La Madonna di Albinea, realizzata dal Correggio nel 1519, si pone come singolare perno compositivo ed esecutivo in uno snodo temporale del pieno rinascimento italiano; quel fenomeno artistico che aveva già raggiunto la “maniera grande” e che vedeva in quel tempo oscillare gli impeti creativi proposti dai Maestri celebri. Leonardo moriva in questa stessa data, Raffaello conosceva l’ultimo anno della sua attività, e Michelangelo si ritirava in sé stesso dopo la crisi della tomba di Giulio II.
La schiera dei pittori italiani si stava disorientando rispetto ai modelli classici e i sintomi del manierismo erano ormai evidenti. Il tema frequentatissimo della Pala d’Altare conosceva oscillazioni notevoli. Nel crocevia di schemi antichi e di nuove prove formali si inserisce il Correggio con linguaggio autonomo e con la sua alta preparazione etico-formale. Il precedente più importante era la "Madonna Sistina“ di Raffaello, che l’Allegri ben conosceva avendola accompagnata da Roma a Piacenza insieme al dottissimo Abate Gregorio Cortese. Da questa egli prende lo schema conciso delle ”tre figure più il Bambino" ma rifiuta la loro sospensione nubilosa e in particolare la gran distanza celestiale della Madonna, sottratta persino allo scorcio prospettico.
Il Correggio, sempre umanissimo nelle sue scelte, per la pieve di Albinea dispone pittoricamente la Madonna in umiltà sul preciso luogo del Santuario, sopra un prato che digrada veloce verso di noi, tra le colline e il piano, e in questo modo rende partecipe ogni fedele dell’immediatezza della venerazione e dell’impetrazione di grazie: ecco il colloquio spirituale, necessario ad ogni anima! La leggera rotazione centripeta delle due sante accompagna con dolcezza il nostro avvicinamento a Maria e Gesù. Maria Maddalena porge l’unguento della Resurrezione e santa Lucia testimonia l’amore sino al martirio: anche la completa femminilità che circonda il Bimbo Divino fa di questa pala un invito toccante e quanto mai fiducioso.
Il Correggio supera così il problema ormai bloccato della compresenza statica dei santi, e dà l’avvio a quelle nuove e autentiche “sacre conversazioni” che sempre più richiederanno, con gioia ed entusiasmo spirituale, la compartecipazione dei fedeli. Ecco il suo contributo vivissimo al rinnovamento dell’arte sacra; un contributo che non è sfuggito al più acuto commentatore della parabola creativa del Correggio, Cecil Gould, il quale ha sottolineato a suo tempo la straordinaria fusione umanistica e tattile delle figure con il paesaggio.
Le vicende che interessarono il dipinto nei tempi passati sono state anche recentemente oggetto di lunghi studi divenuti il contenuto di numerose pubblicazioni alle quali rimandiamo il lettore interessatoi. Qui ci limitiamo sommariamente a ricordare che nel 1638 il duca di Modena, Francesco I, per abbuonare un vecchio debito della Comunità di Albinea verso la Camera Ducale, pretese che gli venisse consegnato il prezioso quadro. Nonostante la ferma opposizione del parroco don Claudio Ghidini, il dipinto viene portato dagli uomini di Albinea a Modena e al suo posto il duca fece collocare in chiesa una copia eseguita da un pittore francese, così come aveva fatto pochi mesi prima con il Riposo nella fuga in Egitto della chiesa di San Francesco di Correggio1.
Dieci anni più tardi, nel 1659, al nuovo duca di Modena, Alfonso IV, giovanissimo, malato di gotta e di tubercolosi, incombeva da un lato riverire il nuovo imperatore, Leopoldo I – anche lui giovanissimo – dall’altro ottenere l’investitura del principato di Correggio. Ordinò quindi una ambasciata a Vienna guidata dal marchese Giovan Battista Montecuccoli. Fra i vari omaggi per l’arciduca Leopoldo Guglielmo, zio dell’imperatore e grande appassionato dei dipinti del Correggio, quasi certamente venne inclusa la Madonna di Albinea. Il quadro, però, giunse nella capitale rovinato. Infatti, durante il lungo viaggio la pellicola pittorica venne erosa dallo sfregamento dei traversi della cassa in cui era contenuto. Pare che ciò sia dipeso dal movimento oscillatorio della cassa medesima trasportata sulle stanghe delle carrette trainate dai muli. L’Arciduca accettò comunque l’opera così com’era, ma non la inserì mai nella sua prestigiosa galleria. In seguito non si sa bene che fine abbia fatto il nostro dipinto. “Accantonato” in qualche stanza del palazzo imperiale, forse andò irrimediabilmente perduto in seguito a un furioso incendio che nel 1668 distrusse un’intera ala del sontuoso palazzo.
Nella nostra pieve sulle colline reggiane rimase la copia che ancor oggi vediamo e che la tradizione vuole che sia del Boulanger, anche se sono aperte tuttora altre ipotesi, dal momento che il duca si era avvalso per le copie collocate nelle varie chiese da lui depredate di altri pittori2. Resta pure l’eventualità che questa copia, ritenuta da taluni cinquecentesca, possa essere stata eseguita nel 1557, quando l’originale venne messo in salvo nell’oratorio di San Rocco a Reggio per sottrarlo ai pericoli della guerra in corso fra i Farnese e gli Estensi, la qual cosa comportò la completa distruzione della pieve di Albinea. Si sa, infatti, che in quel lasso di tempo ne vennero eseguite diverse copie3. Nella sagrestia della Pieve esiste peraltro un esemplare di dimensioni più ridotte rispetto all’originale. Ed è di questo che vogliamo parlare.
Sino ad oggi non sono stati rintracciate prove documentali inerenti la realizzazione di questo dipinto. Negli inventari non ne troviamo menzione sino al 1613, ma sappiamo bene che gli scarni e radi inventari di quel periodo, sia redatti dai parroci sia quelli scritti durante le visite vescovili, sono imprecisi e spesso lacunosi. Occorre anche ricordare che la chiesa venne totalmente distrutta durante la guerra fra i Farnese e gli Estensi del 1557 e che la sua ricostruzione, così come la ripresa di una normale funzionalità, durò molti anni. È solo dopo il Concilio di Trento, nella visita del vescovo Rangone del 23 settembre 1613 che risulta, per la prima volta in modo sufficientemente chiaro, la presenza nella Pieve di Albinea, oltre che dell’originale, di una “copia” dello stesso dipinto del Correggio. Nell’inventario, infatti, vengono contemporaneamente ricordate e descritte all’Altar Maggiore “Icona in qua picta est imago B. Maria e S. Magdalenae et S. Luciae opera Corrigii”, ed all’altare della Madonna una “Copia illius Corrigii”. Confrontando la visita predetta con quelle successive, si intuisce che l’altare della Beata Vergine Maria era situato nella navata destra, in pratica nell’altare dei Manfredi4. Anni dopo, con la ristrutturazione dell’altare, la copia “piccola” venne relegata in Sagrestia, per lasciar posto alla grande pala del Lippi, datata 1598 raffigurante la Madonna della Ghiara fra i Santi Prospero e Biagio5.
Questo dipinto, ora nella sagrestia, è firmato “Antonius Laetus Faciebat”6. Un particolare non di poco conto e ancora da molti sconosciuto. La firma pittorica, quasi invisibile a occhio nudo, è posta in basso, a destra, sopra una pietra7. Per onestà bisogna dire che si seppe dell’esistenza della firma solo durante l’intervento di restauro del 1981 eseguito dal qualificato studio Zamboni e Melloni, di Reggio Emilia, specializzato nel restauro delle opere dell’Allegri8. La firma è molto simile a quella che appare in identica posizione sulla copia oggi conservata a Parma, che molti studiosi considerano la più vicina all’originale.
In realtà il confronto della firma con opere originali del Correggio può avvenire solo con la Madonna di San Francesco (1515), ora a Dresda, la prima del Correggio ad essere firmata, dove però troviamo la dicitura ANTO[N]IUS DE ALEGRIS P, e col ritratto di Veronica Gàmbara dove a fatica si legge ANTON LAETUS. Ma nel 1519, dopo quattro anni, l’artista aveva avuto contatti più estesi con gli umanisti e con le firme auliche di altri pittori (Raffaello era già diventato Sanzius e Tiziano Vecellius) e gli piacque latinizzare gioiosamente il proprio cognome9. Pure il ritratto di Veronica, eseguito tra il 1520 e il 1521, viene siglato con “ANT. LAET.” [Antonius Laetus). Poi, in qualche contratto su carta, Antonio si firmerà Leto. Tutto si spiega quando l’Allegri entra pienamente nell’intensa mentalità umanistica e rinascimentale.
Questo dipinto conserva in modo toccante l’intensità e la precisione dell’originale del Correggio. Possiamo chiamarlo “capolavoro” in relazione al suo stato di replica o di prova. La definizione scaturisce dalla forza compositiva e dalla cromia risonante: vi si sente un atto creativo originale. Si può osservare che gli occhi di Maria si abbassano a guardare il suo Figlioletto, com’è costante costume nelle Madri del Correggio; si possono notare inoltre l’ammirabile esecuzione del volto di Maria e la morbidezza delle carni che qui si coglie in particolare nel piccolo braccio che Gesù protende verso il cuore della Madre.
Vi sono per di più le “firme segrete” del Correggio che sono importanti per i loro significati e per l’attenta disposizione della composizione. La prima è che le due diagonali della tela s’incontrano intenzionalmente sul cuore della Madonna: il Correggio era attentissimo a tale quasi segreto effetto e al suo valore. La seconda consiste nel fatto che ciascuna delle tre figure grandi sta entro un terzo dello spazio verticale, ben definito: anche questo è un ritmo segreto che l’occhio non precisa al semplice sguardo ma che in realtà regge armonicamente la composizione. La terza “firma segreta” la troviamo nella divisione orizzontale-verticale che compone una scacchiera precisa di nove quadrati, e qui il pittore colloca il Gesù Bambino, solo, entro il quadrato centrale! Non dimentichiamo che Gesù è il Verbo di Dio e che la sua completa nudità significa l’offerta sacrificale del suo Corpo per la Redenzione dell’intera umanità: dunque un Corpo che è posto nel centro assoluto del dipinto. La ricerca geometrica è stata studiata da Renza Bolognesi.
Allora ci chiediamo: perché la tela della sagrestia ci presenta un volto diverso sia dalle copie cinquecentesche e pure da quella secentesca del Boulanger? Possiamo supporre che il dipinto della sagrestia - pur di dimensioni più ridotte rispetto alle altre - non sia una copia ma un “altro originale”? Infatti, se fosse anche questa una mera copia dell’originale allora il copista, come avevano fatto gli altri, avrebbe replicato esattamente quello che vedeva e che la committenza indubitabilmente pretendeva. Il mistero si spiegherebbe se accettiamo l’ipotesi che questa potrebbe essere quella replica chiesta dal parroco quattro anni più tardi al Correggio da porre più bassa in un altare laterale più comodo alla preghiera, per accontentare i fedeli che si lamentavano di non poter ammirare da vicino la preziosa immagine grande, tenuta consuetamente coperta, verso la quale aumentava la venerazione?10Il Correggio non avendo più sottomano l’originale che si trovava in chiesa, impegnatissimo sugli affreschi di Parma, per soddisfare le richieste del parroco, potrebbe aver dipinto solo il volto meraviglioso della Madonna o poco più, lasciando poi ad altri di finire nei particolari l’opera. Si giustificherebbe allora che il pittore abbia potuto dipingere una Madonna simile ma non uguale alla pala precedente.
Potrebbe invece essere il bozzetto preparatorio alla pala realizzato ad Albinea dal Correggio? Quest’ultima non è una ipotesi poi così assurda. Il parroco infatti, non avrebbe mai acconsentito di spostare dalla Pieve quella tavoletta miracolosa appesa in un altare laterale continuamente visitata dai fedeli in quanto dispensatrice di grazie. Secondo gli accordi l’Allegri avrebbe dovuto venire lui ad Albinea e qui, in chiesa, trarre davanti alla sacra immagine gli spunti necessari per trasferirla poi su una più grande pala d’altare. La stessa cosa vale per il paesaggio dello sfondo, in cui, almeno nella copia conservata a Parma, sembra riconoscibile la realtà che si vede dalla chiesa guardando verso la pianura. Se osserviamo attentamente la copia di Roma (più che quella di Parma) nello scorcio di paesaggio tra la Madonna e Santa Lucia ci sembra di riconoscere anche un colle con una casa a torre. Potrebbe trattarsi della “ben posta torre” che Ludovico Ariosto ricorda con nostalgia nelle sue Rime, ripensando ai giorni felici in cui soggiornava a Montejatico di Albinea (“Non mi si pon dalla memoria torre/ le vigne e i solchi del fecondo Jaco/ la valle e il colle e la ben posta torre” Satira IV, 124/126).
Si potrebbe azzardare che l’Allegri, nella primavera del 1517, dopo aver sommariamente realizzato ad Albinea il bozzetto, mostrato e piaciuto al parroco committente, se lo sia portato nella sua bottega di Correggio dove, due anni dopo, realizzò la pala influenzato dai lavori leonardeschi che proprio in quel periodo aveva visto a Milano.
Comunque sia, la tela della Sagrestia, se pur di dimensione ridotte rispetto all’originale, è l’esemplare più antico della Madonna di Albinea che oggi possiamo considerare. Questo dipinto conserva in modo toccante l’intensità e la precisione dell’originale del Correggio. Possiamo chiamarlo “capolavoro” in relazione al suo stato di fatto. La definizione scaturisce dalla forza compositiva e dalla cromia risonante: vi si sente un atto creativo originale. Si può qui ripetere che gli occhi di Maria si abbassano a guardare il suo Figlioletto, com’è costante costume nelle Madri del Correggio; si possono notare inoltre l’ammirabile esecuzione del volto di Maria e la morbidezza delle carni che si coglie in particolare nel piccolo braccio che Gesù protende verso il cuore della Madre.
Giuseppe Menozzi (1897-1969), pittore, allievo prima di Cirillo Manicardi poi di Camillo Verno, insegnante e restauratore, per anni considerato uno dei maggiori esperti d’arte locali (un vero talento nel riconoscere le opere d’arte e individuare falsi e contraffazioni)11, sulle pagine di Stampa Sera del 19 novembre 1938 affermava di aver scoperto nella sagrestia della Pieve di Albinea “un dipinto che, finora trascurato, sarebbe un autentico capolavoro dell’Allegri. Ci troviamo di fronte ad un quadro di ingente valore artistico e di insigne fattura. Più piccolo di dimensioni di quello del coro, e, per fortuna, in ottimo stato di conservazione, colpisce immediatamente per la impareggiabile espressione. Da un’accurata osservazione del dipinto abbiamo potuto compiere quei rilievi che ci è parso utili di comunicare.
La tela è con imprimitura bianca: tutto il dipinto è impostato, sotto, in chiaro scuro a nero e con le ombre in bruno, come era solito fare il Correggio, che poi ultimava, con un mezzo impasto di colore nelle luci e velature colorate nelle ombre.
La fattura è ardita e nervosa, di chi crea, non di chi copia. È sicura, senza pentimento. Oltre alle carni e panneggio, vi si nota una maestria sbalorditiva, sia nel fogliame delle piante che nelle erbe che stanno sul terreno. Ci troviamo indubbiamente di fronte ad un dipinto di somma importanza”.
Il problema critico-attributivo rimane aperto sui vari versanti: diagnostici, storici e attributivi. Come tale lo offriamo alla pubblicazione, ben lieti che la Comunità di Albinea e il mondo dell’arte possano avvicinarsi a questo prezioso bene culturale.
1 Ligabue 2008, p. 63-72 e 108; Ligabue 2009, pp.1-6; Cadoppi 2008, pp. 15-66.
2 In merito cfr. Sirocchi 2018, pp.125-128.
3 Di queste una è conservata presso la Pinacoteca Capitolina di Roma e un’altra presso la Pinacoteca Nazionale di Parma. Entrambe, in basso, sopra un sasso, sono firmate ANTONIUS LAETUS FACIEBAT.
4 Nella visita del vescovo Coccapani del 1625 si cita nell’altare laterale “imago B.V. que imitatur picturam Corrigii pictoris eccellentissimi” (Saccani1925, p.62). Cfr. A. Cadoppi, BSR n. 147, Aprile 2013, p.33.
5 Gabriele Lippi, Madonna della Ghiara fra i santi Prospero e Biagio, 1598, Pieve di Albinea, altare dei Manfredi. In basso, a destra, si legge la seguente iscrizione: “Per la signora Cecilia Manfredi, l’anno del signore 1598 Gabriele Lippi fece”. È il primo dipinto realizzato dopo il miracolo della Madonna di Reggio ed è anche l’unica opera al momento nota di questo pittore reggiano.
6 Molti studiosi in passato negarono che l’opera fosse firmata. Da ultimo A. Cadoppi, BSR, n. 147, Aprile 2013, p. 33.
7 Quel sasso non è lì casualmente. Il Correggio sceglieva con particolare attenzione i luoghi in cui apporre la sua firma (M. Spagnolo, Correggio, La Madonna di San Francesco, Silvana Milano 2015, p.110).
8 La Soprintendenza aveva già affidato in piena fiducia il restauro di molte opere del Correggio a questo Studio.
9 G.Adani, La Madonna di San Francesco, Silvana Ed., Milano 2015, p. 47
10 Cfr.G. Saccani, La Storia di un capolavoro, in Strenna Pio Ist. Artigianelli, Reggio Emilia 1925, pp. 61-62.
L'autore di questo articolo: Giuseppe Adani
Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.