvicinano ad una donna in carne ed ossa. La raffinatezza che caratterizza il volto la ritroviamo anche nelle mani affusolate e aggraziate e nello splendido gallone d’oro che orna il bordo delle maniche e del manto blu notte il cui rovescio è decorato in giallo, con motivi ricavati da stoffe reali”.
Nel 1651, come sappiamo da un documento che è stato trovato nell’Archivio Storico della Compagnia della Misericordia da un abitante di Anghiari, Loris Babbini, qualcuno aveva proposto di far realizzare una “corona d’argento per tenere in testa alla Madonna”, e un’ulteriore corona per il Bambino: non sappiamo se poi venne dato seguito a questo proposito, dal momento che le due figure ci sono giunte così come le vediamo oggi, prive di corona.
Anche se possiamo farci un’idea di dove fosse in antico, non sappiamo bene a quali esigenze dovesse rispondere quest’opera, anche perché, se la si guarda bene, si noterà una particolarità: il Bambino sembra infatti una figura autonoma, e se qualcuno provasse a immaginarselo staccato dalla madre, non avrebbe lavorato male con la propria fantasia. In parte perché la Vergine e il Bambino sono stati a lungo esposti separatamente, e sono stati riuniti soltanto nei primi anni Duemila. E in parte perché, forse, il fatto che le due figure si potessero staccare può esser stato un elemento che ha connaturato l’opera in passato. La Madonna di Jacopo della Quercia può essere infatti intesa come una Madonna del Parto, simile a quella che più tardi Piero della Francesca avrebbe dipinto a Monterchi, o per meglio dire una Madonna dell’Aspettazione: lo studioso Alessandro Parronchi ha infatti ipotizzato che forse in antico la figura del Bambino veniva rimossa il 18 dicembre, in occasione della festa della expectatio Partus Beatae Mariae Virginis, la festa dell’attesa del parto della Vergine. Questa ipotesi potrebbe essere corroborata dalle forme della Vergine oltre che dalla sua posa: si nota infatti un rigonfiamento in prossimità del ventre, e anche la mano sembra lo stia accarezzando, come avviene nel dipinto di Piero della Francesca. Non è dunque da escludersi che il Bambino, per quanto eseguito anch’esso da Jacopo della Quercia, fosse destinato addirittura a un altro utilizzo, come ha suggerito la succitata Laura Speranza, spingendosi anche a ipotizzare, pur con tutta la prudenza del caso, che forse Jacopo potrebbe aver addirittura ispirato Piero della Francesca.
Secondo la storica dell’arte Anna Maria Maetzke il Bambino poteva essere sistemato su di un cuscino rivolto verso Maria, a suggerire un rimando simbolico all’incarnazione, come accade nell’Annunciazione di Giovanni Santi (questo l’esempio portato da Maetzke), dove vediamo il Bambino che, in punta di piedi sopra una nuvoletta, procede verso la madre. Il documento del 1526 che parla di una Madonna con il “suo” Bambino non deporrebbe però a favore di una Vergine immaginata senza il figlio, ammesso che il documentario citi proprio l’opera oggi a Palazzo Taglieschi (anche se niente vieta d’immaginare che il Bambino sia stato realizzato in un secondo momento).
Ad attribuire per primo la Madonna a Jacopo della Quercia fu, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti, cui si deve anche la pubblicazione della scultura (Ragghianti, tuttavia, riteneva il Bambino un’opera secentesca: è stata Maetzke a ricondurre anche la figura di Gesù a Jacopo della Quercia). L’attribuzione, che non è mai stata messa in discussione, verteva sul confronto con le opere note del grande scultore senese, e in particolare con alcune figure della Fonte Gaia di Siena (la Giustizia, la Prudenza e la Sapienza) e con i profili della statua di Acca Larenzia e di quella di Rea Silvia, anch’esse eseguite per la decorazione della Fonte Gaia. Lo studioso, che ipotizzava una datazione tra il 1419 e il 1421, trovava poi delle somiglianze tra le mani della Madonna di Anghiari e quelle delle figure dell’Annunciazione di San Gimignano. Le somiglianze col gruppo di San Gimignano sono poi emerse in tutto il loro fulgore a seguito del restauro degli anni Ottanta, che ha permesso di constatare come le cromie originarie fossero pressoché identiche a quelle dell’Annunciazione, che sappiamo esser stata dipinta dal pittore senese Martino di Bartolomeo, che si può dunque ragionevolmente immaginare al lavoro anche sulla statua di Anghiari (oltre alle somiglianze cromatiche ci sono poi anche quelle della grafia delle iscrizioni).
Alessandra Giannotti, rilevando le piccole incongruenze tra le due figure (per esempio la mano della Vergine che non si appoggia al dorso del figlio, i piedini di quest’ultimo “troppo fluttuanti” e che non trovano “un saldo riferimento nel manto materno”) ha rilanciato l’ipotesi di una genesi separata delle due figure: “potremmo […] immaginare, anche a fronte di una consuetudine quercesca qui disattesa, secondo la quale madre e figlio sono di regola ricavati da un’unica massa plastica, legno, terracotta o marmo che sia, e sempre straordinariamente serrati in un abbraccio avvolgente e naturalistico, che lo scultore senese si sia qui trovato ad assecondare precise richieste cultuali impostegli dalla compagnia della Misericordia. Per rispondere a quest’ultime i due protagonisti fisicamente riunibili in un abbraccio potevano all’occorrenza, Natale o festività particolari, essere anche disgiunti senza il rischio di pregiudicare la loro fruibilità”. È ciò che accadeva, esemplifica la studiosa, con la Madonna col Bambino conservata nella vicina Lucignano e scolpita da Mariano d’Agnolo Romanelli: una scultura dove la figura del Gesù Bambino benedicente poteva essere rimossa senza difficoltà (tanto che venne addirittura rubata).
Forse anche la Compagnia della Misericordia voleva una scultura che fosse la più versatile possibile, che si potesse scomporre e ricomporre all’occorrenza, magari, suggerisce Giannotti, anche con l’utilizzo di un cuscino di tessuto sul quale far poggiare il piccolo Gesù. Di fronte alle poche sicurezze sull’uso che in antico veniva fatto di quest’opera, abbiamo tuttavia la certezza di vedere in questa scultura una delle più intense opere che punteggiano il territorio della Valtiberina, uno dei vertici della statuaria lignea del Rinascimento toscano, oltre che un eccelso prodotto della mano di Jacopo della Quercia, tanto che se ne conoscono almeno un paio di repliche, di minor qualità, una conservata in una collezione privata di Milano e l’altra passata nel 1965 sul mercato antiquario di Roma. Un’opera d’una bellezza paragonabile soltanto alle migliori sculture dell’artista senese.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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