Sulla strada che conduce a Caravaggio e a Georges de la Tour c’è un grande genovese, Luca Cambiaso: è sua la raffinata Madonna della candela che s’incontra nella sala 2 di Palazzo Bianco a Genova. È probabilmente il dipinto più famoso del pittore nato a Moneglia, un dipinto di lettura pressoché immediata per un cristiano di fine Cinquecento, ma non così scontato per gli osservatori d’oggi, a dispetto dell’apparenza semplice e dimessa. È un algido interno domestico: cinque personaggi son sufficienti a rendere affollato l’angusto locale. La luce fioca d’una candela rischiara appena sant’Anna, la madre della Vergine, che sta attendendo a un lavoro di filatura, al fuso di un arcolaio. Appena sotto, san Giovannino è nella penombra e s’avvicina ai due personaggi principali: il Bambino è in piena luce, una luce irrealistica, una luce che non è naturale, che non può provenire dalla timida candela, troppo lontana per illuminarlo. No: sembra che il piccolo Gesù brilli di luce propria, riuscendo a illuminare anche la madre che lo allatta al seno. Più indietro, sulla soglia, san Giuseppe, al buio, ha il volto al chiaro d’una fonte luminosa che proviene da un altro ambiente: ce lo immaginiamo mentre a passo lento lascia la stanza occupata dalle due donne e dai due bambini. Pochi oggetti trasmettono al riguardante la semplicità popolana della casa: il fuso, la cesta di vimini appesa al soffitto, la culla di legno che s’appresta ad accogliere il Bambino.
Una scena d’intimo raccoglimento domestico, che assume i caratteri d’una meditazione mistica nel cuore d’una notte cupa e fredda, rischiarata solo dai riverberi d’un paio di lumi artificiali, quello della candela e quello che filtra dalla stanza dove si sta recando san Giuseppe, e dalla luce divina di Gesù, una sorta di stella che riluce forte e viva nelle tenebre. Si osservi il quadro anche da lontano: l’intensità luminosa del Bambino apparirà forse ancor più evidente, renderà ancor più manifesta la riposta estasi domestica di questo dipinto di Luca Cambiaso. La gamma cromatica è ridotta a pochi toni terrosi e verdastri che scarnificano ulteriormente una composizione di gran rigore geometrico, quasi estrema nella solida compattezza della sua sintesi volumetrica. Cambiaso affronta un soggetto comune della pittura sacra e ne dà una lettura ch’è al contempo intellettuale e spirituale, una lettura che lascia al reale uno spazio volutamente risicato.
Luca Cambiaso, Madonna della candela (1570-1575; olio su tela, 104 x 109 cm; Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco, inv. PB 1958) |
Gli effetti luministici che Cambiaso adoperò per la sua Madonna della candela hanno chiamato in causa numerosi confronti con le atmosfere dei dipinti di Caravaggio, le cui prime opere note risalgono a una ventina d’anni dopo il capolavoro cambiasesco dei Musei di Strada Nuova: la Madonna della candela è dei primi anni Settanta del Cinquecento, mentre le più antiche attestazioni conosciute della pittura caravaggesca rimontano ai primi anni Novanta. Dalla riscoperta novecentesca di Caravaggio in poi, la critica ha assunto varî atteggiamenti nel riconoscere debiti, derivazioni, accostamenti, vicinanze tra il genovese e il milanese. Nel 1958, Wilhelm Suida e Bettina Suida Manning, padre e figlia, scrissero a quattro mani una corposissima monografia su Luca Cambiaso che non lascia dubbî su ciò che pensavano della sua pittura: “Honthorst e tutti quanti i caravaggeschi di tutte le nazioni d’Europa, e finalmente Georges de la Tour”, scrivevano i Suida, “rimarranno debitori della visione profetica del grande genovese nella infinità di scene notturne da loro dipinte”. Prima ancora, nel 1935, Georges Isarlo, in polemica con Berenson, Longhi e Adolfo Venturi, s’era autoproclamato lo studioso che aveva “resuscitato” Luca Cambiaso (lo considerava la “scoperta” a cui era più affezionato), e soprattutto aveva stabilito che “gli studî della luce hanno reso Luca Cambiaso un grande pittore precaravaggesco”, e che il genovese era “il più grande luminista del XVI secolo”. I suoi notturni, a cominciar dalla Madonna della candela, erano ritenuti una palese anticipazione della pittura del reale di Caravaggio.
Gli studî su Cambiaso hanno conosciuto ulteriori evoluzioni nel corso degli ultimi decennî e oggi siamo in grado d’inquadrare con più appropriatezza il contesto entro cui l’artista operò: è dunque ormai impossibile leggere i suoi intensi notturni senza far riferimento alla temperie culturale dell’epoca. Nel 2007 si tenne a Genova una grande mostra su Cambiaso, curata da Piero Boccardo, Franco Boggero, Clario Di Fabio e Lauro Magnani: nel catalogo, dopo un saggio d’apertura di Arturo Pacini che forniva al lettore un quadro della Genova del secolo XVI, un contributo di Magnani si concentrava su “idea, pratica, ideologia” di Cambiaso e aggiornava una proposta che lo studioso aveva presentato già negli anni Ottanta: l’idea di Magnani è di leggere i notturni che popolano l’arte di Luca Cambiaso a partire all’incirca dal 1570 in rapporto alla pratica meditativa che sant’Ignazio di Loyola descriveva nei suoi Exercitia spiritualia, diffusi anche in Liguria per opera dei padri gesuiti genovesi. La meditazione ignaziana vede nella privazione della luce (con tanto di ianuis ac fenestris clausis, “porte e finestre chiuse”) una condizione necessaria ad exercitia melius agenda (“per fare meglio gli esercizi”), per giungere meglio allo stato di contemplazione della divinità. Può sembrare paradossale, ma per Ignazio di Loyola fare a meno della luce favorisce la vista: una vista che dev’esser però intesa come “vista immaginativa”, che poco ha a che vedere con la visione d’un evento nel suo svolgimento reale, con l’osservazione del dato fenomenico. È ricordo dei sensi, più che esercizio dei sensi. È la vista dell’immaginazione che consiste nel ricreare con la propria mente un luogo al fine d’integrarlo col mistero della religione, ed è uno dei preamboli per compiere correttamente gli esercizi spirituali.
Ecco dunque cos’è la Madonna della candela: un’immagine mentale, un prodotto della vista immaginativa, un’opera pienamente inserita nel clima della Controriforma e tesa a suscitare sentimenti di raccolta e cogitabonda devozione nel fedele che l’ammira. È qui che va trovata la più profonda differenza che separa Cambiaso da Caravaggio, quando s’avanzano paragoni tra i notturni cambiaseschi e il luminismo caravaggesco: il primo è pittore della mente, il secondo pittore del reale. È considerevole la distanza concettuale, adoperando le parole di Magnani, “tra una luce che rivela, un fuoco fisso, tipico di un processo mentale, che rende rilevante il soggetto come nel processo della meditazione, e una luce che indaga un ambiente, che oggettivizza nel suo movimento, toccando, senza apparente gerarchizzazione, figure, cose, protagonisti”. E il reale, in Luca Cambiaso, appare piuttosto come ricordo del reale, più o meno concreto: è molto vivo, per esempio, nel Cristo davanti a Caifa del Museo dell’Accademia Ligustica, ma è pressoché azzerato nella Madonna della candela.
C’è un’innegabile distanza, dunque, tra Cambiaso e Caravaggio, ma sussistono anche alcune tangenze, al di là dell’interesse per le ambientazioni notturne: nei cambiaseschi ricordi del reale, lievi bagliori di luce fanno emergere dalle penombra profili di volti e di mani, rivelano espressioni e posture. Il grande lombardo può averne tratto alcuni spunti? Un tramite tra lui e Cambiaso potrebbe esser stato il marchese Vincenzo Giustiniani, anch’egli genovese: la sua cospicua raccolta, una delle più sontuose della Roma d’inizio Seicento, contava svariati dipinti a soggetto notturno, nonché alcune opere di Cambiaso. Non la Madonna della candela: di questa non conosciamo l’originaria collocazione. Giunse ai Musei di Strava Nuova nel 1926 col legato del collezionista Enrico Lorenzo Peirano, ma non sappiamo dove fosse in antico. Nella raccolta di Giustiniani figuravano però altre opere cambiasesche. Le vide Gerrit van Honthorst: il suo Cristo davanti al sommo sacerdote è debitore del Cristo davanti a Caifa presente in antico nella collezione Giustiniani. E potrebbe non essere così impensabile ipotizzare che le abbia viste anche Michelangelo Merisi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).