La città di Bruges è tappa obbligata per tutti gli appassionati d’arte che si trovino ad intraprendere un viaggio in Belgio. Il capoluogo delle Fiandre occidentali è un gioiello splendente, con il suo centro storico medievale che dal 2000 è stato dichiarato patrimonio UNESCO, impreziosito da sontuosi palazzi, monumenti e chiese, oltre che da importanti musei con straordinari dipinti della storia dell’arte, con opere di Bosch, Van Eyck, Hans Memling solo per citare alcuni nomi. Tra i luoghi più rilevanti va annoverata la Onze-Lieve-Vrouwekerk o chiesa di Nostra Signora, che con la sua torre campanaria si impone sullo skyline cittadino (peraltro è la seconda torre in mattoni più alta del mondo, con la sua guglia che svetta oltre i 115 metri). Ma non è solo la sua eccezionale architettura a renderla una delle attrazioni più visitate: è grazie soprattutto ai capolavori che vi si conservano all’interno, di cui senza dubbio un ruolo di primo piano è costituito dall’opera nota come la Madonna di Bruges, scultura di Michelangelo, prima delle poche sculture ad aver abbandonato l’Italia quando il maestro toscano era ancora in vita.
La chiesa gotica è tra i luoghi sacri più antichi di Bruges: sorta in età carolingia è stata poi rimaneggiata numerose volte durante i secoli (la navata centrale è datata al 1210, mentre il bel coro poligonale fasciato da archi rampanti è stato costruito tra il 1270 e il 1335). Nella chiesa, il cui accesso è a ingresso libero, si conservano alcune opere significative, fra cui un sontuoso pulpito settecentesco in legno di gusto barocco, ma i veri tesori sono custoditi all’interno del museo, di relativamente recente costituzione, che si sviluppa in parte dei transetti, nel deambulatorio e sul presbiterio, dando vita a un complesso certo non esteso ma che giustifica un prezzo del biglietto che sarebbe fin troppo esoso per un’opera sola, per quanto essa sia uno dei più importanti capolavori della storia dell’arte.
Di grandissima qualità sono i confessionali intagliati nel legno di rovere dalle mani di Jacob Berger e Ludo Hagheman, scansionati dall’inserto di figure a tutto tondo che simboleggiano il Vizio, la Fede e alcuni santi. Si tratta di uno dei complessi scultorei più importanti della città fiamminga. Tra le prime cappelle che s’incontrano entrando nel museo c’è quella voluta da Louis de Gruuthuse, influente consigliere dei duchi di Borgogna e cavaliere dell’Ordine del Toson d’Oro. Il sontuoso palazzo dove viveva e che ancora oggi porta il suo nome fu collegato per sua iniziativa alla chiesa attraverso una cappella a due piani, dalla cui sommità lui e la sua famiglia potevano osservare le funzioni religiose, mentre scendendo al livello inferiore poteva essere raggiunto da un sacerdote per ricevere la comunione. Le altre cappelle sono state perlopiù rimaneggiate in epoche recenti: degne di nota sono la Cappella del Sacramento, voluta dal vescovo J.B. Malou a metà del XIX secolo in stile neogotico e impreziosita da pregevoli vetrate, e la Cappella Lanchals. Quest’ultima appartenne a Pieter Lanchals, consigliere e amico intimo dell’arciduca Massimiliano D’Asburgo, che nel 1488, a seguito di una rivolta di alcune città fiamminghe, fu decapitato durante un’esecuzione a cui l’arciduca fu obbligato ad assistere. Leggenda vuole che per vendetta, poiché nel simbolo nobiliare di Lanchals campeggiava un cigno, l’arciduca decretasse che nella città di Bruges vivessero per sempre alcuni esemplari di quegli eleganti pennuti, ancora oggi presenti nel cosiddetto “lago dell’amore”.
Il corpo del consigliere riposa dietro l’imponente lapide barocca che domina la cappella tra le due finestre; sempre in questo spazio si trovano tre sepolcri di origine medievale che testimoniano un’usanza diffusa a Bruges all’incirca dal 1270, e che vedeva dipingere l’interno delle tombe in mattoni. I dipinti dai colori vivaci mostrano figure sacre, croci e fiori. Queste raffigurazioni venivano eseguite con grande rapidità, poiché nel Medioevo spesso i morti venivano sepolti il giorno stesso del decesso, obbligando i pittori a lavorare in grande fretta e accovacciati nelle tombe, dove eseguivano i loro disegni sulla calce bagnata, ma con risultati piuttosto grossolani.
Di grande interesse sono diversi dipinti e dossali sparsi in tutto lo spazio museale, tra i quali i più notevoli sono un’Adorazione dei pastori dipinta da Pieter Pourbus nel 1574, e commissionata da un giurista di Bruges che è raffigurato insieme ai suoi figli nel pannello di sinistra, mentre la moglie e le figlie sono eternate in quello di destra. Sulla fronte di alcuni di essi si scorge una croce rossa, poiché già deceduti quando il pittore realizzò l’opera.
L’intervento di Pourbus si trova anche nel trittico con la Trasfigurazione di Cristo, che fu commissionato a Gerard David, pittore di origini olandese, che si formò sullo stile di Hans Memling. L’opera che viene datata ai primi anni del Cinquecento mostra una fresca e scenografica impaginazione nella tavola centrale, mentre i due sportelli laterali dipinti da Pourbus circa settant’anni dopo rivelano le difficoltà dell’artista ad adeguarsi allo stile di David.
Di Pourbus è anche una monumentale Ultima Cena, mentre qui si trova anche il capolavoro di Adriaen Isenbrandt, che seguì la lezione di Gerard David, e di cui si conserva una sua opera anche nella chiesa di San Pancrazio a Genova. Il pannello con la Madonna dei Sette Dolori mostra un certo interesse per l’arte dei Primitivi ma anche un gusto per gli elementi classici a cui è demandata l’architettura della scena principale, attorno alla quale si sviluppano le storie dei Sette Dolori. Discreta è anche una Cena in Emmaus di Hendrik Ter Brugghen, artista che durante il suo viaggio in Italia venne a contatto con lo stile di Caravaggio, e una Crocifissione di Antoon van Dyck.
Ma è nel presbiterio che si concentrano alcune delle opere più straordinarie della chiesa: sull’altare è sospeso il lussuoso Trittico della Passione dipinto da Barend van Orley e Marcus Gerards nel 1534. L’installazione del dipinto e le cancellate fanno parte di un rinnovamento complessivo dell’area sacrale, realizzato in vista dello spostamento delle spoglie di Carlo il Temerario, che vennero qui accolte solamente nel 1563, più di ottant’anni dopo dalla morte del condottiero. Infatti, il potentissimo duca di Borgogna, che aveva a lungo coltivato velleità espansionistiche e di potere, sperando perfino di sottrarsi dal giogo di essere vassallo del re di Francia, e poter così vedere i suoi possedimenti divenire regno, morì nel 1477, mentre stava dando assedio a Nancy in Lorena. Il suo corpo venne trovato solamente due giorni dopo, con il cranio spaccato, e a lungo trovò riposo in una chiesa della città francese.
Ma prima del duca la chiesa già ospitava il corpo della sua sfortunata e unica figlia, Maria di Borgogna, che in vita vide i regni ereditati dal padre ridursi drasticamente e che perì incinta cascando da cavallo nel 1482. Per volontà di suo marito Massimiliano d’Asburgo, in seguito divenuto imperatore del Sacro Romano Impero, fu commissionato il sontuoso sepolcro. Il modello in legno fu creato dallo scultore Jan Borreman con l’aiuto di Renier van Thienen, e successivamente placcato in oro e smaltato dall’orafo Pierre de Beckere.
Realizzato tra il 1490 e il 1502, il monumento funebre di gusto tardogotico, che raffigura la nobildonna supina con le mani in preghiera e adorna di una lussuosa veste istoriata e corona, è un capolavoro di freschissimo naturalismo, soprattutto nella resa delle espressioni facciali. Il sarcofago sottostante in marmo nero è ornato dagli alberi genealogici in rame della madre e del padre, mentre ai piedi si distende un cane simbolo della fedeltà femminile.
A non dissimile disegno risponde anche il sepolcro del Temerario, il quale essendo più tardo mostra anche elementi che aprono con più decisione al Rinascimento, come le ninfe che sorreggono lo scudo e nello stile dell’armatura indossata dal duca, il quale ostenta anche i simboli di appartenenza all’Ordine del Toson d’Oro, mentre ai piedi si trova il leone, simbolo di forza. Si tratta di un’opera di Jacques Jonghelinck, che studiò anche in Italia presso la bottega dello scultore Leone Leoni.
Ancora numerosi sono i tesori custoditi nella chiesa, ma tra tutti gli ori, le vetrate, sculture di mastodontiche dimensioni e imponenti dossali d’altare, sono poco meno di 130 centimetri di marmo ad attirare l’attenzione del visitatore, a costituire il vero e insuperabile capolavoro della chiesa. Tanto misura la celeberrima scultura della Madonna con Bambino, opera eterna di Michelangelo Buonarroti, che a dispetto delle sue misure contenute giganteggia qualitativamente nel contesto dove è inserita, un monumentale altare in marmo nero e colonne, costruito su disegno di Jan de Heere di Gand, realizzato per conto della ricca famiglia di mercanti dei Mouscron, gli stessi che commissionarono la statua a Michelangelo. L’altare fu costruito diversi decenni dopo l’arrivo dell’opera michelangiolesca, probabilmente da come si evince dalla lapide alla base dell’altare, poco prima della morte di Pierre Mouscron, avvenuta nel 1571: Pierre Mouscron, come altri della sua famiglia, fu sepolto qui.
L’ altare sembra assolutamente fuori misura per la piccola statua, al fianco della quale sono state realizzate due gigantesche allegorie, che al pari dell’altare, riescono a sparire al confronto del capolavoro. Il candore pallido della statua si imprime sul nero marmo della nicchia esaltandone le virtuosità formali. Michelangelo ricavò la statua da un unico blocco e rappresenta una Madonna che siede in trono, dall’iconografia bizantina Sedes sapientiae, da cui si discosta, poiché il bambino non appare in braccio, ma come se si stesse divincolando dalla presa della madre per muovere alcuni passi verso lo spettatore. È sul dualismo madre-figlio che si basa la forza del gruppo scultoreo, con la Madonna placida e immobile e il Bimbo che mostra una grande energia vitale, così anche il pesante drappo della donna, che si risolve in abbondanti pieghe e copre ogni centimetro di pelle, si oppone alla morbida nudità del Gesù, o l’aria pensosa e triste di Maria che si confronta invece con l’impetuosa sicurezza del Redentore.
Il mantello drappeggia e incornicia con grazia il capo della Madonna facendo risaltare il volto preoccupato e assorto, i cui occhi sfuggono tanto il contatto con il Bambino quanto quello con il pubblico, segno prodromico che simboleggia la consapevolezza del destino infausto a cui è destinato il figlio per redimere dal peccato tutta l’umanità. Ella ne ha forse letto le vicende nel libro delle Sacre Scritture che regge con una mano, mentre con l’altra tenta invano di trattenere Gesù, di trattenerlo a sé, di proteggerlo da quel suo glorioso e sanguinoso compito.
Tutta la tenerezza e l’intimità tra i due è demandata dall’incrociarsi delle loro mani. Alla fragilità emotiva e alla grazia femminile si contrappone la baldanza del bambino, alto e robusto come un piccolo Ercole: è pronto e non ha alcun indugio sull’incarico a cui deve adempiere. Il suo tenero e polito corpo è pronto a distaccarsi da quello che lo ha generato. Tutto il gruppo è venato da una temperie classica, percepibile nella resa anatomica dei due, quanto nelle ricche pieghe della veste della Madonna, e in quella testa mediterranea all’Antinoo del bimbo. La Madonna fu scolpita a tutto tondo, con un trattamento del marmo traslucido, capace di trattenere il segreto di una lucentezza luminosa che si riverbera sui corpi, se si eccettuano pochi brani, come una spalla e le rocce ai suoi piedi che mostrano ancora i segni dello scalpello.
Nonostante la smisurata fama del gruppo statuario, ancora poco chiare sono le origini della genesi di questo capolavoro, anche perché fu l’autore stesso a mantenere la riservatezza. Michelangelo si trovò ad affrontare la commissione della Madonna con Bambino che era relativamente giovane, ma proprio in quegli anni la sua carriera stava subendo una decisa svolta, e la sua fama si stava ampliando a macchia d’olio. Nel 1499 si era distinto con la realizzazione del suo primo grande capolavoro, la Pietà realizzata per la Basilica di San Pietro a Roma, mentre due anni più tardi, rientrato a Firenze, ottenne la commissione del David.
Piuttosto concorde è infatti la critica che ritiene di rintracciare le premesse della Madonna di Bruges nel lasso di tempo che intercorre tra le due opere, o comunque negli anni fiorentini consumati tra il 1501 e il 1505. Ma fu Wilhelm Reinhold Valentiner che nel 1942 propose di metterla in relazione all’Altare Piccolomini. Michelangelo, infatti, nel 1501 accettò l’incarico dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, futuro papa Pio III, per la realizzazione di quindici statue per l’altare Piccolomini nel Duomo di Siena. Tale progetto, interrotto e ripreso cinque volte, non fu mai realmente portato a termine da Michelangelo che realizzò solo quattro santi, decidendo poi di abbandonare una commissione che si doveva essere rivelata troppo limitante per il prestigio artistico che stava via via acquistando.
Secondo Valentiner, Michelangelo decise di scolpire la Madonna , sebbene non menzionata nel contratto senese, per la nicchia centrale dell’altare Piccolomini tra il 1504 e il 1505, salvo decidere poco dopo di ottenerne un maggior profitto e venderla ai fratelli Mouscron, ricchi mercanti di stoffe nativi di Bruges ma con interessi anche in Italia (dov’erano detti anche “Moscheroni”). Ancora oggi l’ipotesi di Valentiner è fortemente dibattuta. Quel che è certo è che l’artista mantenne il più assoluto riserbo, tanto che i suoi maggiori biografi Vasari e Condivi parlano della Madonna di Bruges in termini assolutamente vaghi, e il primo ne scrive come di un tondo mentre per il secondo si attestava come un bronzo.
Le poche informazioni note provengono da alcune lettere intercorse tra Michelangelo e il padre, in cui si premurava di chiedere ”quella Nostra Donna di marmo vorrei la facessi portare costì in casa e non la lasciasi vedere a persona”, e poi successivamente nelle quali seguì il trasferimento dell’opera verso le Fiandre, avvenuto anche questo in gran segreto dal porto di Livorno o di Viareggio. Le ragioni del silenzio che attornia l’opera e le sue vicissitudini forse sono da imputare al fatto che l’artista non si era ancora disimpegnato con l’altare Piccolomini, i cui committenti aspettavano i suoi servigi ormai da tempo.
Nonostante la cautela adoperata per l’opera è stato notato come la Madonna del Cardellino di Raffaello sembra in alcune soluzioni formali tradire una conoscenza diretta dell’opera michelangiolesca. Sicuramente però i Mouscron sborsarono per l’opera una notevole cifra, quella di 100 ducati, l’equivalente grosso modo dello stipendio di un anno e mezzo di un buon artigiano dell’epoca. Nel 1514 l’opera fu donata da Jan Mouscron e dalla moglie alla chiesa di Bruges, per la quale venne realizzato il nuovo altare, a condizione che vi rimanesse per sempre. Purtroppo, questa volontà fu disattesa e l’opera fu prima rubata per volontà di Napoleone e portata a Parigi, da dove tornò con la caduta dell’imperatore francese, e poi durante il secondo conflitto quando fu requisita nel settembre 1944 dai soldati tedeschi per il vagheggiato museo di Hitler. Fu ritrovata l’anno successivo dai Monuments Men, reparto per i beni culturali dell’esercito americano, che la individuarono in una miniera di sale ad Altaussee, in Austria. E la Madonna di Bruges è oggi la punta di diamante di un museo di straordinaria qualità, anche se di contenute dimensioni.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.